venerdì 21 dicembre 2018

RIFLESSIONI minime sul "punto di vista personale"


Oggi prendo spunto da alcuni commenti che di solito si fanno nella piazza virtuale di fb sui più disparati argomenti, per riflettere brevemente intorno ai punti di vista che sono sempre tanti perché ognuno ragiona con la propria testa, come è giusto che sia. Purché si ragioni. Alcune volte, però, mi capita di pensare che non sempre ci si imbatte in teste pensanti. Anche questo potrebbe essere un punto di vista. Il mio. Ma potrebbe anche avere un fondo di verità. Come vado ad argomentare.
Ebbene, se non ricordo male, nel dodicesimo capitolo del suo romanzo Il fu Mattia Pascal, Pirandello usa le metafore letterarie del “lanternino” e dei “lanternoni” per focalizzare la sua attenzione sugli innumerevoli punti di vista di ogni essere umano, che è contemporaneamente “uno, nessuno e centomila” (roba da capogiro in quante teste si moltiplica una sola testa!) e che, pertanto, moltiplica all’infinito gli infiniti punti di vista che paradossalmente, però, si riassumono in uno solo perché tutti gli altri non contano. Ognuno pensa di essere l’unico detentore della verità assoluta e, quindi, non tiene in alcun conto il punto di vista dell’altro. Non esiste. Tutto viene filtrato dalla propria soggettività: ognuno ha il suo lanternino, appunto. Ciascuno, infatti, sceglie il “vetro colorato” del suo “lanternino”, che proietta un cono di luce diverso sulle sensazioni del mondo interiore e sulle percezioni del mondo esterno.
Tanti coni di luce diversi, poi, messi insieme formano, per via di alcune affinità di pensiero, inclinazioni, propensioni, intelligenza differenziata perché multipla (Gardner), campo di azione, e via dicendo, dei “lanternoni” (ossia, valori, ideologie, credenze, …), che sembrano assoluti
E la storia degli uomini è fatta di queste forti luci, che però in realtà non sono eterne: crollano, come sono crollati i miti, gli eroi, gli dèi.
E l’uomo, senza questi fari luminosi, rimane al buio e si aggrappa nuovamente al suo minuscolo lanternino pur di ritrovare la strada da percorrere, giusta o sbagliata che sia, nel buio che sopravviene, confidando nella sua personale fioca luce, della cui portata positiva o negativa non sempre è consapevole.
Ma è con quella sua fievole luce che va alla ricerca di sé, che è poi la ricerca stessa della felicità, che avvertiamo quando sentiamo una sorta di “pienezza interiore”, che è amore, esultanza, palpito, gioia di vivere. Solo scoprendo chi siamo, possiamo imparare a conoscerci e a mettere in fuga tutte le ombre che oscurano giorni e mondo e cuore, per sentirci appagati di noi e del noi, che siamo, soggettivandosi e oggettivandosi, per vederci come ci percepiamo e come ci percepiscono gli altri.     
La conoscenza di sé, dunque, nasce da una divisione: “io”/“non io”; e da una moltiplicazione: l’“io”, visto da molteplici “tu”. L’“io” è preposto alla conoscenza. Il “tu” alla comunicazione perché sottintende sempre una o più relazioni.
Ed ecco che il riferimento al viaggio e al mare diventa indispensabile nella metafora dell’esistenza umana che si fa conoscenza nell’andare… incontro al mondo, a sé stessi, agli altri.
Sarebbe opportuno, allora, rifarsi alla teoria dei greci antichi che affidavano la conoscenza/comunicazione al mare e al viaggio attraverso il Mediterraneo,   che “mediava” gli orizzonti delle terre che lo contenevano.
Il mare, infatti, ci permette di guardare e scoprire più orizzonti verso cui possiamo “orientarci” nella nostra esperienza esistenziale, vissuta nella sua orizzontalità.  Il nostro andare ad Oriente, verso la nascita del sole, che ci dà luce, calore e l’idea di ogni nuovo inizio.
