mercoledì 5 dicembre 2018

5 dicembre: un dono da ricambiare


Passato il momento della gioiosa sorpresa di aver ascoltato (poco) e letto (molto) la “prodigiosa” Relazione di Nicola, mio parente, amico e sodale di Lettere e Poesia, eccomi a tirare le somme su quanto ho letto con grande attenzione e attenta riflessione. Non è facile raccontare le emozioni provate, la commozione sempre in agguato, il tumulto del cuore a comprenderle tutte. Nicola è stato molto generoso con il mio romanzo, devo ammetterlo, ma nello stesso tempo è stato anche puntuale scopritore di ogni mio più riposto pensiero, del non detto, oltre il profluvio di parole da lui ben interpretate, con l’arte consumata del professore, che con chiarezza e dovizia di particolari spiega, e del critico letterario, cui nulla sfugge a livello di connotazione di genere, forma e contenuto di un libro preso in esame. Qui, però, non si è trattato solo del suo “lavoro di docente e di critico", si è trattato soprattutto di una lettura condivisa con gli occhi del cuore e di quell’anima antica che ci accomuna: 
“in fondo le radici di Lina sono le radici di una generazione come la mia che ha avuto padri contadini, una generazione che oggi può dirsi fortunata per aver vissuto quel sogno dell’infanzia e della giovinezza, per non aver conosciuto la noia, per aver visto la luce scivolare sugli alberi e lungo l’arco del cielo, per aver sperimentato la onestà, la generosità, la dignità, l’amore per la vita, l’amore per gli altri”.
Così esordisce Nicola Pice, creando da subito un’atmosfera familiare di incantata civiltà contadina, in cui erano vissuti con semplicità e totale adesione i valori di sempre, oggi purtroppo del tutto dimenticati. Valori che erano praticati perché profondamente sentiti e non indotti dalla istruzione, dalle letture, dalla conoscenza sapiente della mente, ma esclusivamente affiorati dalle radici, che affondavano nell’humus dei padri e dei padri ancora e, perciò, tramandati dalla viva voce del loro raccontarsi nell’unica lingua che conoscevano: il dialetto.
Nicola, infatti, rileva la caratteristica di quel tempo “antico”: “un tempo cadenzato dal suono della lingua dialettale e come segnato da una dimensione profetica, come intriso da una dimensione umana che sapeva di sudore e di rinunce, di attese e di speranze, di giornate grigie, ma anche di giorni che ti facevano respirare una gioia leggera nell’aria, pregna di un profumo che sapeva di ulivo e di sapone, talvolta sfumante nel fiabesco, giorni segnati nell’anima dal sapersi aprire agli altri e resi luminosi dagli occhi dei nostri padri e delle nostre madri che sapevano parlarsi, gli occhi dei nostri padri instancabili e muti che ci amavano senza parole e gli occhi delle nostre madri che avevano le mani coperte di farina o di schiuma.
E il romanzo di Lina si fa memoria del cuore, perché la memoria comincia dal rumore di un cuore, e si fa voce dell’anima…”.
Come non emozionarsi di fronte a questi rilievi di fondamentale importanza per comprendere profondamente le motivazioni che mi hanno spinto a scrivere il mio romanzo “autobiografico”, mettendo a nudo proprio le ragioni del cuore per parlare anche dello scopo ultimo che ho cercato e trovato man mano che procedevo nel mio racconto. Raccontare per non dimenticare. Perché le nuove generazioni non dimentichino un tempo che sembra cancellato del tutto.
Non a caso, Nicola continua a sviscerare, partendo dai luoghi che hanno rappresentato il “campo scenico” delle mie esperienze esistenziali durante l’infanzia e l’adolescenza fino alla mia prima giovinezza, sia pure a fasi alterne (via Maggiore angolo via De Rossi e via Generale Montemar), le immagini che si succedono e che “hanno il tocco di leggerezza, immagini che man mano che scorrono danno la consapevolezza del nostro esistere e tracciano il filo che delinea una traiettoria esistenziale, mentre ci si dispone alla ricerca di sé e si esalta l’ancestrale armonia con gli affetti più cari”. E qui ci troviamo già di fronte sia alla motivazione che allo scopo di questo libro. 
Di 425 pagine. 
E siamo solo al primo di due volumi. Quello conclusivo, riguardante soprattutto i ciliegi, sarà pubblicato in primavera, con gli alberi in fiore.
Ora, però, sono le piogge autunnali a fare da sfondo alle varie vicende narrate, autobiografiche e non solo.
Bellissima e poetica la descrizione della struttura del romanzo:
