sabato 13 gennaio 2024

Sabato 13 gennaio 2024: TU ERI, SEI e SARAI nel TEMPO senza TEMPO dell'ETERNO TUO RINASCERE NEL NOSTRO CUORE...

E oggi voglio parlare ancora di Lui, mio nonno, come lo viviamo tutti noi, nipoti e pronipoti, ai nostri giorni, riportando ciò che sto scrivendo nel III volume per completare la trilogia, perché si possa sapere di Lui dalla prima parola alla penultima perché l’ultima non verrà scritta mai…

                                                         Tu eri, sei, sarai

<Eri nel sentimento che ci legava, nelle storie che raccontavi, nella generosità che ti contraddistingueva.

Sei in ogni parola che scrivo, in ogni pensiero che riempie il giorno, in ogni preghiera che vince il buio della notte.

Sarai l’eredità dell’amore che conoscemmo, il gesto gentile che da te cogliemmo come fiore che vince il deserto e la sabbia, la pietra e il cemento, la cima aguzza del monte, gl’inesplorati fondali marini, la neve che intirizzisce lo scricciolo e riscalda la terra e i suoi semi.

Sarai la fantasia che colorerà il mondo attraverso le fiaccole accese di nipoti e pronipoti fino alla generazione che scriverà ancora il tuo nome sui libri del tempo senza tempo e diventerai mito, santo, eroe, leggenda senza fine.

Così accade per i giusti e i puri di cuore. Per chi rinasce infinite volte per le infinite vite che inventò e ne fece dono agli altri. Con te abbiamo vissuto il dono dell’amore in tutte le sue innumerevoli forme fino ad identificarsi con il dono della poesia.

Il giorno che mi venne incontro la poesia,

m’accorsi che un vecchio-bambino,

per farmi grandi gli occhi,

m’inventava parole.

Poi mi portò per mano in un bosco incantato

dove le streghe abitavano in castelli di zucchero filato

e le fate erano serpi distese al sole.

Scoprii più tardi,

al tempo delle viole,

che mai è verità ciò che appare.

La verità è solo dono d’amore.

 

Il giorno che incontrai l’amore,

occhi immensi attraversò un “ti amo”.

Su un petalo di rosa il suo richiamo.

Fu volo rosso fuoco, in un groviglio di stelle

e un segreto di luna, a trafiggermi il cuore.

Il giorno che scoprii il mio cuore

era un giorno qualunque di primavera.

Un petalo di rosa d’improvviso

giocò con la magia di due parole…

Sul filo teso, corda di violino,

acrobata, saltimbanco il suo sorriso.

Con grovigli di risate fece capriole

e non s’accorse di forare il cielo.

 

Il giorno che toccai il cielo con un dito,

scoprii l’azzurro cristallo nel suo ordito.

Sognai corde d’argento per legarlo ai miei pensieri.

Una piuma d’angelo cancellò ogni mio ieri.

Si fece ala immensa, m’accarezzò il viso.

D’arpa e liuto risuonò il mio paradiso.

M’avvolse col suo canto di rugiada.

Canto di tenerezza ritrovata.

E riscoprii più di mille petali di rosa,

moltiplicando i “ti amo” senza posa.

 

(Ma vero dono d’amore d’ogni mio mattino

è ancora e per sempre il mio vecchio-bambino).

(a.    d. l., “Il giorno che mi venne incontro poesia”, poesia inedita)

Ecco, l’amore è moltiplicazione. Mai divisione. Comprende sempre l’altro, fino a contagiare quanti incontriamo sul nostro cammino esistenziale ed hanno negli occhi il nostro stesso sguardo acceso di nuova meraviglia e di antico stupore. L’amore è anche scoperta e riconoscimento. L’Altro con le sue nascoste verità. Ecco perché l’amore non è facile. Occorre fare i conti con “l’altro” che è sempre altro da noi, fino a quando non avvenga il possibile e mai scontato miracolo che di due se ne faccia uno, come nella splendida poesia di Erri De Luca.

Quando saremo in due, saremo veglia e sonno,

affonderemo nella stessa polpa

come il dente di latte e il suo secondo,

saremo due come sono le acque, le dolci e le salate,

come i cieli, del giorno e della notte,

Quando saremo due saremo veglia e sonno

due come sono i piedi, gli occhi, i reni,

come i tempi del battito

i colpi del respiro.

Quando saremo due non avremo metà

saremo un due che non si può dividere con niente.

Quando saremo due, nessuno sarà uno,

uno sarà l’uguale di nessuno

e l’unità consisterà nel due.

Quando saremo due

cambierà nome pure l’universo

diventerà diverso.

(E. De Luca, poesia tratta dal libro

Sola andata. Righe che vanno troppo spesso a capo,

Feltrinelli, Milano 2005)

Ma, fino a quando ciò sarà solo un desiderio o un’attesa, l’Altro rimane un’incognita, un mistero da scoprire, svelare. Non a caso, il giorno che scoprii l’Altro da me era un giorno normale, banale, direi. Ed ero bambina. L’Altro era mamma, eri tu, “papà”, era nonna Angelina, Lizia, mia sorella. Insomma, non ero io. L’Altro, nella mia casa, era gioco, amore, tenerezza, calore, fiaba, ma anche litigi, dispetti, rappacificazioni. Tra la casa e il fuori, l’Altro era più ostacolo che incontro.

