domenica 13 maggio 2018

“DUETTO PROFANO” di Giovanni Gastel - seconda parte


Ma Dio può essere causa anche del male? Il primo protagonista ha proprio, attraverso un libro e le sue terribili parole e le sue immagini grondanti sangue e terrore, il primo incontro con il male del mondo: l’Olocausto degli Ebrei.  Ed era ancora un bambino che guardava il mondo con occhi spalancati, senza fiabe certo, ma un mondo ancora da scoprire, da vivere. E, invece, la morte in agguato lo condizionerà per tutti gli anni a venire. Da quelle immagini in poi nulla sarà come prima. Neppure le parole. Neppure i silenzi che spesso urlano parole mute. Ma il romanzo non può restare senza parole. E il romanzo nel romanzo neppure. Bisogna crescere e diventare grandi e sapersi “orfani ed eredi” (Massimo Recalcati) per poter fare a meno dei miti e dei sogni e per prendersi la responsabilità di ogni scelta, vittoria o sconfitta che sia. Dimenticarsi anche di Guido, il mentore giovane, che sembra guidare i passi (nomen omen) nel percorso inventato, eppure così vero da prendere a cuore la sorte di questo ragazzo sagace e misterioso che ha tutte le qualità per vincere, ma alla fine è più di aiuto agli altri che a sé stesso. Il male di vivere corrode le menti più sensibili (vedi Cesare Pavese nel “Mestiere di vivere”).
La quotidianità ha le sue leggi intransigenti sia che si viva in un mondo dorato sia che ci si arrabatti in un ambiente senza pretese e senza voli alti. Qui la realtà è Anna e il suo amore normale. Senza volto. Senza un tuffo al cuore. La realtà è un pacco di sigarette, una donna da pagare per un’ora e qualche buco nelle vene per sopportare la normalità di una vita senza imprevisti e senza fantasia; suicidio per chi, invece, è dotato di creatività e non vuole sottostare alle regole della mediocrità e sogna di andare lontano, senza riuscirvi mai. Neppure attraverso i libri che pure ama e detesta. Ne ha letti tanti un tempo. Poi non più.
I libri, dunque, possono dannarci e salvarci?  
Ci dannano quando è troppo profondo il divario da colmare tra gli orizzonti che indicano e il breve cielo che si è costretti a guardare ogni giorno.
In più la mia vita non mi piace, nella mia vita non succede mai niente. E quello che vedo dalla mia finestra non riesco nemmeno a ricordarmelo da tante volte che l’ho visto!”.
E ci salvano, quando ci dischiudono orizzonti che sappiamo di poter raggiungere; quando ci indicano sentimenti in cui speriamo ancora; quando ci permettono di vivere migliaia di vite altre che nell’arco di una sola vita sarebbe impossibile vivere e   ci permettono una emozione che, altrimenti non riusciremmo a provare o immaginare, luoghi che non potremmo mai conoscere senza il dono dell’ubiquità. Quando ci permettono di riflettere e imparare.
La realtà: la stessa donna senza volto. La stessa casa senza un oggetto da ricordare. Lo stesso cielo senza uno squarcio di cielo.
Stava sdraiata di lato, ho un letto piccolo, ci si sta male in due. Era rannicchiata in un angolo con la sua piccola faccia appoggiata alla mia spalla. Immobile io guardavo il soffitto della mia porca stanza”. E tutto sa di angusto, di chiuso, di programmato.
La fantasia, invece, è Paola con il suo volto ben disegnato, “un’espressione allegra negli occhi scuri, allungati, vagamente orientali”. La fantasia è il suo caratterino bizzarro e la sua voglia di vivere l’attimo che esplode ad ogni sorriso, ad ogni polemica contro il modo di vivere di lui che non sa vivere, se non nei romanzi impegnati che legge. La fantasia è il cuore in gola dell’attesa. Il cuore in gola per ogni sua parola, ogni suo silenzio. Ogni amante che ha avuto, ha e avrà.
Entrambe le coppie segnano una sorta di “mal di vivere” come rodaggio per imparare a vivere. E traghettare dall’adolescenza verso la giovinezza tra scogli pericolosi e alte maree, che sanno momenti di calma piatta sul mare dell’indifferenza e dell’inedia, con pochi punti di riferimento saldi e solidi nella loro temporalità e spazialità.
