sabato 5 maggio 2018

“Je suis Janette” di Enzo Quarto - Prima parte


I versi, scritti da Enzo Quarto nel suo libro bilingue (serbo-italiano, con traduzione di Dragan Mraovic) “Je suis Janette” (“Io sono la piccola Giovanna”) della SECOP Edizioni, e meravigliosamente musicati dal Maestro Giovanni Tamborrino, riportano subito alla semplice presentazione di sé che la fanciulla fece al processo che la vide salire al rogo, come eretica, nel 1431, a soli diciannove anni, durante la guerra dei Cento Anni tra la Francia e l’Inghilterra. E la musica ben si fonde con il titolo e  l’immagine di copertina di questo insolito poema, quasi canto, quasi ballata, quasi preghiera, quasi esortazione, quasi inno, in cui il poeta ha raccontato della santa eroica fanciulla per raccontarsi e raccontare, attraverso la parola “piena” e “forte” e “vera”, la povertà, anche linguistica, del nostro tempo, dominato dai mezzi di comunicazione più avanzati, ma svuotato del significato profondo della parola, che è fatta di ardore, di esperienza, di vita. Non a caso, la scelta di una mistica internazionale, con un respiro interculturale e interreligioso notevole. E non a caso, il titolo in francese, una lingua che coniuga in sé eleganza, raffinatezza, armonia. Una lingua che si piega volentieri a definire la fragilità e la dolcezza della “piccola Giovanna”. Nello stesso tempo, però, ecco l’immagine di copertina a restituirle la fermezza di una mano che incide sul foglio con determinazione e precisione la parola Pace. Una parola, forse oggi ritenuta solo di effetto, retorica, svuotata del suo reale, grandioso significato, ma in realtà ancora fortemente pensata, desiderata, proclamata più nel silenzio del cuore che nell’assordante rumore delle piazze e delle strade, dove altre “… parole inutili/ false/ insignificanti/ mercenarie./ Parole soffocanti,/ parole corrotte/ abusate/ pervertite/violente./ Senza speranza” hanno preso il sopravvento. Decretando la fine della parola-verbo, della parola ascoltata, “sentita” nel profondo della propria anima perché parola di Dio. “… Io di me so solo che ho dato voce a Dio./ È lui che me lo ha chiesto:/ La mia ossessione sono le sue parole.”
Ecco, sono parole veementi quelle di Janette in sua difesa al processo e in difesa della fede che professa; sono parole gridate per testimoniare la verità, a cui nessuno crede. Per testimoniare senza ombra di dubbio alcuno la sua vocazione alla santità. Ed è tanta la dimestichezza che ha con Dio che parla, riferendosi a Lui, tutto in minuscolo, perché vissuto come Padre che la esorta e la incoraggia a seguire la sua la sua missione. Per questo Lui l’ha eletta. Per la sua semplicità, per la sua innocenza, per la sua fede.
Enzo Quarto si ritrova in lei, le presta le sue parole che sono testimonianza della sua stessa fede, forte, certa, incontaminata, altrimenti non le avrebbe scritte, ma forse solo raccontate. La scrittura ferma nel tempo e nello spazio le voci che, se lasciate a sé stesse, hanno suono ed eco, ma potrebbero andare lontano e poi svanire nella nebbia della lontananza e della dimenticanza, disperdersi come foglie al vento d’autunno. La scrittura, invece, è sigillo di verità. Non è più soltanto un “ipse dixit”, che pure nel lontano passato aveva la sua forza e la sua autorità, soprattutto se era parola di filosofi e di profeti, ma è un atto concreto, reale, voluto, che si fa simbolo e segno e significato e senso di un ascolto interiore, quasi voce divina che s’incarna e si fa umana. La parola scritta è messaggio che rimane, anche quando percorre strade e mari e oceani per incontrare l’altro e l’altro ancora “… in questa nostra patria comune/ unica ed indivisibile/ che è il creato”. Così, felicemente, Enzo Quarto conclude la prima poesia del poema. Non a caso, la puntuale e colta Prefazione di Mons. Francesco Cacucci, dopo la commossa e commovente dedica dell’autore a sua