giovedì 24 agosto 2017

PREFAZIONE AL LIBRO "LA SFIDA DEL GECO"

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La sfida del geco è la nuova raccolta di poesie di Alberto Tarantini, la terza in poco più di due anni. E, non a caso, è una nuova sfida che l’autore si pone per saggiare sé stesso e la sua capacità di resistere all’intima necessità di essere poeta suo malgrado, e malgrado il disincanto che sempre più si radica razionalmente in lui, quando guarda il mondo, non come per sua natura fa il geco, a rovescio, ma come è possibile al suo sguardo attento che vede le cose per il verso giusto, che poi tanto “giusto” non è, se è costretto ad osservare la loro devastante realtà. Che non lascia illusioni e forse neppure la speranza che qualcosa di buono possa accadere.
Per fortuna, l’ironia e l’autoironia sono sempre in agguato in Alberto Tarantini per vincere la sfida. Sono la sua nota connotante che perdura, ora lieve ora amara ora caustica, sin dalla prima raccolta. Ne è prova divertita e divertente la poesia “Domani si pensa”: Rinviare i problemi è la mia specialità./ Un maestro in questo!/ Vedi 'Poi ci torno' dello stesso autore/ oppure 'Raccolta differenziata'/ sempre in 'Così il tempo' (…) E tornando a prima, devo star messo/ proprio male/ per ridurmi a citar me stesso!
L'autoironia è, però, segno distintivo che minimizza (ma non troppo) la sottile e profonda filosofia sottesa ai suoi versi e al pensiero costante che interroga la vita nella spasmodica ricerca della verità o delle verità che sempre sfuggono alla sua indagine attenta perché attraversata con cuore gonfio di quel “veleno” che solo uno straziante e intenso bisogno d’amore produce e procura.
Già, la poesia di Alberto Tarantini, anche se ci fa sorridere, non è mai scritta con la leggerezza di chi vuole e sa giocare con le parole per divertirsi e far divertire. Nasce, piuttosto, dal continuo bisogno di confrontarsi non con il geco, ma con il mistero. Con il geco avrebbe partita persa (Incollato alla sua roccia mi sfida/ lo sguardo fiero di un geco./ A me… che la morte/ la consegno alla paura! - “Vince il geco”), perché la bestiola, appostata sul soffitto o sui muri in agguato delle sue facili prede, sa per istinto l’ora e lo spazio dei suoi spostamenti e della sua immobilità. La sua sfida è, invece, con il mistero della vita e della morte e della sua anima, che è alla continua vana ricerca di un appiglio, come principio di salvezza, o di una fede, punto fermo in tanto vagare incerto e disperato. Non si tratta, però, di una propensione innata negli uomini, perché, come il geco, Dentro il campo arato di fresco/ consuma il suo rituale/ il seguace della terra:/ lui semina il miracolo/ e si aspetta la vita. (“Lotta tra titani”). E qui ci sarebbe tanto da dire sulla bellezza di questi ultimi due versi che da soli potrebbero valere al poeta una corona d’alloro, anche se lui la rigetterebbe sdegnato per la convinzione che quel poeta sia morto nell’84. Ma sono pareri del tutto personali ed hanno il beneficio della libertà di pensiero e di parola. Qui si tratta di un uomo di estrema sensibilità (“Corda di violino fuori di chiave”, direbbe di lui il buon Pirandello che di anime travagliate non conosceva solo il concetto!) che, mentre vive e osserva sé stesso e il mondo, pensa e ascolta e si ascolta e si logora in una sospensione di giudizio, da cui si salva, almeno per la frazione di un secondo, con la battuta che mette a tacere i sentimenti intensi e i paventati inganni di quel forte richiamo dalla terra al cielo che teme, quasi un buco nero in cui rischia costantemente di precipitare, e sente, come insperata luce in cui finalmente credere.
Se non avesse questa intima profonda speranza, non ne cercherebbe con tanta anelante ansia la fonte e la conferma (… Ed io, che sono la canna pensante,/ l'anello debole per eccellenza,/ dovrei trovare il compromesso,/ i punti di contatto,/ riscriverle a due voci le paure/ del mondo, dotarmi di due mappe,/ una per ogni approdo,/ una per ogni tasca/ ed esibirle all'occorrenza... - “Lotta tra titani”).
Soprattutto ora, dopo la perdita della madre che gli fa scrivere poesie dolenti di insaziato strazio di sconfitta, solitudine, abbandono (Quel dio ora un colpo ha inferto./ Con foga di barbaro ha affondato/ il vil gladio poco sotto il tuo cuore,/ al centro esatto del mio. - “Tu dimenticasti”). Anche qui l'ultimo verso è la sintesi di tutto il dolore del mondo, racchiuso nella ferita inferta proprio al centro del suo cuore, che ora sanguina di rimandate verità. Ora tutto è presenza di un'assenza mai messa in conto perché mai intimamente accettata.
Persino il giardino senza la carezza delle cure materne è metafora della stessa esistenza dell’autore, ora che non sente più la voce amata dare suono e fiato e vita alle stanze e a quegli spazi che vanno via via perdendo il fulgore del verde a fatica e con amore conquistato (Nella casa dove tutto mi ricorda tutto/ - la memoria non fa sconti se vuole! -/ in particolare nell'orto indugio spesso/ per capire da che parte vanno,/ che strada prendono le cose/ quando lasciate al proprio corso,/ abbandonate a loro,/ quando più non c'è il tocco d'un amore,/ il refolo d'una voce sussurrata/ a dirottarle altrove,/ a convogliarle nei rivoli buoni,/ a sottrarle all'indistinta fiumana,/ ad opporsi quel poco/ alla cieca inerzia del male... - “Il tuo orto”).
La stessa Murgia, brulla e impervia, Dove si grida,/ l’Arte del silenzio (“Suggestioni murgiane”) tra cardi spinosi e ferule che s’innalzano a respirare i mattini o il silenzio di ogni tramonto, dove è possibile anche incontrare Dio, è metafora della personalità del poeta, sempre in bilico tra le asprezze della vita e il desiderio che il paesaggio muti come d’incanto e lo riporti a quella primitiva passione, acerba e pulsante, del contatto fisico con la natura, che era materia e anima. Ora non più. Di qui i ripensamenti. Le attese deluse. I ritardi accumulati. I debiti con sé stesso mai risolti. Persino l’amore è perdita e inganno. Il pessimismo che già connotava la poetica tarantiniana ora è diventato più amaro e greve e a nulla valgono le sfide e i fendenti lanciati tra sorrisi a denti stretti.
Persino le parole sono un imbroglio.
All'attento lettore, però, non sfuggono le preziose metafore, la dolcezza del canto di ogni endecasillabo, la continuità del pensiero dolente negli assorti enjembement, la pregnanza delle anafore, la forza degli esclamativi e la fragilità degli interrogativi.
Il dubbio è d'obbligo in un autore che fa della ricerca filosofica e poetica il suo punto di partenza e di arrivo per conoscersi e scoprire il senso del nostro essere al mondo in ogni possibile (im)perfezione.
Tanto è vero che, tra tanto disperante dolore, si fa largo ostinata la vita e scopre salvifiche le “sorgenti del verso”, a cui dissetarsi.
Tormentata ma forte, una preghiera laica sgorga dalle labbra d’arsura di Alberto: M’assista una mente libera/ ed un cuore non trafitto.
È il primo dischiudere le ali alla speranza.
Angela De Leo


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