Ma Dio può essere
causa anche del male? Il primo protagonista ha proprio, attraverso un libro e
le sue terribili parole e le sue immagini grondanti sangue e terrore, il primo
incontro con il male del mondo: l’Olocausto degli Ebrei. Ed era ancora un bambino che guardava il mondo
con occhi spalancati, senza fiabe certo, ma un mondo ancora da scoprire, da
vivere. E, invece, la morte in agguato lo condizionerà per tutti gli anni a
venire. Da quelle immagini in poi nulla sarà come prima. Neppure le parole.
Neppure i silenzi che spesso urlano parole mute. Ma il romanzo non può restare
senza parole. E il romanzo nel romanzo neppure. Bisogna crescere e diventare
grandi e sapersi “orfani ed eredi” (Massimo Recalcati) per poter fare a meno
dei miti e dei sogni e per prendersi la responsabilità di ogni scelta, vittoria
o sconfitta che sia. Dimenticarsi anche di Guido, il mentore giovane, che
sembra guidare i passi (nomen omen) nel percorso inventato, eppure così vero da
prendere a cuore la sorte di questo ragazzo sagace e misterioso che ha tutte le
qualità per vincere, ma alla fine è più di aiuto agli altri che a sé stesso. Il
male di vivere corrode le menti più sensibili (vedi Cesare Pavese nel “Mestiere
di vivere”).
La quotidianità ha le
sue leggi intransigenti sia che si viva in un mondo dorato sia che ci si
arrabatti in un ambiente senza pretese e senza voli alti. Qui la realtà è Anna
e il suo amore normale. Senza volto. Senza un tuffo al cuore. La realtà è un
pacco di sigarette, una donna da pagare per un’ora e qualche buco nelle vene
per sopportare la normalità di una vita senza imprevisti e senza fantasia;
suicidio per chi, invece, è dotato di creatività e non vuole sottostare alle
regole della mediocrità e sogna di andare lontano, senza riuscirvi mai. Neppure
attraverso i libri che pure ama e detesta. Ne ha letti tanti un tempo. Poi non
più.
I libri, dunque,
possono dannarci e salvarci?
Ci dannano quando è
troppo profondo il divario da colmare tra gli orizzonti che indicano e il breve
cielo che si è costretti a guardare ogni giorno.
“In più la mia vita non mi piace, nella mia vita non succede mai niente.
E quello che vedo dalla mia finestra non riesco nemmeno a ricordarmelo da tante
volte che l’ho visto!”.
E ci salvano, quando
ci dischiudono orizzonti che sappiamo di poter raggiungere; quando ci indicano
sentimenti in cui speriamo ancora; quando ci permettono di vivere migliaia di
vite altre che nell’arco di una sola vita sarebbe impossibile vivere e ci permettono una emozione che, altrimenti
non riusciremmo a provare o immaginare, luoghi che non potremmo mai conoscere
senza il dono dell’ubiquità. Quando ci permettono di riflettere e imparare.
La realtà: la stessa
donna senza volto. La stessa casa senza un oggetto da ricordare. Lo stesso
cielo senza uno squarcio di cielo.
“Stava sdraiata di lato, ho un letto piccolo, ci si sta male in due. Era
rannicchiata in un angolo con la sua piccola faccia appoggiata alla mia spalla.
Immobile io guardavo il soffitto della mia porca stanza”. E tutto sa di
angusto, di chiuso, di programmato.
La fantasia, invece, è
Paola con il suo volto ben disegnato, “un’espressione
allegra negli occhi scuri, allungati, vagamente orientali”. La fantasia è
il suo caratterino bizzarro e la sua voglia di vivere l’attimo che esplode ad
ogni sorriso, ad ogni polemica contro il modo di vivere di lui che non sa
vivere, se non nei romanzi impegnati che legge. La fantasia è il cuore in gola
dell’attesa. Il cuore in gola per ogni sua parola, ogni suo silenzio. Ogni
amante che ha avuto, ha e avrà.
Entrambe le coppie
segnano una sorta di “mal di vivere” come rodaggio per imparare a vivere. E
traghettare dall’adolescenza verso la giovinezza tra scogli pericolosi e alte
maree, che sanno momenti di calma piatta sul mare dell’indifferenza e
dell’inedia, con pochi punti di riferimento saldi e solidi nella loro
temporalità e spazialità.