Il poeta Dylan Thomas ci ha consegnato la meravigliosa affermazione “è difficile pettinare il mare”, cioè riportarlo ad un unico universo di senso perché ogni sua onda è un pensiero che nasce e cresce su sé stesso, ma coesiste nelle acque con le altre onde, che prendono direzioni diverse a seconda del vento che le smuove e le trascina tra l’orizzonte e la riva.    
Ma ogni orizzonte ci permette di sollevare gli occhi anche al cielo (soprattutto se ci troviamo di fronte ad una montagna), e andare oltre le nuvole, dove per i greci risiedeva l’Olimpo, sede degli dèi nella loro pluralità, che distoglie il nostro sguardo da quell’unico punto, che noi consideriamo la meta del nostro andare: sopraggiunge allora un frastagliarsi di direzioni (quasi foce a delta di un fiume che si riversa nel mare) che si rivolgono anche al cielo. E qui si scopre che possiamo (e dobbiamo) considerare la nostra esistenza, vissuta nella sua verticalità.
Nel nostro andare, allora, scopriamo la bellezza (Apollo) e la passione (Dioniso) in un eterno conflitto tra sensi e anima, tra corpo e spirito, tra orizzontalità e verticalità, tra ciò che è visibile e chiaro, pur nel tumulto che ci divora, frantumando ogni razionalità e trasformandola in piacere ed esaltazione, ma anche in tempesta e dolore, e ciò che è invisibile e che permea la nostra anima di tutta la sacralità della mente divergente, che si fa Arte: Nota e Musica, Segno e Immagine, Colore e Dipinto, Armonia e Danza, Maschera e Teatro (luogo della Verità oltre la maschera), Parola e Scrittura e Poesia. Fino alla scoperta immaginifica e vera di Dio.
Esistenza vissuta o percepita (sognata?) nella sua verticalità.
Ma l’una e l’altra, bellezza e passione, connotano il nostro viaggio, ma non ci appartengono ed è per questo che andiamo alla loro continua ricerca per poterle continuamente afferrare e trattenerle nelle nostre mani e nel nostro cuore. Per questo è quasi impossibile trattenere la felicità. Abbiamo mani umane troppo piccole per trattenere una conquista così grande, che non è mai dono, perché quest’ultimo lo abbiamo perduto nell’Eden della nostra infanzia e innocenza e in ogni infanzia innocente del mondo.
Il viaggio continua, ma l’essenza del nostro andare non è la meta, ma il viaggio stesso, la curiosità, lo stupore, la meraviglia, l’avventura, la scoperta, la conoscenza, appunto. Mai certa, mai completa. Ci sono orizzonti altri in cui dobbiamo perderci e ritrovarci. Ci sono montagne da scalare per scoprire cosa c’è oltre. Da soli. Con gli altri.
 E in questo nostro andare dispersi e frantumati uno dei lanternini che ci fa luce è proprio la parola: mai sicura rassicurante, mai certa e vera, mai completamente nostra. Appena la pronunciamo o la scriviamo ci sfugge, diventa dell’altro e degli altri. Altro da noi. E il nostro punto di vista deve fare i conti col punto di vista degli altri e, quasi sempre, all’incontro sopraggiunge il confronto e l’inevitabile scontro.
La parola, che è già di per sé l’atto più creativo che esista, è sé stessa ed è tutto l’altro da sé. Come fare per pescarla tra le tante e per “addomesticarla”, visto che, nel nostro incontro con lei, soprattutto nella poesia, già noi siamo altro da noi (Thomas Eliot), e abbiamo perso il potere e il coraggio della nostra identità e, quindi, di osare?
Di qui forse la salvezza e la dannazione per chi scrive?
Sarebbe bello aprire un dibattito con tanti punti di vista diversi per smantellare il mio!
Prima o poi ci proveremo: per trovare gocce di salvezza più che oceani di perdizione…  

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