I versi, scritti da
Enzo Quarto nel suo libro bilingue (serbo-italiano, con traduzione di Dragan
Mraovic) “Je suis Janette” (“Io sono la piccola Giovanna”) della
SECOP Edizioni, e meravigliosamente musicati dal Maestro Giovanni Tamborrino, riportano
subito alla semplice presentazione di sé che la fanciulla fece al processo che
la vide salire al rogo, come eretica, nel 1431, a soli diciannove anni, durante
la guerra dei Cento Anni tra la Francia e l’Inghilterra. E la musica ben si
fonde con il titolo e l’immagine di
copertina di questo insolito poema, quasi canto, quasi ballata, quasi
preghiera, quasi esortazione, quasi inno, in cui il poeta ha raccontato della
santa eroica fanciulla per raccontarsi e raccontare, attraverso la parola
“piena” e “forte” e “vera”, la povertà, anche linguistica, del nostro tempo,
dominato dai mezzi di comunicazione più avanzati, ma svuotato del significato
profondo della parola, che è fatta di ardore, di esperienza, di vita. Non a
caso, la scelta di una mistica internazionale, con un respiro interculturale e interreligioso
notevole. E non a caso, il titolo in francese, una lingua che coniuga in sé
eleganza, raffinatezza, armonia. Una lingua che si piega volentieri a definire
la fragilità e la dolcezza della “piccola Giovanna”. Nello stesso tempo, però,
ecco l’immagine di copertina a restituirle la fermezza di una mano che incide
sul foglio con determinazione e precisione la parola Pace. Una parola, forse
oggi ritenuta solo di effetto, retorica, svuotata del suo reale, grandioso
significato, ma in realtà ancora fortemente pensata, desiderata, proclamata più
nel silenzio del cuore che nell’assordante rumore delle piazze e delle strade,
dove altre “… parole inutili/ false/
insignificanti/ mercenarie./ Parole soffocanti,/ parole corrotte/ abusate/
pervertite/violente./ Senza speranza” hanno preso il sopravvento.
Decretando la fine della parola-verbo, della parola ascoltata, “sentita” nel
profondo della propria anima perché parola di Dio. “… Io di me so solo che ho dato voce a Dio./ È lui che me lo ha chiesto:/
La mia ossessione sono le sue parole.”
Ecco, sono parole
veementi quelle di Janette in sua
difesa al processo e in difesa della fede che professa; sono parole gridate per
testimoniare la verità, a cui nessuno crede. Per testimoniare senza ombra di
dubbio alcuno la sua vocazione alla santità. Ed è tanta la dimestichezza che ha
con Dio che parla, riferendosi a Lui, tutto in minuscolo, perché vissuto come
Padre che la esorta e la incoraggia a seguire la sua la sua missione. Per
questo Lui l’ha eletta. Per la sua semplicità, per la sua innocenza, per la sua
fede.
Enzo Quarto si ritrova
in lei, le presta le sue parole che sono testimonianza della sua stessa fede, forte,
certa, incontaminata, altrimenti non le avrebbe scritte, ma forse solo raccontate.
La scrittura ferma nel tempo e nello spazio le voci che, se lasciate a sé
stesse, hanno suono ed eco, ma potrebbero andare lontano e poi svanire nella
nebbia della lontananza e della dimenticanza, disperdersi come foglie al vento
d’autunno. La scrittura, invece, è sigillo di verità. Non è più soltanto un
“ipse dixit”, che pure nel lontano passato aveva la sua forza e la sua
autorità, soprattutto se era parola di filosofi e di profeti, ma è un atto
concreto, reale, voluto, che si fa simbolo e segno e significato e senso di un
ascolto interiore, quasi voce divina che s’incarna e si fa umana. La parola
scritta è messaggio che rimane, anche quando percorre strade e mari e oceani
per incontrare l’altro e l’altro ancora “… in questa nostra patria comune/
unica ed indivisibile/ che è il creato”. Così, felicemente, Enzo Quarto conclude
la prima poesia del poema. Non a caso, la puntuale e colta Prefazione di Mons.