Anche Dio, nell’uno e nell’altro caso, è un costante appiglio più per renderlo reo di una sconfitta che àncora di ogni salvezza. È più facile negarlo che ammetterLo nella propria vita e nei propri pensieri e tormenti, dirà lo stesso autore per bocca dei suoi protagonisti. Addebitiamo a Lui la nostra imperfezione perché, se fossimo perfetti vanificheremmo la Sua esistenza. Anche questo è un suo pensiero su cui riflettere. Mi sorge un dubbio: è la nostra arroganza a negare la Sua esistenza? L’IO ipertrofico potrebbe fare di questi “scherzi da prete”. Perché “Dio è un’esigenza”, come afferma con veemenza il ragazzo di fantasia in un contesto di interlocutori ironici, scettici, vibranti di false congetture per coprire il vuoto della loro falsa esistenza. Ma è anche questo il pedaggio che si deve pagare per crescere. E affrancarsi da tutto e da tutti. Non a caso, occorre uccidere il Budda se lo incontri sulla tua strada (Meditazioni Reiki) e ubbidire al comandamento alternativo “Disonora il padre” (Enzo Biagi) se vuoi salvarti dai suoi condizionamenti, dal Super Io che lui in psicanalisi rappresenta e che ti schiaccia e ti colpevolizza. Dio, però, non è un padre umano. Non è un dato certo. Non ha carne, né ossa né occhi che ti scrutano e ti rimproverano. È ricerca e dubbio. Ma finché lo cerchiamo, con umiltà, consci della nostra fragilità e della nostra pochezza di fronte all’IMMENSO che ci sovrasta e ci avvolge, è già in noi. Più vicino di quanto si possa pensare.
Un libro, dunque, alla ricerca di Dio questo romanzo giovanile di Giovanni Gastel? Forse. Certamente è un libro alla scoperta di sé, in mondi paralleli e spesso aggrovigliati come lantane. E anche ogni lettore, pagina dopo pagina, può fare esperienza di sé stesso, nella perdita e nel ritrovamento della propria identità, a cominciare dagli anni di fine secolo Novecento, il “secolo breve” (Eric Hobsbawm) che ha costituito, soprattutto dal Sessantotto in poi, il preludio alla crisi dei valori che ancora oggi ci attanaglia. La morte di Cristo non ha riguardato solo un mondo che credevamo di aver abbandonato alle spalle con il nichilismo predicato da Nietzsche. Quest’ultimo è ancora oggi più virulento che mai, come “L’ospite inquietante” (Umberto Galimberti) dei nostri giorni.
Nelle pagine di Giovanni Gastel tutto questo si ripropone, ma in maniera del tutto personale e sorprendente.
L’io narrante si divide e non ha mai un nome, né eteronimi come accade in Fernando Pessoa.
E, invece, tutti intorno ai due protagonisti, in cui l’io narrante si sdoppia, vengono   nominati: Anna, Paola, Guido, Giovanni, Marco, Alessandro, Mary, Renato, Arturo, Antonio. Quanto importante la nominazione.
I due protagonisti non hanno neppure un nome perché possono sempre nascondersi, confondersi, riassumersi nell’autore stesso e da lui divergere, allontanarsi perché, quando il libro è finito e viene pubblicato, prende il nome di ogni lettore che si fa protagonista e reinventa quella storia per farne un’altra e un’altra ancora, secondo lo stato d’animo del momento, secondo il proprio retroterra culturale, secondo la propria sensibilità, secondo le personali esperienze di vita: quelle vissute e quelle che vorrebbe vivere. Secondo il suo stile e le sue regole. È lui che finalmente crea.
Ed io mi fermo qui, mentre il romanzo continua. Con una sorta di ironia sottesa a. Di malinconia soffusa per. Di sorriso enigmatico e misterioso, senza direzioni.
La conclusione? Potrebbe seguire le regole non scritte della vita. Oppure quelle mai esistite della immaginazione, fantasia, creatività. O, infine, quelle di una totale riscrittura. Al lettore l’“ardua sentenza”. Io ho una mia idea… sarà quella giusta? Chissà! Non si è detto che la scrittura è soggettivamente visionaria e autentica, punitiva e salvifica?
                                                                            Angela De Leo

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