E nella parola poetica
ecco farsi luce, nel poema di Enzo Quarto, il canto della tenerezza che si
manifesta visibilmente sotto forma di carezza. Oh, quanto tutti noi abbiamo “fame
e sete” di tenerezza e, quindi, di una carezza, senza magari avere mai il
coraggio di chiedere, di dare. Eppure, nella parte più profonda di noi sappiamo
che è il gesto più puro, più disinteressato, più intimo e dolce, che unisce in
un fremito lieve e forte due persone. È fiducioso e pieno abbandono all’altro/a
perché dell’altro/a ci si fida ciecamente e ci si affida con gioia, speranza,
verità, amore. Sì, la carezza è soglia incontaminata di amore, ma anche di
umiltà, di semplicità, di mitezza di cuore. Quando ero bambina, recitavo con
mia madre e i miei nonni una giaculatoria “Gesù
mite e umile di cuore/ fate il mio cuore simile al vostro” ed io sentivo in
quelle parole la carezza di Gesù, la sua tenerezza. E mi sentivo protetta, al
sicuro nella mia casa sicura, tra persone che sicuramente mi amavano. E ho
sempre abbinato la mitezza alla umiltà, e alla sicurezza che nessun male
potesse accadermi. Che è mite non urla, non ferisce, non divide, non disperde. Chi
è mite accoglie in silenzio e sorride e accarezza con lo sguardo, con la voce,
con il gesto lieve della mano, con le ali delle braccia a nido o in volo. E tutto
diventa confortevole. Tutto diventa possibile. Tutto si fa più bello,
sopportabile, raggiungibile. Anche perché non si è mai soli. La carezza
presuppone la vicinanza, quanto meno del cuore, dell’altro/a. Si è in due (o anche
in tanti, non importa, il sentimento d’amore e di bontà non si diluisce, si
rafforza). In due, però, si crea quell’intimità che dà anche il coraggio di
osare, di andare oltre, di chiedere di più. Perché questo legame empatico dà
forza, sicurezza, serenità, gioia di vivere. Senza far rumore. Ecco perché
poeti, pittori, scultori e tutto il mondo dell’Arte ci ha sempre regalato una
emozione nell’attimo puro della carezza: incontro di anime nella tenerezza dei
corpi.
“Ci bastava la carezza” è il titolo dolcissimo del compianto nostro
autore Umberto Kuhtz, che aveva fatto della tenerezza il suo abito quotidiano. Ecco
può “bastare” una carezza. Anzi, “la” carezza, quella che ci è nota perché è
nostra e nostra soltanto. Ci appartiene. Ne conosciamo l’intensità e la
leggerezza. Il calore. È la carezza che ci completa, ci guarisce, ci rigenera. Anche
Alda Merini ne “Il peso della carezza” ne ha cantato paradossalmente la lievità
“… quasi segno d’alba… dentro si alza il cielo…”. Enzo Quarto, a questo punto,
fa del suo libro il poema della carezza.
E la struttura ad
anello di queste poesie si evidenzia in tutta la sua circolarità.
