martedì 29 maggio 2018

Divagazioni sul canto del silenzio


“E i silenzi… i Silenzi… I SILENZI…

                                                
Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare
e il silenzio della città quando si placa
e il silenzio di un uomo e di una vergine
e il silenzio con cui soltanto la musica trova linguaggio
il silenzio dei boschi
prima che sorga il vento di primavera
e il silenzio dei malati quando girano gli occhi per la stanza
(…)
C’è il silenzio di un grande odio
e il silenzio di un grande amore
e il silenzio di una profonda pace dell’anima
c’è il silenzio degli dèi che si capiscono senza linguaggio
c’è il silenzio della sconfitta
e il silenzio di coloro che sono ingiustamente puniti
e il silenzio del morente la cui mano stringe subitamente la vostra
c’è il silenzio che interviene tra il marito e la moglie
c’è il silenzio dei falliti
(…)
e c’è il silenzio dei morti.
Se noi che siamo vivi non sappiamo parlare di profonde esperienze
perché vi stupite che i morti non vi parlino della morte?
Il loro silenzio avrà spiegazioni quando li avremo raggiunti.
(Edgar Lee Masters, stralci da “Il silenzio”)

Silenzio. Paradossalmente è una parola che mi piace. Se penso al silenzio che fa parlare il cuore. Come dicevi tu, quando sorprendevo te e la nonna seduti vicini nella penombra della sera, dietro i vetri di casa, in silenzio, a salutare il buio che annullava le cose e i rumori e le voci del nostro piccolo mondo quotidiano: la strada di casa, allora ancora un po’ in periferia o la semplice via di un amore che vi teneva indissolubilmente uniti. Sereni, nonostante gli innumerevoli dolori e dispiaceri vissuti da entrambi.
Anche a Primo, il mio tempestoso compagno per circa quarant’anni, piaceva il silenzio del nostro raccontarci con gesti d’amore il giorno, lui che aveva come codice preferito di comunicazione l’urlo, e si meravigliava del mio accoglierlo in silenzio. Per lui ero “la lite senza lo scontro”.
Se torna il silenzio: era una aspirazione ed una invocazione. Una necessità di vita per riscoprirci insieme” (…)
Eppure c’è stato anche il tempo dei nostri “disperati silenzi. Non ho più saputo dei suoi pensieri. Lui ignorava i miei o forse li intuiva. Un tempo “eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo dissipato”, sosteneva il poeta del primo Novecento Renato Serra, ed ora non ci rimaneva che il silenzio. Non il silenzio che amavamo in cui era più facile ascoltare le nostre anime. In quel silenzio della sera io ritrovavo l’atmosfera d’intimità e d’amore che si creava nelle nostre antiche sere, quando al buio, rischiarato dalla luce del crepuscolo, tu e la nonna respiravate il sussurro delle vostre preghiere, il rosario quotidiano, seduti dietro i vetri della porta che s’affacciava sul cortile. Ed era un silenzio d’anime tra le parole del cuore. Anche io e Primo avevamo vissuto per anni quel silenzio che ci univa e ci cantava dentro.

Se torna il silenzio
al di là della strada
allora parleremo piano
muovendo appena le labbra
e il respiro sarà breve
come la distanza
tra le nostre mani.
          Se torna il silenzio
Parleremo con gli occhi,
antichi gesti
fioriti sulla pelle,
             ma saremo pronti
poi
a chiuderlo
in fondo ad un armadio
per guardarlo
                    dopo
quando l’ansia sarà placata
sotto le lenzuola
vinte
e segnate
dal nostro amarci.
(Primo Leone, “Se torna il silenzio”)

Poi lo avevamo perso per strada il silenzio buono e ci era venuto incontro suo fratello, il silenzio cattivo, quello che divide e non perdona. Il silenzio del rancore e delle parole mancate, taciute, disperse e mai più ritrovate.
Sì, il silenzio cattivo che, se si protrae a lungo, non riesce più a ritrovare le parole per creare spiragli nella spenta sintonia, per riaccendere dialoghi con l’ultimo fiammifero dimenticato nella scatola dei ricordi e dei progetti.
                                          E tutto tace. Anche il cuore.