“La costruzione narrativa si snoda in pagine di coinvolgente liricità, generate dalla coscienza dei molteplici fili, invisibili quanto tenaci, che uniscono il proprio vivere al racconto che senza soste l’autrice intesse. Lo scorrere della propria vita fa e disfa le varie storie, le loro simmetrie, le loro risonanze, senza il bisogno di inventare nulla, storie che si dipanano come le anse di un fiume, le ramificazioni di un delta, le nervature di una foglia”.
 Meravigliose similitudini, che utilizzano alcune metafore insolite ma quanto pertinenti al linguaggio usato, alle vie percorse, alle strategie linguistiche adottate perché tutto risultasse come emergere dai fondali dei ricordi, dalla piena di un fiume che si slarga alla foce, dalle ramificazioni di un albero che trae linfa dalle terra e si espande verso il cielo.
Ma ancora di più mi emoziona la seguente similitudine/metafora che definisce magnificamente la “struttura ad incastro” del romanzo, così come io l’ho pensata, così come l’ho voluta e realizzata:
“Ti fa pensare a quei forzieri orientali dai molti cassetti incastrati, dove al più interno si arriva solo dopo averne aperti alcuni secondo un ordine preordinato. E tu finisci preso dal desiderio di continuare ad aprire, di riandare indietro, di frugare, di inseguire visioni di cose che senti come tue, di scoprire vicende di persone che hai l’impressione di averle pure tu da sempre conosciute”.
Ecco, io desideravo il coinvolgimento emotivo del lettore! E tu, mio caro Nicola, mi confermi (ma tutti i precedenti Relatori hanno puntualizzato di trovarsi all’interno del romanzo, di sentirsi partecipi degli episodi e delle atmosfere, dei ciliegi “toccati con mano”, con lo scrosciare della pioggia sulla testa) che questo desiderio si è trasformato in realtà. Quale emozione più grande per me sapere che chi legge ha la netta percezione di “entrare nelle pagine” e sentirsi all’interno delle varie storie vissute insieme con i numerosi personaggi in un tempo presente, che comprende passato e futuro?!?
E allora ben vengano anche i riferimenti colti a connotare più e meglio questa creatura che mi palpita nelle viscere come un bambino che si alimenta ancora del mio sangue prima di vedere completamente la luce, il mondo.
“Allora puoi capire anche la foglia bagnata di pioggia posta in copertina: (…) un richiamo dell’infanzia che fa pensare ai versi di Sujata Bhatt: “Sono quella / che va via, sempre / via con la casa / che può restarmi dentro il sangue / - la mia casa che non ha posto / in nessuna geografia”. (…)
E ti spieghi la pioggia come metafora di un mistero che ci avvolge e ci sovrasta, ci mette in contatto con i nostri limiti, i nostri muri interiori, le nostre paure più profonde. (…): “nasco / nell’odore che la pioggia / sospira dai prati / di erbe vive”, cantava il grande Pasolini. E la pioggia fa sentire meno soli e fa rispuntare dentro di noi un’ansia di altri tempi. Senza dimenticare che la pioggia, “oltre che lavare ferite, ricucire progetti, ricamare nuovi arcobaleni”, ci riportava (o ci restituiva?) i padri al tepore domestico, e le ciliege ci davano il senso mai perduto dell’attesa e mettevano in moto tutte le fibre del nostro essere, animati dalla speranza e dalla prospettiva della gioia per le ciliege in arrivo.
“Guardiamo il mondo una volta, nell’infanzia. / Il resto è memoria” scrive la poetessa Louise Gluck: (…)
È la voce dell’infanzia che ci richiama a un mondo di cose e persone che non è più. (…)
Il tempo appare sospeso come in una immobilità di sogno. E con esso i gesti dei personaggi, in un silenzio irreale, rotto solo dal rumore della pioggia, (…)tenuta a bada dalla figura di nonno Mincuccio e ingentilita dalla presenza di nonna Angelina, lui odore di terra e profumo di pioggia, lei odore di pane impastato col segno della croce e profumo di casa.
E le loro figure continuano a vivere nello spazio sacro del ricordo che fatalmente ci risucchia e risuona nel cuore. Perché in fondo il romanzo di Lina specifica che la memoria comincia / dal rumore del cuore. E lei scrive per non dimenticare il sogno vissuto nello spazio-luce dell’infanzia, inverando le parole del grande Pier Paolo Pasolini: “La più grande attrazione di ognuno di noi / è verso il Passato, perché è l’unica cosa / che noi conosciamo ed amiamo veramente. / Tanto che confondiamo con esso la vita. / È  il ventre di nostra madre la nostra meta”.
E non ci poteva essere conclusione più bella. Più vera. Più profonda!
Ed è qui che sgorgano anche le lacrime.
Grazie, Nicola, per questa pioggia benefica a lavarmi l’anima. A scaldarmi il cuore.


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