La
sfida del geco è
la nuova raccolta di poesie di Alberto Tarantini, la terza in poco
più di due anni. E, non a caso, è una nuova sfida che l’autore si
pone per saggiare sé stesso e la sua capacità di resistere
all’intima necessità di essere poeta suo malgrado, e malgrado il
disincanto che sempre più si radica razionalmente in lui, quando
guarda il mondo, non come per sua natura fa il geco, a rovescio, ma
come è possibile al suo sguardo attento che vede le cose per il
verso giusto, che poi tanto “giusto” non è, se è costretto ad
osservare la loro devastante realtà. Che non lascia illusioni e
forse neppure la speranza che qualcosa di buono possa accadere.
Per
fortuna, l’ironia e l’autoironia sono sempre in agguato in
Alberto Tarantini per vincere la sfida. Sono la sua nota connotante
che perdura, ora lieve ora amara ora caustica, sin dalla prima
raccolta. Ne è prova divertita e divertente la poesia “Domani si
pensa”: Rinviare i
problemi è la mia specialità./ Un maestro in questo!/ Vedi 'Poi ci
torno' dello stesso autore/ oppure 'Raccolta differenziata'/ sempre
in 'Così il tempo' (…)
E tornando a
prima, devo star messo/ proprio male/ per ridurmi a citar me stesso!
L'autoironia
è, però, segno
distintivo che minimizza (ma non troppo) la sottile e profonda
filosofia sottesa ai suoi versi e al pensiero costante che interroga
la vita nella spasmodica ricerca della verità o delle verità che
sempre sfuggono alla sua indagine attenta perché attraversata con
cuore gonfio di quel “veleno” che solo uno straziante e intenso
bisogno d’amore produce e procura.
Già,
la poesia di Alberto Tarantini, anche se ci fa sorridere, non è mai
scritta con la leggerezza di chi vuole e sa giocare con le parole per
divertirsi e far divertire. Nasce, piuttosto, dal continuo bisogno di
confrontarsi non con il geco, ma con il mistero. Con il geco avrebbe
partita persa (Incollato
alla sua roccia mi sfida/ lo sguardo fiero di un geco./ A me… che
la morte/ la consegno alla paura!
- “Vince il geco”), perché la bestiola, appostata sul soffitto o
sui muri in agguato delle sue facili prede, sa per istinto l’ora e
lo spazio dei suoi spostamenti e della sua immobilità. La sua sfida
è, invece, con il mistero della vita e della morte e della sua
anima, che è alla continua vana ricerca di un appiglio, come
principio di salvezza, o di una fede, punto fermo in tanto vagare
incerto e disperato. Non si tratta, però, di una propensione innata
negli uomini, perché, come il geco, Dentro
il campo arato di fresco/ consuma il suo rituale/ il seguace della
terra:/ lui semina il miracolo/ e si aspetta la vita.
(“Lotta tra titani”). E qui ci sarebbe tanto da dire sulla
bellezza di questi ultimi due versi che da soli potrebbero valere al
poeta una corona d’alloro, anche se lui la rigetterebbe sdegnato
per la convinzione che quel poeta sia morto nell’84. Ma sono pareri
del tutto personali ed hanno il beneficio della libertà di pensiero
e di parola. Qui si tratta di un uomo di estrema sensibilità (“Corda
di violino fuori di chiave”, direbbe di lui il buon Pirandello che
di anime travagliate non conosceva solo il concetto!) che, mentre
vive e osserva sé stesso e il mondo, pensa e ascolta e si ascolta e
si logora in una sospensione di giudizio, da cui si salva, almeno per
la frazione di un secondo, con la battuta che mette a tacere i
sentimenti intensi e i paventati inganni di quel forte richiamo dalla
terra al cielo che teme, quasi un buco nero in cui rischia
costantemente di precipitare, e sente, come insperata luce in cui
finalmente credere.
Se
non avesse questa intima profonda speranza, non ne cercherebbe con
tanta anelante ansia la fonte e la conferma (… Ed
io, che sono la canna pensante,/ l'anello debole per eccellenza,/
dovrei trovare il compromesso,/ i punti di contatto,/ riscriverle a
due voci le paure/ del mondo, dotarmi di due mappe,/ una per ogni
approdo,/ una per ogni tasca/ ed esibirle all'occorrenza...
- “Lotta tra titani”).
Soprattutto
ora, dopo la perdita della madre che gli fa scrivere poesie dolenti
di insaziato strazio di sconfitta, solitudine, abbandono (Quel
dio ora un colpo ha inferto./ Con foga di barbaro ha affondato/ il
vil gladio poco sotto il tuo cuore,/ al centro esatto del mio.
- “Tu dimenticasti”). Anche qui l'ultimo verso è la sintesi di
tutto il dolore del mondo, racchiuso nella ferita inferta proprio al
centro del suo cuore, che ora sanguina di rimandate verità. Ora
tutto è presenza di un'assenza mai messa in conto perché mai
intimamente accettata.
Persino
il giardino senza la carezza delle cure materne è metafora della
stessa esistenza dell’autore, ora che non sente più la voce amata
dare suono e fiato e vita alle stanze e a quegli spazi che vanno via
via perdendo il fulgore del verde a fatica e con amore conquistato
(Nella casa dove
tutto mi ricorda tutto/ - la memoria non fa sconti se vuole! -/ in
particolare nell'orto indugio spesso/ per capire da che parte vanno,/
che strada prendono le cose/ quando lasciate al proprio corso,/
abbandonate a loro,/ quando più non c'è il tocco d'un amore,/ il
refolo d'una voce sussurrata/ a dirottarle altrove,/ a convogliarle
nei rivoli buoni,/ a sottrarle all'indistinta fiumana,/ ad opporsi
quel poco/ alla cieca inerzia del male... - “Il tuo orto”).
La
stessa Murgia, brulla e impervia,
Dove si grida,/ l’Arte
del silenzio
(“Suggestioni murgiane”) tra cardi spinosi e ferule che
s’innalzano a respirare i mattini o il silenzio di ogni tramonto,
dove è possibile anche incontrare Dio, è metafora della personalità
del poeta, sempre in bilico tra le asprezze della vita e il desiderio
che il paesaggio muti come d’incanto e lo riporti a quella
primitiva passione, acerba e pulsante, del contatto fisico con la
natura, che era materia e anima. Ora non più. Di qui i ripensamenti.
Le attese deluse. I ritardi accumulati. I debiti con sé stesso mai
risolti. Persino l’amore è perdita e inganno. Il pessimismo che
già connotava la poetica tarantiniana ora è diventato più amaro e
greve e a nulla valgono le sfide e i fendenti lanciati tra sorrisi a
denti stretti.
Persino
le parole sono un imbroglio.
All'attento
lettore, però, non sfuggono le preziose metafore, la dolcezza del
canto di ogni endecasillabo, la continuità del pensiero dolente
negli assorti enjembement, la pregnanza delle anafore, la forza degli
esclamativi e la fragilità degli interrogativi.
Il
dubbio è d'obbligo in un autore che fa della ricerca filosofica e
poetica il suo punto di partenza e di arrivo per conoscersi e
scoprire il senso del nostro essere al mondo in ogni possibile
(im)perfezione.
Tanto
è vero che, tra tanto disperante dolore, si fa largo ostinata la
vita e scopre salvifiche le “sorgenti del verso”, a cui
dissetarsi.
Tormentata
ma forte, una preghiera laica sgorga dalle labbra d’arsura di
Alberto: M’assista
una mente libera/ ed un cuore non trafitto.
È
il primo dischiudere le ali alla speranza.
Angela De Leo
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