Ecco perché il silenzio è anche una parola che mi sgomenta, quando penso al silenzio che crea un vuoto; che separa con fratture e divisioni; che è culla di odio e di rancore; che cova vendetta; che coltiva un equivoco e lo fa ingigantire nella mente; che nasconde un sentimento mai rivelato e, quindi, mai conosciuto e riconosciuto, mai vissuto nella pienezza del gesto e delle parole e delle accorciate distanze.
Silenzio atteso e temuto, dunque. Silenzio invocato e nutrito. Infranto e chiacchierato. Silenzio raccontato. Come il nostro silenzio, caro papà.
Il silenzio è il nulla prima del Big Bang, esplosione del Creato. Che si racconta con le cose. La materia, innanzitutto. Generata dal nulla per un atto di Energia purissima. 
Il silenzio. È il vuoto tra due rumori, tra due suoni, tra due parole. È attesa e ricordo. Speranza e rimpianto. Pudore e timore. Indifferenza. Ostilità. Invocazione muta dell’anima. Preghiera.
Quando divenni più grandicella, la nostra casa a me sembrava, pur non avendone la struttura, ma solo l’atmosfera che vi si respirava, una cattedrale gotica che s’innalzava con le sue guglie al cielo in una penombra che invitava al raccoglimento per ascoltare meglio “la voce del silenzio” o, meglio, “le voci di dentro”: quelle che ci parlano dell’invisibile che è in noi e fuori di noi: l’arcano, il mistero, il sogno. L’indicibile perché tanto più grande delle nostre parole per esprimerlo. L’immenso. Il linguaggio dell’Universo. L’incontro insaputo con Dio. Nella nostra casa c’erano spesso, dal tardo pomeriggio fino allo sfiorare il buio della sera, penombra e silenzio.
Penombra e Silenzio lasciavano parlare il cuore. Penombra e Silenzio si facevano compagnia. Ci permettevano di incontrarci nell’ascolto delle parole non dette ma sentite ugualmente. Ed era bellissimo ritrovarci nei volti che via via si cancellavano mentre si facevano più evidenti e vivi e veri i sentimenti che provavamo per noi, tra di noi. Lontano il mondo con la sua realtà.
Ma penombra e silenzio ci aiutavano anche a riflettere. A fare scelte, a prendere decisioni. Più grandicelle noi, più anziani e provati da nuovi affanni voi. Quanto ascolto in quelle penombre e in quei silenzi…
Allora, anche Ninì Rosso accompagnava tutto quel silenzio con la sua tromba magica e dolente che penetrava nel cuore e si faceva lacrime per ogni evento triste che il giorno, nostro e degli altri, registrava.
E, ancora oggi, penombra e silenzio, quando è possibile viverli nella nostra casa, accarezzano, l’essenza degli oggetti, delle cose. Intuiscono le verità in questi nascoste, in attesa di scoprire la Verità che nel Tutto le comprenda e le inglobi. Si sostengono e si completano. Si arricchiscono di senso e danno un significato più profondo alla vita.
Annah Arendt afferma che solo nel silenzio e nella penombra è possibile conoscerci e riconoscerci. E la conoscenza di sé e il proprio riconoscimento danno all’essere umano la giusta dimensione di quello che è nel mondo e gli evita errori di valutazione e di autovalutazione. Il clamore è spesso il fallimento della nostra autenticità, perché ci stordisce, ci frastorna, ci impedisce fi pensare. Spesso è la festa della inautenticità: il più delle volte ciò che appare non è. La Verità “è invisibile al mondo”. Per scoprirla ci occorre e ci soccorre il silenzio. Quello che ci riporta alle parole mute delle cose, alla loro storia nascosta e forse dimenticata. Al canto della natura. Al sussurro del giorno che comincia e si racconta in un segreto d’intenti, e di passi per perseguirli e di gesti per realizzarli, perché ogni giorno sia un giorno nuovo e aggiunga qualcosa di diverso alla nostra vita. Un fremito. Una emozione. Un accadimento che ci sorprenda e ci faccia sentire vivi o rinascere. Nel faticoso, gioioso, tormentato, chiaro, complesso, semplice nostro andare. Viandanti in uno spazio/tempo che ci appartiene e che pure non è nostro. Di cui forse dobbiamo dare di conto. Magari in silenzio. Quando la penombra smorza pian piano anche i nostri pensieri…”
(da: Le piogge e i ciliegi, romanzo di prossima pubblicazione)

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