Sarebbe troppo facile dire che questi cinquanta anni che oggi celebriamo rappresentano la storia di un amore.
Questo è vero, ma riduttivo. Conosco tante coppie che sono giunte a questo traguardo, nella stessa vita o in due
vite diverse – come purtroppo in questo caso – e alcune di queste coppie si sono forse amate di più di Angela e
Primo, se mai l’amore fosse posizionabile lungo una scala. Nessuna di queste coppie mi ha consegnato però, in
modo limpido e inequivocabile, il segno del loro legame, nella forma di pensieri che diventano versi e che, nel
loro riversarsi, travolgono anche le vite degli altri, insinuandosi come desideri acquosi nei nostri occhi mentre
leggiamo, e nei nostri cuori mentre ricordiamo.
Ed ecco il filo conduttore di questa storia d’amore, come io l’ho ricostruita immergendomi nel testo “Per oro e
per sempre”. Questo filo è la memoria, che non c’è. Ferma nel tempo presente è una relazione che non fluisce
altrimenti morirebbe, ma resta immobile in “incontri di sguardi che escludono anche il cielo”.
Se non c’è memoria non c’è neppure il rimpianto, perché l’amore non scorre come sangue o vino, metafora
ricorrente nelle poesie di entrambi gli autori, ma è come “un brindisi sospeso nell’aria”. Primo vive perché non
ha paura della morte. “La notte ci passò accanto, ma non ce ne accorgemmo”, perché anche l’alba si rende
invisibile come vetri trasparenti a liquefare i rimpianti nei bicchieri colmi.
Il tempo è il “delirio della memoria”, e i ricordi si sgretolano lungo quel fiume misterioso di vino e di sangue per
le nostre vite infinite. Ed è in quel fiume che si intreccia il dolore di Angela, che struggente scrive “piegata su
bicchieri di solitudine annego nell’ultima goccia lo sguardo vuoto colmo della tua assenza”.
Lo sguardo di Angela è lo sguardo di una donna, è uno sguardo materno che tiene insieme passato, presente e
futuro come nell’attesa, nel parto e nella cura dei figli, il tempo unico e indiviso della maternità. Ed è
comprensibile quindi che si posi sui ricordi. Tuttavia, l’unico modo di consolare il suo pianto senza fine è non
ricordare. Se ricordiamo, siamo assaliti dai rimpianti. Rimpiangendo, ri-piangiamo. Forse dovremmo invece
pensare alle persone che amiamo – ma non ci sono più – al presente. E il rimpianto si addolcisce nella nostalgia,
per una storia appunto infinita e per qualcuno che in fondo non abbiamo mai perso.
Angela, grazie per averci convinto che “se amiamo una persona dobbiamo lasciarla andare, perché se torna è
sempre stata nostra”. E Primo ritorna, perché la vita per lui è stata soltanto un attimo: il tempo non ha
importanza, non sa neppure trovare una ragione allo stupore per il vostro bisogno disperato dell’altro, per il
vostro amore necessario che fu credo e disperazione.
Molto suggestivo il riferimento a Sartre e alla sua relazione pericolosa con Simone De Beauvoir, cui scrisse un
giorno: “La mia vita non appartiene a me solo. Voi siete sempre me, l’essere stesso del mio essere, il cuore del
mio cuore”.
Il cuore di Primo continua allora a battere in quello di Angela, perché di nuovo il sangue è vino, “per festeggiare
l’eternità del nostro tempo ancora da inventare”. Nello spazio dell’immaginazione questi due corpi, due anime,
due cuori, sono un tanto, un tutto, ma anche un niente. Sono “filo dello stesso aquilone”, padroni dell’eternità,
arroganti come gatti con le loro nove vite da giocare. In questo libro, la vita è un cerchio ludico senza linee né
frecce. Del resto, chi ha stabilito il confine tra la vita e la morte, tra il reale e l’irreale, tra presenza e assenza, tra il
cielo e la terra, tra gli occhi e lo specchio?
Grazie Angela e Primo, per averci regalato la certezza (l’illusione) che si nasce il giorno in cui incontriamo il vero
amore. Se questo significa che Primo continua a vivere nel tuo amore (l’amore che tu gli devi), noi che siamo qui
forse non moriremo mai, perché le persone che sono in cielo sanno amarci “di più, tanto di più, un mondo di più,
immensamente di più”.
Corato, 20 settembre 2017
Valeria Rossini
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