Poi l’Altro si trasformò in Amicizia. Fidarsi e confidarsi. Condividere ore, risate, pensieri, sogni. Fino al disincanto. Delusione e amarezza. Diffidenza e proponimenti di essere meno entusiasta degli Altri. Delle cosiddette Amiche. Pugnalate alle spalle e ferite. Difficili da rimarginare. Dolore. Chi l’Amico? Cosa è l’Amicizia? Cosa chiede e cosa dà? Innocenza o Inganno?

Poi, scoprii che l’Altro era anche l’Amore. Quello che ti rode il cervello, ti fa galoppare il cuore, ti lascia immersa nel sogno e ti fa forare il cielo. Quello che ti fa vivere il dubbio e la certezza, annebbia il giorno e illumina le notti. Quello che ti fa perdere e ritrovare. Quello che ti esalta e ti danna. Passione, tenerezza, allegria, pianto. Morte e resurrezione. Dove il punto fermo? Dove la verità?

Il giorno che ebbi bisogno della Verità, la cercai dappertutto.

Nel cuore dell’Altro.

Nel cuore dell’Amico.

Nel cuore dell’Amore.

Nel mio cuore.

Ma era dappertutto e altrove.

Sfuggente e indefinibile. Imprendibile. Presente e assente. Vicina e lontana. Inconoscibile. Mi dannai a cercarla. A spiegarla. Secondo me. Secondo te. Ma allora non è una la Verità? Non esiste La Verità. Sono tante le verità. Quante?

Il giorno che mi illusi di afferrarla finalmente, ero proprio ad un passo da lei. Usai tutti gli strumenti dell’intelligenza, tutti gli arnesi del cuore. Le strategie delle emozioni. Tutti gli appigli della filosofia e i teoremi della scienza. Volevo dimostrare. Capire e farmi capire. Confrontarmi per convincere e farmi convincere. Senza vincitori né vinti. Ma vincere CON e, quindi, vincere tutti. Ma… ne uscimmo tutti sconfitti. Anche la Verità, nonno mio adorato. Il giorno che si presentò inaspettato e imprevedibile, eppure sempre lì in agguato, in attesa di dire l’ultima parola e di vanificare tutto: Il PUNTO DI VISTA. Inconfutabile. 

Sì, mio caro papà, purtroppo, col passare degli anni, sempre più ho dovuto fare i conti col “punto di vista” che ai tempi del nostro stare insieme ignoravo. Probabilmente non ero abbastanza matura per afferrarlo anche nei vostri discorsi di adulti, quando in casa venivano i tuoi contadini oppure venivano a farvi visita amici e parenti. Nei giorni feriali erano i tuoi aiutanti, nei giorni festivi amici e parenti. La visita di questi ultimi era un rito. Era assente un silenzio lungo tra di voi. La domenica era dedicata alle “visite”. Io e Lizia ci annoiavamo. I discorsi di voi anziani ci annoiavano. Io, ghiotta com’ero, mi sottoponevo a quel supplizio un po’ perché era impensabile dire “non vogliamo venire con voi” e un po’ perché sapevo che prima o poi la padrona di casa avrebbe tirato fuori dei dolcetti fatti con le proprie mani o, ma questo più tardi nel tempo, le paste alla crema comprate al bar, con il rosolio versato in bicchierini quanto un ditale, deliziosi a vedersi, ma con scarso liquore da gustare. Erano tempi frugali come regola di vita. Io non vedevo l’ora di mangiare quelle delizie, che mi distraevano dall’ascoltare in religioso silenzio, statue di gesso, “i discorsi dei grandi”. Ebbene, in quei discorsi qualche volta o quasi sempre i “grandi” discutevano, ma io non ero in grado di afferrare lucidamente i diversi punti di vista soprattutto per disattenzione, ma anche per disinteresse verso i temi delle vostre discussioni: il raccolto, l’urgenza della pioggia per dissetare i campi a favore di piante e germogli e frutti, il prezzo dell’uva, delle olive, dell’olio, la giornata dei contadini… roba di questo genere, che di solito lasciava tutti concordi e allineati, ma non sempre. Ed ecco i vari punti di vista, che mi lasciavano del tutto indifferente e con la voglia di scappare, soprattutto dopo la ormai sguarnita guantiera dei dolci.

