'La
violenza , forse una macchia nera in un angolo buio, in un piccolo
anfratto della mente', pensava, 'poi, in un solo attimo si espande e
copre tutto il cervello; mai nessuno potrebbe stabilire il momento in
cui avverrà questa esplosione. Questo grumo scuro è dentro di noi,
come i denti stanno nella bocca, come gli occhi stanno sotto la
fronte, come il sangue scorre nelle arterie. Semplicemente è...'.
Mi sembra
opportuno riproporre la lettura di questi primi due romanzi di una
trilogia che l'autore, Gianni Brattoli, sta portando a termine,
perché trattano di un tema che tanto ci sta angosciando ai nostri
giorni: la violenza, “macchia nera in un angolo buio” della mente
umana.
Carl
Gustav Jung, in Aion.
Ricerche sul simbolismo del Sé, la definisce
“ombra”.
Annah
Arendt, nel suo famoso saggio On violence (Sulla
violenza), afferma che questa è
insita nell'animo umano ed esplode improvvisamente soprattutto per
affermare il proprio potere sugli altri. Altre volte, fortunatamente
forse, contro il potere. E spesso, nell'uno o nell'altro caso, basta
proprio una inezia. Chi non ricorda il film di Fellini “Prova
d'orchestra” del1979? Con chiari riferimenti al nazismo (ogni
dittatura si poggia sulla violenza), qui dei pacifici e sorridenti
musicisti, vessati da un direttore d'orchestra troppo esigente, che
impartisce ordini come un dittatore appunto, esplodono in una
parossistica violenza solo perché un brevissimo black out
scompagina, nel buio, tutto l'ordine faticosamente stabilito. Un
“black out” del cervello? Forse.
È la stessa
tesi che sostiene Gianni Brattoli in entrambi i romanzi.
Nel primo,
“Terra alla terra”, la “violenza” esplode nell'uomo quando
viene risucchiato dal vortice di una lucida follia, dovuta, come nel
caso di prete Antonio, ad un credo, un ruolo, una funzione che ne
stravolgono credi, intenti e mezzi. Diabolicamente.
In A
metà della notte, invece, essa non solo
parte dalle stesse motivazioni o condizioni, ma si fa più subdola,
devastante e destabilizzante perché è anche improvvisa e
immotivata. È insita nella natura umana, conferma l'autore, che sta
continuando ad analizzarla da altre angolazioni per approdare al
nuovo romanzo che completerà la trilogia. La macchia scura può
rimanere latente per tutta la vita o esplodere senza scampo. È,
perciò, ancora più pericolosa perché è un “marchio
a fuoco”, impresso dalla notte dei tempi nelle nostre viscere. E il
marchio a fuoco è la “notte” del nostro cuore che spesso dilaga
nel buio della notte che sopravviene al giorno.
Già
dal titolo, infatti, siamo avvolti nel buio della notte: buio fisico
e metaforico. Un buio che non si può fugare perché si è lontani
sia dalla calda luce del crepuscolo sia dal chiarore salvifico della
nuova alba. Quella “metà” è senza via d’uscita. Bisogna
ancora attraversarla tutta la notte per scoprire il nuovo giorno. E
la notte, si sa, è carica di mistero, di paure e di presagi perlopiù
nefasti. È nella notte che si ordiscono le più macchinose trame,
che si compiono i peggiori delitti, che si vivono i pensieri più
tumultuosi e disperanti. Così è avvenuto in Terra alla terra,
il romanzo d’esordio di Gianni Brattoli, così accade in questo
nuovo suo libro: quasi tutto quello che avviene è avvolto
nell’involucro nebuloso delle tenebre. Certo, c’è anche la luce
abbagliante di un caldissimo e soffocante pomeriggio di luglio, in
cui si consuma la storia di folle passione tra Dolino, il
protagonista diciassettenne, e Luciana (la luminosa), il suo oscuro e
bellissimo oggetto del desiderio, ma si tratta di un breve respiro di
intensa luce estiva che ben presto smuore e si perde nella sera che
avanza sul lungomare barese, soffocato dalle ombre e dalla perdita di
ogni innocenza. Quello sfolgorante pomeriggio di ripetuti amplessi,
però, giustifica anche la splendida immagine di copertina, “Il
Bacio” di Munch, sapientemente rielaborata dal bravissimo e
giovanissimo Nicola Piacente, grafic designer della Casa
editrice.
Alla base
della violenza c'è indubbiamente, ieri come oggi, una sorta di
“mancanza”, di “vuoto d'esistenza”, di “nulla”: preludio
all’assenza della felicità, che si registra sempre più nella
nostra società definita dagli studiosi Miguel Benasaysag e Gérard
Schmit delle “passioni tristi”.
Nell’animo
di Dolino si fa sempre più precisa la consapevolezza di questo vuoto
già per il fatto di appartenere ad un ceto sociale colmo di
perbenismo e privo di valori. E questa consapevolezza svuota di senso
pure la sua vita, a tal punto che egli più volte ribadisce che non
crede all'amore, perché è il più ingannevole di tutti i
sentimenti.
Di contro,
egli si accorge sempre più di essere impastato di violenza. Una
violenza cieca che non nasce da una motivazione precisa: non
dall'odio, non dal risentimento, non da una provocazione. È “una
macchia nera” che improvvisamente appare e dilaga nel cervello,
oscurando tutto, persino la ragione, unica sua certezza e verità.
Finché la violenza non ne scompagina i contorni, erosi da una furia
che toglie ogni incanto al mondo.
Una chiave
di lettura dei due romanzi, dunque, è indubbiamente di natura
sociologica, ma anche quella psicologica e psicoanalitica dovrebbe
essere presa in considerazione per scoprire “cosa” fa scattare e
“perché” nella mente di un essere umano “normale” una forza
beluina che lo spinge a farsi lupo contro il suo stesso genere. Non
ha teorizzato forse Hobbes che “homo homini lupus”?
Entrambi i
libri, del resto, trattando di violenza, come scoprirà chi avrà la
curiosità di leggerli, si possono definire anche thryller o gialli e
di questi ultimi hanno, in alcuni passaggi, il linguaggio e lo stile,
in una narrazione stringata ed essenziale, ma anche profondamente
disturbante, da cui i lettori possono trarre utili spunti di
riflessione sugli errori che è quasi inevitabile commettere per
raggiungere, nel bene e nel male, piena consapevolezza di sé.
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