Francesco Cacucci, dopo la commossa e commovente dedica dell’autore a sua
madre, parla di “messaggio proposto dall’autore”… “un invito a vivere in
pienezza la vita che il Signore ci dona, la vocazione che a ciascun uomo
assegna, e che, se accolta fino in fondo, fino all’eroismo, come è avvenuto in Janette, ci conduce verso (…) la terra
promessa. E, subito dopo, ecco la bellissima benedizione di S. E. Mons.
Stanislav Hocevar, (Arcivescovo della Chiesa Cattolica di Belgrado), che fa
riferimento ai “messaggeri”, agli “angeli” che portano agli “uomini di buona
volontà”… “messaggi lieti” nella “melodia della lingua italiana”. Quasi una
evangelica “lieta novella”. Sono, infatti, “… Parole libere per comunicare/ gioia/ amore/ fraternità,/ parole per
esprimere/ pensiero,/ idee/ libertà…”.
Dunque, parole. Per
comunicate agli altri i palpiti del cuore. E parole, per esprimere con
originalità creativa i tumulti della mente. Dall’inscindibile binomio, per chi
pratica il “sentimento della scrittura”, Enzo parte per un viaggio che prende
due direzioni: la via orizzontale che conduce alla comunicazione sociale, oggi
anche planetaria e in tempo reale, e l’alberato sentiero fiorito che va verso
l’alto per incontrare il divino che è in noi e si fa Arte, musica, immagine
(oh, la visionarietà dei mistici, degli artisti e dei poeti!), e voce e danza e
volo in un “altrove” che è altro da sé, dove l’“Io” si disperde e si moltiplica
in un “Noi” infinito. E la terra promessa diventa approdo di eternità. Ma, per
giungere all’approdo, c’è tutto un cammino esistenziale da fare. Occorre
partire dalle origini se si vuole trovare il bandolo dell’ingarbugliata matassa
della nostra vita. Occorre partire dal Creatore di tutte le creature del Creato
per riscoprire il “Verbo” nella verità della Parola divina o nell’autenticità
della parola di una umanità bambina, che ha ancora occhi di innocenza per
scoprire il mondo. E il poema diventa subito racconto biblico di un viaggio (Abramo
lascia la sua terra e tutti i suoi averi per seguire la voce di Dio) per
scoprire, nel tempo e nello spazio, noi stessi nella ricerca continua di Dio
perché tutto avvenga secondo la Sua volontà. Ben presto, però, l’Alleanza tra
l’uomo e Dio s’infranse a causa delle lusinghiere e false parole di lucifero,
con cui l’umanità, poi, ha dovuto sempre fare i conti in una realtà
continuamente dimidiata tra la Parola di Dio, umile e pura, e le parole “disperse”,
“inutili”, “corrotte”, che sempre più ci avvolgono, ci stordiscono, ci
ingannano. La parola, pertanto, si fa peccato e corruzione. Il poema diventa,
così, inno alla parola: “… Le parole sono
importanti/ non vanno sprecate,/ disperse/ vanificate,/ ma ricamate sullo
stendardo/ dei vostri pensieri più nobili,/ scolpite sulla roccia delle nostre
lapidi,/ issate come vele/ sui galeoni chiamati/ a navigare i mari
dell’incoerenza/ della sopraffazione/ del mercimonio./ La più umile tra le
parole/diventi gloria/ beatitudine/ onore”.
C’è, in questi versi
urlati, l’esortazione alla responsabilità di un giornalista poeta verso tutti
coloro, che hanno tra le mani i mezzi della comunicazione e della creatività,
per ritornare a farsi “vessillo” di parole
semplici, vere, obiettive, sincere, ma anche profondamente legate al senso
della giustizia, della solidarietà, della fratellanza (“… il giornalismo può
fare a meno della verità per essere neutrale? La risposta è NO. Perché verità e
neutralità sono niente senza legalità, giustizia e solidarietà, valori di cui
la società contemporanea è assetata”, ha ribattuto con fermezza Enzo Quarto
proprio ieri nel suo articolo specifico su <La Gazzetta del Mezzogiorno>).
Tutti gli intellettuali dovrebbero conservare o recuperare “l’etica della
parola”. Alda Merini afferma che solo la Poesia può riscattare il peccato della
parola (polisemica, polivalente, ambigua) con la sua rinnovata innocenza, fonte
cristallina di ogni verità.
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