Anche Dio, nell’uno e
nell’altro caso, è un costante appiglio più per renderlo reo di una sconfitta
che àncora di ogni salvezza. È più facile negarlo che ammetterLo nella propria
vita e nei propri pensieri e tormenti, dirà lo stesso autore per bocca dei suoi
protagonisti. Addebitiamo a Lui la nostra imperfezione perché, se fossimo
perfetti vanificheremmo la Sua esistenza. Anche questo è un suo pensiero su cui
riflettere. Mi sorge un dubbio: è la nostra arroganza a negare la Sua
esistenza? L’IO ipertrofico potrebbe fare di questi “scherzi da prete”. Perché
“Dio è un’esigenza”, come afferma con
veemenza il ragazzo di fantasia in un contesto di interlocutori ironici,
scettici, vibranti di false congetture per coprire il vuoto della loro falsa
esistenza. Ma è anche questo il pedaggio che si deve pagare per crescere. E
affrancarsi da tutto e da tutti. Non a caso, occorre uccidere il Budda se lo
incontri sulla tua strada (Meditazioni Reiki) e ubbidire al comandamento
alternativo “Disonora il padre” (Enzo
Biagi) se vuoi salvarti dai suoi condizionamenti, dal Super Io che lui in
psicanalisi rappresenta e che ti schiaccia e ti colpevolizza. Dio, però, non è
un padre umano. Non è un dato certo. Non ha carne, né ossa né occhi che ti
scrutano e ti rimproverano. È ricerca e dubbio. Ma finché lo cerchiamo, con
umiltà, consci della nostra fragilità e della nostra pochezza di fronte
all’IMMENSO che ci sovrasta e ci avvolge, è già in noi. Più vicino di quanto si
possa pensare.
Un libro, dunque, alla
ricerca di Dio questo romanzo giovanile di Giovanni Gastel? Forse. Certamente è
un libro alla scoperta di sé, in mondi paralleli e spesso aggrovigliati come
lantane. E anche ogni lettore, pagina dopo pagina, può fare esperienza di sé
stesso, nella perdita e nel ritrovamento della propria identità, a cominciare
dagli anni di fine secolo Novecento, il “secolo breve” (Eric Hobsbawm) che ha
costituito, soprattutto dal Sessantotto in poi, il preludio alla crisi dei
valori che ancora oggi ci attanaglia. La morte di Cristo non ha riguardato solo
un mondo che credevamo di aver abbandonato alle spalle con il nichilismo
predicato da Nietzsche. Quest’ultimo è ancora oggi più virulento che mai, come
“L’ospite inquietante” (Umberto Galimberti) dei nostri giorni.
Nelle pagine di Giovanni
Gastel tutto questo si ripropone, ma in maniera del tutto personale e
sorprendente.
L’io narrante si
divide e non ha mai un nome, né eteronimi come accade in Fernando Pessoa.
E, invece, tutti
intorno ai due protagonisti, in cui l’io narrante si sdoppia, vengono nominati:
Anna, Paola, Guido, Giovanni, Marco, Alessandro, Mary, Renato, Arturo, Antonio.
Quanto importante la nominazione.
I due protagonisti non
hanno neppure un nome perché possono sempre nascondersi, confondersi,
riassumersi nell’autore stesso e da lui divergere, allontanarsi perché, quando
il libro è finito e viene pubblicato, prende il nome di ogni lettore che si fa
protagonista e reinventa quella storia per farne un’altra e un’altra ancora,
secondo lo stato d’animo del momento, secondo il proprio retroterra culturale,
secondo la propria sensibilità, secondo le personali esperienze di vita: quelle
vissute e quelle che vorrebbe vivere. Secondo il suo stile e le sue regole. È
lui che finalmente crea.
Ed io mi fermo qui,
mentre il romanzo continua. Con una sorta di ironia sottesa a. Di malinconia
soffusa per. Di sorriso enigmatico e misterioso, senza direzioni.
La conclusione?
Potrebbe seguire le regole non scritte della vita. Oppure quelle mai esistite
della immaginazione, fantasia, creatività. O, infine, quelle di una totale
riscrittura. Al lettore l’“ardua sentenza”. Io ho una mia idea… sarà quella
giusta? Chissà! Non si è detto che la scrittura è soggettivamente visionaria e
autentica, punitiva e salvifica?
Angela De Leo
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