domenica 6 maggio 2018

“Je suis Janette” di Enzo Quarto - Seconda parte


E nella parola poetica ecco farsi luce, nel poema di Enzo Quarto, il canto della tenerezza che si manifesta visibilmente sotto forma di carezza. Oh, quanto tutti noi abbiamo “fame e sete” di tenerezza e, quindi, di una carezza, senza magari avere mai il coraggio di chiedere, di dare. Eppure, nella parte più profonda di noi sappiamo che è il gesto più puro, più disinteressato, più intimo e dolce, che unisce in un fremito lieve e forte due persone. È fiducioso e pieno abbandono all’altro/a perché dell’altro/a ci si fida ciecamente e ci si affida con gioia, speranza, verità, amore. Sì, la carezza è soglia incontaminata di amore, ma anche di umiltà, di semplicità, di mitezza di cuore. Quando ero bambina, recitavo con mia madre e i miei nonni una giaculatoria “Gesù mite e umile di cuore/ fate il mio cuore simile al vostro” ed io sentivo in quelle parole la carezza di Gesù, la sua tenerezza. E mi sentivo protetta, al sicuro nella mia casa sicura, tra persone che sicuramente mi amavano. E ho sempre abbinato la mitezza alla umiltà, e alla sicurezza che nessun male potesse accadermi. Che è mite non urla, non ferisce, non divide, non disperde. Chi è mite accoglie in silenzio e sorride e accarezza con lo sguardo, con la voce, con il gesto lieve della mano, con le ali delle braccia a nido o in volo. E tutto diventa confortevole. Tutto diventa possibile. Tutto si fa più bello, sopportabile, raggiungibile. Anche perché non si è mai soli. La carezza presuppone la vicinanza, quanto meno del cuore, dell’altro/a. Si è in due (o anche in tanti, non importa, il sentimento d’amore e di bontà non si diluisce, si rafforza). In due, però, si crea quell’intimità che dà anche il coraggio di osare, di andare oltre, di chiedere di più. Perché questo legame empatico dà forza, sicurezza, serenità, gioia di vivere. Senza far rumore. Ecco perché poeti, pittori, scultori e tutto il mondo dell’Arte ci ha sempre regalato una emozione nell’attimo puro della carezza: incontro di anime nella tenerezza dei corpi.
Ci bastava la carezza” è il titolo dolcissimo del compianto nostro autore Umberto Kuhtz, che aveva fatto della tenerezza il suo abito quotidiano. Ecco può “bastare” una carezza. Anzi, “la” carezza, quella che ci è nota perché è nostra e nostra soltanto. Ci appartiene. Ne conosciamo l’intensità e la leggerezza. Il calore. È la carezza che ci completa, ci guarisce, ci rigenera. Anche Alda Merini ne “Il peso della carezza” ne ha cantato paradossalmente la lievità “… quasi segno d’alba… dentro si alza il cielo…”. Enzo Quarto, a questo punto, fa del suo libro il poema della carezza.  
E la struttura ad anello di queste poesie si evidenzia in tutta la sua circolarità.
Siamo partiti dalla dolcezza del titolo “Je suis Janette”, in cui il diminutivo si fa vezzeggiativo e infonde non solo il senso della semplicità e della fragilità ma anche quello della tenerezza e della commozione (e persino l’immagine di copertina, opera del nostro giovanissimo graphic designer Nicola Piacente, è indice di forza della scrittura attraverso la leggerezza della piuma/penna che, con i suoi colori di cielo, di creatività e spiritualità - il rosa dell’alba, l’indaco, il violetto - sembra accarezzare la pagina) per ritornare alla tenerezza del gesto, continuamente dichiarato, sussurrato, cantato da Enzo Quarto. Gesto atteso, sognato, dato e ricevuto, rimandato o restituito, ignorato negli anni della giovinezza e pensato, scoperto voluto, agognato negli anni della maturità, ammantato di rimpianto e di nostalgia, ritrovato nell’ora della verità e della morte. Quasi uno sfiorare di dita su ciglia chiuse, quasi una preghiera dell’anima che sfiora il cielo. Carezza in tutte le sue declinazioni di Amore (“… scolpire di carezza in carezza/ sulla pietra millenaria/ una sola parola:/amore.”), Consolazione (“L’ho avvertita la tua carezza d’amore/ che la morte non ha disperso./ L’ho avvertita sulla stessa guancia/ ch’io volli consolare/ nell’ora afflitta del dolore.”), Rammarico (“La carezza che non t’ho dato…”), Protezione (“M’avvolgerà/ tua carezza di Padre…”), Ardore (“Mi prese l’ardire infinito di una carezza…”), Desiderio e Speranza (“Potesse/ la carezza della/ mia anima/ rasserenare il/ mio corpo nel/giorno del diluvio… “), Riscatto, Restituzione, Dedizione, Reciprocità (“… Ed è la tua carezza/ ad aver sovrastato la mia.”), Condivisione, Gratitudine (“… in un carezzevole gesto/ di gratitudine.”), Riconoscenza (“… nell’orto fiorito e/ riconoscente/ del mio esserti figlio.”), Dono di sé (“… Ch’io non voglia mai/ lesinare carezze.”). Segno di Rinascita. Di Speranza. Approdo (“… per approdare/ carezza/ sul tuo sguardo…”). Segno di Riconciliazione. Di Resurrezione (“Nei suoi occhi/ ho visto il volto di Dio,/ il carezzevole sguardo/ della Misericordia…). Di Pace.
E qui ecco fiorire un nuovo suggestivo canto, che abbraccia tre lingue, le tre religioni monoteiste, tre popoli, e tutto il genere umano che vive sotto lo stesso Cielo. Noi, creature di un unico Padre in questo Creato che ci comprende e ci affratella. L’importante è fare silenzio dentro e fuori di noi per ascoltare la Sua Parola. E qui subentra la meraviglia del silenzio e dell’ascolto. È il silenzio che parla più di ogni altra parola. Il silenzio che vince l’arroganza, la presunzione, la falsità, l’inganno. Laddove la parola si corrompe, il silenzio purifica e redime perché parla con la lingua del cuore, che è sempre voce di Dio. A saperla, volerla ascoltare.
(““Ascoltatelo”/ e il silenzio si fece voce,/ preghiera di perdono/ per ogni volta/ che dimentichiamo l’ascolto. “Ascoltatelo”/ e il sangue nelle nostre vene/ sentì il calore del sollievo/ il tepore fraterno/ e consolatorio di ogni solitudine./ “Ascoltatelo”/ e il fallimento fu dimenticato,/ per ogni volta/ che l’ascolto alimenta la speranza/ ed è gioia di condivisione.” - Monte Tabor 22 marzo 2011)
Ecco perché questo libro di Enzo Quarto va letto, appassionandosi ad ogni pagina, ad ogni verso. Esso è più del poema, che ci ricorda la piccola Giovanna, incendiata da Dio per incendiare i cuori e portare, vincitrice, il vessillo della sua Parola fino all’incendio del suo corpo fra scintille di fede in volo. È più di una esortazione in difesa della parola autentica e densa di significati umani e divini. È più del viaggio esistenziale verso la terra promessa. È più di un inno alla tenerezza, di cui tutti gli esseri viventi hanno bisogno in una società “liquida” (Bauman) , “desertificata” e “dalle passioni tristi” (Smith e Benayasag).
È, per me, una cattedrale gotica che, nella penombra e nel silenzio, si fa richiamo di Dio, e, nella elevazione al cielo delle sue guglie, preghiera degli uomini.
È soprattutto un piccolo seme di Speranza gettato dall’autore sul terreno dell’indifferenza e della violenza, degli egoismi e della soggettività ipertrofica, perché germogli pian piano e si trasformi in un mondo nuovo, nel recupero della Umanità nell’uomo. Per ritrovarci tutti (questo il suo messaggio cristiano) nei Valori di sempre e riscoprirci “assetati e affamati” della Parola di Dio, fonte di Unione, di Verità, di Fratellanza, di Amore. Nella umiltà di essere semplici semi, in veste di poesia.
Ma Enzo Quarto ama definirsi soprattutto, riprendendo le parole di Mons. Hocevar, una semplice “matita” (Madre Teresa di Calcutta) nelle mani del Signore.
                                                                                                          Angela De Leo

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