Diversa era l’atmosfera che si creava quando, invece, si parlava di politica tra gli uomini. Le donne non c’entravano. Allora sì che i vari punti di vista scazzottavano tra loro. Soprattutto se nel gruppo c’erano democristiani e comunisti. Per esempio, Pasquale, tuo nipote, assessore della DC, e zio Michele, tuo cognato, fratello di nonna Angelina, sfegatato sostenitore del PC. Sfuriate di pareri discordanti. Ma anche qui noi piccole o appena ragazzine eravamo del tutto estranee a quei fendenti, lanciati da una parte e dall’altra con assoluta maestria in un garbuglio di affermazioni e di dissensi, di malintesi e chiarimenti, dove tutti rimanevano della propria opinione senza lasciarsi scalfire minimamente dalle spiegazioni degli altri. Il giornale radio dava la stura al solito dibattito e alle solite proteste animate e ingarbugliate. Io e Lizia scappavamo fuori nel cortile per riprenderci i nostri pensieri che si facevano più chiari al chiarore della luna o alla luce certa delle stelle in gara con i rami carichi di foglie e di frutti del gelso rosso, attenta sentinella della nostra casa.

Neppure i discorsi femminili ci piacevano. Era tutto un parlare di reumatismi, dolori, acciacchi vari e dei vari rimedi naturali (l’aglio strofinato sui geloni, l’infuso di menta per far passare il mal di pancia, gli impacchi di semi di lino per la “costipazione”…); oppure di cucina, delle varie ricette (u ragù du vəccìrə, u bəccònə du rèjə…) e dei condimenti raccolti nell’orto (la salvia, la mentuccia, il prezzemolo, la cipolla, l’aglio, i pomodori); e finivano col parlare sempre, come un ritornello mai dimenticato, dei giovani senza Dio, le ragazze sfacciate e i ragazzi scansafatiche e senza responsabilità e sistematicamente concludevano con occhi cupi e bocche serrate di fremente sdegno se non disprezzo: “Jndə a cè munnə sìmə sciùtə a fərnèscə!” (in che mondo siamo precipitate!).

Noi ce la davamo a gambe levate. Anche i loro discorsi ci annoiavano. Nostro rifugio era il portone, dove facevamo cerchio intorno al pozzo con i nostri coetanei per cominciare a scoprire il mistero della parola “amore”, che mai si disvelava nella sua realtà, ma tutto si colorava di fantasiose supposizioni. In quel cicaleccio, però, dimenticavamo innocui alterchi e dannose lamentele, giornale-radio e pettegolezzi di piccolo cabotaggio che non andavano oltre i muri del cortile e della nostra casa. Tutto, comunque, contribuiva a darci nuove dimensioni della vita: la misura, esatta o sbagliata che fosse, dell’amicizia e dell’amore. La giusta distanza fisica e psicologica per sentire l’assenza e la lontananza (Domenico Modugno cantava con accorata nostalgia “La lontananza sai è come il vento…”) o per sentire una vicinanza gradita oppure opprimente, il senso dell’appartenenza o del possesso, della improbabile libertà. E mi viene in mente la bellissima poesia attribuita ad un grande poeta, Fernando Pessoa, intitolata “La leggenda dell’onda e del mare”. Il senso di libertà vinto sempre, dopo aver preso il largo, dal far ritorno ai sentimenti…

Un giorno l’onda chiese al mare:

mi “ami”?

E il mare rispose:

“Il mio amore è così forte

che ogni volta che

t’allontani verso terra

io ti tiro indietro

per riprenderti

tra le mie braccia.

 

Senza di te la mia vita

sarebbe insignificante.

Sarei un mare piatto, senza emozioni.

Ti sei l’essenza del mio esistere”.

 

L’onda fu felice

tra le braccia del mare.

Facendo finta, ogni volta di volare via,

per dare quel senso di precarietà alle cose,

per renderle più preziose.

E ogni volta il mare

la riprendeva, con le sue braccia

Grandi, per riportarla a sé.

 

Raccontano che una notte

la luna illuminava il mondo,

e l’onda bianca lentamente,

in un ballo infinito,

scivolava tra un prendersi e un lasciarsi,

col mare che stendeva le braccia

per poi ritirarle,

facendo finta a volte di non poterlo fare,

perché l’onda potesse assaporare

anch’essa quella precarietà

che rende le cose preziose.

 

L’onda e il mare sono ancora lì,

nel gioco infinito delle emozioni.

 

E fanno finta che sarà l’ultima volta

che l’onda partirà verso la terra,

per non tornare più,

ma poi, alla fine, è più forte su tutto

il bisogno di riprendersi.

 

Nel sogno di un amore senza fine.

Erano questi i nostri sogni. Le nostre parole. I discorsi sul sesso erano proibiti e, quando sconfinavamo nei suoi dintorni, era tutto un brulicare di “sentito dire” che mai ci chiarivano le idee e men che mai corrispondevano a verità. Meglio fermarci a disquisire sull’amore con dovizia di particolari del tutto inattendibili, ma che ci aiutarono in qualche modo a crescere nella consapevolezza, via via sempre più matura, di un sentimento che aveva bisogno di continue “revisioni” e adattamenti a situazioni, persone, comportamenti. E che le illusioni non ci aiutavano a crescere, ma ci aiutavano a vivere. La maturità è una viandante che avanza lentamente sul sentiero del tempo tra poche rose e molte spine>. (III vol. ancora inedito).

Ma del tempo, come già detto, parleremo ancora. Buona domenica. Angela-Angelina-Lina

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