giovedì 11 gennaio 2024

Giovedì 11 gennaio 2024: il buio del primo giorno senza più il tempo filtrato attraverso l'alba...

… E impari che puoi davvero sopportare,
che sei davvero forte, e che vali davvero.
E impari impari impari…
con ogni addio impari.
(V. A. Shoffstall,
continuando “Col tempo imparerai”,
attribuito a Jorge Luis Borges)

Oggi, 11 gennaio, è una data che mi trafigge il cuore: 57 anni fa volò tra gli angeli il mio nonno carissimo che chiamavo “papà” e che è il protagonista dei primi due volumi della trilogia Le piogge e i ciliegi.

<Col tempo imparai che anche senza il tuo sorriso riuscivo a vivere, ma ci volle tanto tempo per rendermene conto. (…). Non riuscivo a guarire. Stavo male. Vivevo in uno stato di avvilimento continuo, di abulia, di annientamento. Non volevo uscire perché non volevo incontrare gente. Niente suscitava il mio interesse. (…). Trascorsero mesi di totale inettitudine. Non riuscivo a studiare. Mi mancavano due esami e la tesi per la laurea, ma non riuscivo a seguire un sol rigo a scrivere una sola parola. E come potevo? Mi ritrovavo senza testa e senza occhi e senza labbra; senza mani e senza braccia, senza gambe né piedi. Registravo a stento, pian piano, un vuoto di me che era vuoto di te. Registravo a stento la mia assenza. E un pieno di me che era dolore e buio e disperazione. Un pieno di me che avrei voluto svuotare se solo avessi saputo come fare. Il mondo era sparito con te ed io non sapevo più niente di me e del mondo. E il mondo non si era accorto di niente. Continuava a girare con i suoi giorni e le sue notti, le sue albe e i suoi tramonti. Le sue ansie e i suoi timori. I suoi dolori e le sue gioie. ‘Suoi’. ‘Sue’. Estraneo a me. Io a lui. Tra poco sarebbero fioriti i ciliegi e tu non avresti potuto pensarli nel campo non più tuo. Anche io non avrei pensato più ai ciliegi perché la cosa mi lasciava ormai indifferente. Mondo di sofferenza:/ eppure i ciliegi/ sono in fiore. Mi sussurrava disperato della mia disperazione Kobayashi Issa (1763-1827). Perché sarebbero fioriti? Per chi? Anche il mondo era indifferente. Non sapeva di te e della tua assenza. Non sapeva dei tuoi ciliegi che sarebbero fioriti nel campo di un altro e, quindi, nel campo di nessuno perché nessuno li avrebbe amati come te, come me.
Quelli che sapevano della tua assenza si dicevano addolorati, ma intanto vivevano, respiravano. Anch’io respiravo ma non vivevo. Arrivarono anche le piogge: leggere, continue. Arrivarono i temporali ed io m’illudevo di vederti sotto l’arco fuori nel cortile con gli occhi a seguire i fulmini e i lampi, esaltato dal profumo di terra bagnata e in attesa dell’arcobaleno. L’immagine spariva prima che l’arcobaleno ridesse oltre il tronco decapitato del gelso. Neppure la pioggia mi consolava. Né mi restituiva i tuoi occhi innamorati di cielo. Giunse anche l’estate senza una briciola di allegria. (…)
Spesso ti sognavo. Senza consolazione…> (I vol.)