Siamo partiti dalla
dolcezza del titolo “Je suis Janette”,
in cui il diminutivo si fa vezzeggiativo e infonde non solo il senso della
semplicità e della fragilità ma anche quello della tenerezza e della commozione
(e persino l’immagine di copertina, opera del nostro giovanissimo graphic designer
Nicola Piacente, è indice di forza della scrittura attraverso la leggerezza
della piuma/penna che, con i suoi colori di cielo, di creatività e spiritualità
- il rosa dell’alba, l’indaco, il violetto - sembra accarezzare la pagina) per
ritornare alla tenerezza del gesto, continuamente dichiarato, sussurrato,
cantato da Enzo Quarto. Gesto atteso, sognato, dato e ricevuto, rimandato o
restituito, ignorato negli anni della giovinezza e pensato, scoperto voluto,
agognato negli anni della maturità, ammantato di rimpianto e di nostalgia,
ritrovato nell’ora della verità e della morte. Quasi uno sfiorare di dita su
ciglia chiuse, quasi una preghiera dell’anima che sfiora il cielo. Carezza in
tutte le sue declinazioni di Amore (“… scolpire
di carezza in carezza/ sulla pietra millenaria/ una sola parola:/amore.”),
Consolazione (“L’ho avvertita la tua
carezza d’amore/ che la morte non ha disperso./ L’ho avvertita sulla stessa
guancia/ ch’io volli consolare/ nell’ora afflitta del dolore.”), Rammarico
(“La carezza che non t’ho dato…”),
Protezione (“M’avvolgerà/ tua carezza di
Padre…”), Ardore (“Mi prese l’ardire
infinito di una carezza…”), Desiderio e Speranza (“Potesse/ la carezza della/ mia anima/ rasserenare il/ mio corpo
nel/giorno del diluvio… “), Riscatto, Restituzione, Dedizione, Reciprocità
(“… Ed è la tua carezza/ ad aver
sovrastato la mia.”), Condivisione, Gratitudine (“… in un carezzevole gesto/ di gratitudine.”), Riconoscenza (“… nell’orto fiorito e/ riconoscente/ del mio
esserti figlio.”), Dono di sé (“… Ch’io
non voglia mai/ lesinare carezze.”). Segno di Rinascita. Di Speranza. Approdo
(“… per approdare/ carezza/ sul tuo
sguardo…”). Segno di Riconciliazione. Di Resurrezione (“Nei suoi occhi/ ho visto il volto di Dio,/
il carezzevole sguardo/ della Misericordia…). Di Pace.
E qui ecco fiorire un
nuovo suggestivo canto, che abbraccia tre lingue, le tre religioni monoteiste,
tre popoli, e tutto il genere umano che vive sotto lo stesso Cielo. Noi,
creature di un unico Padre in questo Creato che ci comprende e ci affratella.
L’importante è fare silenzio dentro e fuori di noi per ascoltare la Sua Parola.
E qui subentra la meraviglia del silenzio e dell’ascolto. È il silenzio che
parla più di ogni altra parola. Il silenzio che vince l’arroganza, la
presunzione, la falsità, l’inganno. Laddove la parola si corrompe, il silenzio
purifica e redime perché parla con la lingua del cuore, che è sempre voce di
Dio. A saperla, volerla ascoltare.
(““Ascoltatelo”/ e il silenzio si fece voce,/
preghiera di perdono/ per ogni volta/ che dimentichiamo l’ascolto. “Ascoltatelo”/
e il sangue nelle nostre vene/ sentì il calore del sollievo/ il tepore
fraterno/ e consolatorio di ogni solitudine./ “Ascoltatelo”/ e il fallimento fu
dimenticato,/ per ogni volta/ che l’ascolto alimenta la speranza/ ed è gioia di
condivisione.” - Monte Tabor 22 marzo 2011)
Ecco perché questo
libro di Enzo Quarto va letto, appassionandosi ad ogni pagina, ad ogni verso.
Esso è più del poema, che ci ricorda la piccola Giovanna, incendiata da Dio per
incendiare i cuori e portare, vincitrice, il vessillo della sua Parola fino
all’incendio del suo corpo fra scintille di fede in volo. È più di una
esortazione in difesa della parola autentica e densa di significati umani e
divini. È più del viaggio esistenziale verso la terra promessa. È più di un
inno alla tenerezza, di cui tutti gli esseri viventi hanno bisogno in una
società “liquida” (Bauman) , “desertificata” e “dalle passioni tristi” (Smith e
Benayasag).
È, per me, una
cattedrale gotica che, nella penombra e nel silenzio, si fa richiamo di Dio, e,
nella elevazione al cielo delle sue guglie, preghiera degli uomini.
È soprattutto un
piccolo seme di Speranza gettato dall’autore sul terreno dell’indifferenza e
della violenza, degli egoismi e della soggettività ipertrofica, perché germogli
pian piano e si trasformi in un mondo nuovo, nel recupero della Umanità
nell’uomo. Per ritrovarci tutti (questo il suo messaggio cristiano) nei Valori
di sempre e riscoprirci “assetati e affamati” della Parola di Dio, fonte di
Unione, di Verità, di Fratellanza, di Amore. Nella umiltà di essere semplici
semi, in veste di poesia.
Ma Enzo Quarto ama
definirsi soprattutto, riprendendo le parole di Mons. Hocevar, una semplice
“matita” (Madre Teresa di Calcutta) nelle mani del Signore.
Angela
De Leo
Nessun commento:
Posta un commento