madre, parla di “messaggio proposto dall’autore”… “un invito a vivere in pienezza la vita che il Signore ci dona, la vocazione che a ciascun uomo assegna, e che, se accolta fino in fondo, fino all’eroismo, come è avvenuto in Janette, ci conduce verso (…) la terra promessa. E, subito dopo, ecco la bellissima benedizione di S. E. Mons. Stanislav Hocevar, (Arcivescovo della Chiesa Cattolica di Belgrado), che fa riferimento ai “messaggeri”, agli “angeli” che portano agli “uomini di buona volontà”… “messaggi lieti” nella “melodia della lingua italiana”. Quasi una evangelica “lieta novella”. Sono, infatti, “… Parole libere per comunicare/ gioia/ amore/ fraternità,/ parole per esprimere/ pensiero,/ idee/ libertà…”.
Dunque, parole. Per comunicate agli altri i palpiti del cuore. E parole, per esprimere con originalità creativa i tumulti della mente. Dall’inscindibile binomio, per chi pratica il “sentimento della scrittura”, Enzo parte per un viaggio che prende due direzioni: la via orizzontale che conduce alla comunicazione sociale, oggi anche planetaria e in tempo reale, e l’alberato sentiero fiorito che va verso l’alto per incontrare il divino che è in noi e si fa Arte, musica, immagine (oh, la visionarietà dei mistici, degli artisti e dei poeti!), e voce e danza e volo in un “altrove” che è altro da sé, dove l’“Io” si disperde e si moltiplica in un “Noi” infinito. E la terra promessa diventa approdo di eternità. Ma, per giungere all’approdo, c’è tutto un cammino esistenziale da fare. Occorre partire dalle origini se si vuole trovare il bandolo dell’ingarbugliata matassa della nostra vita. Occorre partire dal Creatore di tutte le creature del Creato per riscoprire il “Verbo” nella verità della Parola divina o nell’autenticità della parola di una umanità bambina, che ha ancora occhi di innocenza per scoprire il mondo. E il poema diventa subito racconto biblico di un viaggio (Abramo lascia la sua terra e tutti i suoi averi per seguire la voce di Dio) per scoprire, nel tempo e nello spazio, noi stessi nella ricerca continua di Dio perché tutto avvenga secondo la Sua volontà. Ben presto, però, l’Alleanza tra l’uomo e Dio s’infranse a causa delle lusinghiere e false parole di lucifero, con cui l’umanità, poi, ha dovuto sempre fare i conti in una realtà continuamente dimidiata tra la Parola di Dio, umile e pura, e le parole “disperse”, “inutili”, “corrotte”, che sempre più ci avvolgono, ci stordiscono, ci ingannano. La parola, pertanto, si fa peccato e corruzione. Il poema diventa, così, inno alla parola: “… Le parole sono importanti/ non vanno sprecate,/ disperse/ vanificate,/ ma ricamate sullo stendardo/ dei vostri pensieri più nobili,/ scolpite sulla roccia delle nostre lapidi,/ issate come vele/ sui galeoni chiamati/ a navigare i mari dell’incoerenza/ della sopraffazione/ del mercimonio./ La più umile tra le parole/diventi gloria/ beatitudine/ onore”.
C’è, in questi versi urlati, l’esortazione alla responsabilità di un giornalista poeta verso tutti coloro, che hanno tra le mani i mezzi della comunicazione e della creatività, per   ritornare a farsi “vessillo” di parole semplici, vere, obiettive, sincere, ma anche profondamente legate al senso della giustizia, della solidarietà, della fratellanza (“… il giornalismo può fare a meno della verità per essere neutrale? La risposta è NO. Perché verità e neutralità sono niente senza legalità, giustizia e solidarietà, valori di cui la società contemporanea è assetata”, ha ribattuto con fermezza Enzo Quarto proprio ieri nel suo articolo specifico su <La Gazzetta del Mezzogiorno>). Tutti gli intellettuali dovrebbero conservare o recuperare “l’etica della parola”. Alda Merini afferma che solo la Poesia può riscattare il peccato della parola (polisemica, polivalente, ambigua) con la sua rinnovata innocenza, fonte cristallina di ogni verità.

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