E anche oggi ancora ti sogno e mi salvi da ogni precipizio. Col tempo ho imparato? Forse. Ma forse vale la pena di cominciare dal ricordo di quella notte in cui volasti via:
<Durante la notte, mamma fu chiamata d’urgenza perché le tue condizioni si erano aggravate e le fu detto di affrettarsi a riportarti a casa perché, se fossi morto in ospedale, saresti rimasto nella cappella accanto all’obitorio.
Mamma si precipitò a chiamare Filippo che si precipitò per accompagnarla e venirti a prendere insieme. In ambulanza dicesti: “Ora state portando il moribondo a casa!”. E chiedesti di recitare insieme il rosario. Mamma e Filippo cominciarono con te a pregare, ma dovettero più volte interrompersi perché con sgomento sentivi le tue gambe diventare insensibili e lo dicevi in un sussurro. A casa ti adagiarono nel tuo letto e cominciarono a recitare finalmente il rosario, con maggiore dolore e apparente serenità. Era l’alba dell’11 gennaio. Faceva molto freddo.
Babbo, che ti aveva amato sempre con devozione filiale, appena mamma e Filippo furono andati via per venire da te, non sapendo cosa fare e come impiegare quel tempo di disperata attesa, era uscito nel cortile ed aveva acceso il fuoco nel camino grande per farti trovare la camera bella calda al tuo ritorno. Io, dal piano di sopra ne sentivo il crepitio. Ipotizzavo il sigaro tra le labbra a dargli coraggio, a fargli compagnia.
La nonna, ora sveglia e spaventata, ti chiamava sommessamente tra le lacrime e ti aspettava. Forse aveva capito e ti aspettava. O forse era solo spaventata da tutto quel trambusto e piangeva sentendosi sola e senza la tua presenza a rincuorarla. A renderla forte. Ma ti aspettava. E arrivasti.
Lizia, Anna Maria e tutti gli altri scesero a salutarti. Lizia ti tenne amorevolmente il capo tra le sue mani. Io tentai una due tre volte di alzarmi dal mio letto in cui mi sentivo inchiodata, poi mi arresi. Rimasi bloccata e atterrita al pensiero della tua morte imminente. Presa dal rimorso di non essermi opposta a Primo. Senza le sue sollecitazioni, sarei rimasta più a lungo con te. Non ti avrei lasciato così presto. Avrei dovuto saperlo, dati i brutti sogni che avevo fatto nelle notti precedenti. Non avrei dovuto lasciarti. Non avrei dovuto lasciarti. Non avrei dovuto lasciarti. ‘Non voglio vederlo’, mi dicevo. ‘Non posso vederlo. Mi si schianterà il cuore. Tutto è compiuto ormai’.
Tu pregavi - mi dissero poi - guardando silenziosamente le pareti della tua camera, la finestra delle rose, la nonna ai piedi del letto, e stringevi con sempre minore pressione da un lato la mano di mamma e dall’altro quella di Filippo. Anna Maria fu coraggiosa, nonostante avesse solo vent’anni. Attraversò la stanza e prese dall’armadio l’abito con cui ti avrebbero vestito. Tu la seguisti con lo sguardo. Attento. Sorridesti appena e chiudesti gli occhi. Per sempre. E le mani scivolarono lungo il lenzuolo. Te le ricomposero sul petto come se stessi continuando a pregare. La gamba destra ti rimase piegata. Quasi stessi in ginocchio. Ti rimase sul volto quel sorriso. Lieve. Dolcissimo. Il tuo pendolo si fermò improvvisamente alle h. 4,20. Ed io, alle 4,20, sentii, con gli occhi sbarrati e il cuore fermo, uno scampanio festoso nel cortile. Uno scampanio a distesa. Uno scampanio impossibile, data l’ora. Seppi il dolore da quelle campane a festa. Quello scampanio si trasformò in una lama acuminata conficcata nel cervello. E mi trafisse il cuore. ‘Papà non c’è più’, mi dissi, ‘sento le campane che mi lacerano l’anima. Come le campane? Perché le campane se io sento dentro una lama che mi squarcia? Perché le campane?’ (le campane fan din don dan/ il galletto chicchirichì/ la madonnina qualche grazia faaa…). Ti perdevo e cantavo… Stupidamente cantavo… Oscenamente cantavo…
Primo uscì dalla sua camera assonnato e mi chiese: “Perché suonano le campane? Che ore sono?”. “Le senti anche tu?”, chiesi io stupita che le sentisse pure lui. Vergognandomi per quel canto. ‘E se Lui lo avesse sentito?’. “Certo che le sento. Mi hanno svegliato. Ma che ore sono?”. Poi, vedendomi pallidissima e immobile, mi chiese: “Cosa è successo?”. “Sono le quattro e mezzo”. “Le quattro e mezzo? Così presto? E come mai suonano le campane a quest’ora?”. “Non lo so. Anzi, lo so. Papà non c’è più”. “Vuoi dire che è morto?”, fece lui, incredulo. “Papà è morto”, dissi io. Per convincermi.
Rimase immobile. In silenzio. Forse non ebbe neppure un pensiero. Forse neppure quello di abbracciarmi. Mi avrebbe forse consolata? No, nessuno avrebbe potuto consolarmi. Molto più tardi. Molto molto più tardi sentii un brivido di solitudine. Ero sola. ‘Papà non c’è più’. Pensiero unico.
Ero sola. Scoprii in quell’alba livida, che ora sapeva di pianto e di pioggia, in quell’alba che era lì per tutti ma non per te, anche la mia fine. Ero morta con te. La pioggia ci stava portando via. Aveva spento le campane in un ticchettio che mi sembrò di odiare tanto stava ossessionando la mia testa. Stava cancellando ogni pensiero, ogni ricordo. Non era più un ticchettio, ma un frastuono assordante. Un uragano di scrosci d’acqua e di vento. No, la pioggia non poteva lavare lo straccio della mia anima intriso di dolore e di morte. Non sarebbe mai più tornata bianca verde rossa o gialla, la mia anima. Tu non c’eri più e io cantavo i non-colori della vita spenta. Cantavo i colori spenti della mia anima. Mamma mi mandò a chiamare più e più volte, ma io rimasi ostinatamente nella mia camera. Ero morta. Non riuscivo a vedere. Ero morta. Non riuscivo a sentire. Ero morta. Non riuscivo a parlare. Ero morta. Non riuscivo a muovermi. Ero morta.
Solo quando nonna Angelina mandò Anna Maria a dirmi che lei era molto dispiaciuta perché non stavo scendendo a vedere il nonno, che mi aveva amato tanto e che ora stava sorridendo, riuscii a muovermi. Il dolore l’aveva resa vigile. Il dolore mi aveva resa di pietra. Il dolore. E mi misi a scriverti. Non riuscivo a percepire la penna tra le dita. Ma scrissi ugualmente. Il dolore muoveva la mano e la penna. Il dolore. La scrittura. Per me erano una cosa sola. Sono una cosa sola. Fu la prima e unica lettera che ti abbia mai scritto. Poi, la strappai. E ti scrissi una poesia. Fu l’unico modo per sentirmi viva. Scesi da te e ti vidi. Sorridevi davvero. Mi chinai per mettere sotto la giacca e sul tuo cuore la poesia. Mi chinai per darti un bacio sulla fronte. (‘perché ieri non sono rimasta con te? Perché ieri non sono rimasta con te? Perché?’). La tua fronte era gelida come l’inverno che bussava ai vetri. Tu, una statua dormiente. La tua anima era volata via. Non c’era più in quel corpo la tua anima. Non c’erano più in quel corpo le favole le piogge i ciliegi il cortile le nuvole e il fuoco i gelsi e le rose. Non c’era la nonna, non c’era mamma, non c’ero io, non c’eravamo noi. Non c’era più l’alba che andava schiarendosi nel cielo e che era alba per tutti quelli che vivevano sotto il cielo. E non seppi più di quell’alba. Era una nuova alba? Era pioggia. E neppure la pioggia mi salvò perché ora, diluviando nella mia testa, mi ripeteva ossessivamente “e papà non c’è più… e papà non c’è più… e papà non c’è più…”. A lungo per tutto il giorno e la notte. Per tutto il mattino seguente fino al pomeriggio. Fino a quando vennero a prenderti. Ancora mi avvicinai al tuo sorriso che mitigava l’orrore della morte. Eri solo un sorriso. E tornai a baciarti facendo attenzione a non disgiungere, come temevo, le tue mani ancora in preghiera, appoggiate sul tuo petto. C’era il tuo corpo, ma la tua anima era volata via. Tu non c’eri ed io, prima che i corvi neri in giacca e cravatta entrassero per portarti via, scappai a rifugiarmi nelle “stanze di sopra” e non vidi più quel tuo sorriso. L’unico a parlarmi ancora di te. E il mulinello della pioggia mi martellava sempre più e mi sembrava una marcia funebre suonata follemente da mille fanfare. Il giorno dopo venni con gli altri al cimitero per la tumulazione, ma non volli vederti. Ancora una volta scappai non appena vidi il coperchio chiudersi sul tuo volto di cera. E seppi che ero ancora viva perché stavo di nuovo per morire. Mi portarono a casa. E la fanfara mi assordava sempre più. Mi misero a letto e la fanfara crepitava. Più tardi mi dissero che ero stata con gli occhi sbarrati per molto tempo. Più tardi mi dissero che nessuno aveva sentito le campane a festa nel cortile quella mattina. Più tardi mi dissero che avevi contato i quattro rintocchi del pendolo quella mattina, ma non c’era stato né per te né per gli altri il rintocco singolo che segnava la mezz’ora perché il tuo pendolo si era fermato sul tuo ultimo respiro. E tutti chissà perché si resero conto dell’inutile attesa. E nessuno sentì le campane che pure ti glorificarono nel cortile.
Più tardi capii di essere viva per quel cupo dolore in mezzo al petto dovuto alla tua assenza. Più tardi capii che ero viva per quel vuoto nello stomaco che mi risucchiava nel suo abisso. Più tardi capii che ero viva perché mi capitava di odiare tutti i vivi che incontravo, che respiravano, parlavano, si muovevano. Perché erano riscaldati dal sole e tu no. Più tardi, molto molto più tardi scoprii che l’odio verso i vivi colpisce tutti quelli che vivono quasi in simbiosi con chi muore…> (II vol.)

Più tardi… E parlo ancora del tempo! Questa volta letto attraverso il tempo nel tempo, a partire da quello che provoca o disvela nell’arco di un giorno o forse due: i tumulti dell’anima, che ci distinguono e ci rendono unici.
Ma oggi non posso soffermarmi sui prodigi e i disastri del tempo, troppo mi urge dentro il pensiero struggente di mio nonno, a cui voglio dedicare questo giorno.
Poi penseremo a confrontarci ancora sul tempo… Ci sono ancora tante piccole grandi sottigliezze che lo riguardano, che ci riguardano, ma oggi è Lui al centro dei miei pensieri, Lui, il mio eroe cantastorie, con infinito Amore. Angela

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