Duetto Profano di Giovanni Gastel |
A ridosso della
magnifica prima presentazione nazionale del romanzo giovanile “Duetto Profano”
(SECOP Edizioni) di Giovanni Gastel, il nostro grande fotografo a livello internazionale,
avvenuta il pomeriggio del 10 maggio, alle h. 17, nella sala Romania del
Padiglione 3 del Salone del Libro di Torino, non essendo stata purtroppo
presente, ed avendo seguito a fatica la diretta per via dell’enorme rimbombo
che si avvertiva, come di consueto avviene nel Salone, a causa di suoni,
rumori, voci, passi, chiacchierate, che si susseguono e si moltiplicano
all’infinito, ritengo di potermi cimentare almeno con una prima “lettura” del
libro.
Un romanzo molto
originale e ricco di spunti di riflessione per chi sostiene, a ragione, che un
buon testo debba aiutarci a dilatare orizzonti e a confrontare il nostro punto
di vista con quello degli altri per imparare a coniugare nel modo migliore possibile
il nostro essere al mondo e per tentare di affrontare le molteplici realtà, che
siamo chiamati a vivere contemporaneamente, con discernimento, senso critico,
libertà di pensiero. E di gestirle, queste nuove e non sempre chiare realtà (per
questo il futuro ci fa paura) con la necessaria, conquistata e perdurante
resilienza, affinché non ci si possa disperdere, come purtroppo spesso oggi
anche agli adulti e agli anziani accade, nella complessità della società
contemporanea, nella sua velocissima trasformazione, nella indifferenza della
massa anonima che definiamo “gente”, negli innumerevoli linguaggi di una
tecnologia sempre più disumanizzante e nella comunicazione virtuale e planetaria,
croce e delizia dei nostri giorni. Sono questi i nemici che una buona
letteratura deve sconfiggere oggi. Per riumanizzare l’uomo e restituirlo ai
valori di sempre. E sin qui credo che questo libro abbia tutte le carte in
regola.
Dunque, “Duetto
Profano”. Già il titolo suscita curiosità, meraviglia. Ci intriga
immediatamente. Perché dà voce a due voci (duetto) che dovrebbero andare in
sintonia perché sono strettamente legate al canto “ad una voce” e, invece,
divergono per “estraneità” allo stesso mondo (profano = che sta fuori dalla
dimensione del sacro, ma anche dall’ambiente, dalla storia, dalla lingua e,
forse anche, dalla parola e dalla musica che, soprattutto in un duetto, è consonanza,
armonia).
Sono due voci legate,
ma divise. Solo le voci? Chi, allora?
Forse i protagonisti, forse le storie narrate. Forse lo stesso pensiero
dell’autore: un giovanissimo, geniale, diciassettenne che vuole cimentarsi con
la scrittura, ma è ancora nella fase della ricerca di sé in un mondo che lo
vuole incasellare nelle regole del bon
ton sociale (e la foto di copertina in bianco e nero, ma con la metà più
buia e misteriosa sfumata di rosso, ne è la straordinaria conferma. Conferma nell’abbigliamento,
nell’eleganza del gesto, e della sigaretta tra dita lunghissime di una mano
indolente e splendida, che fa da contraltare allo sbocciare del fiore, simile a
stella alpina in ribellione controvento sul rever quasi sciallato e ampio della
giacca - al posto della pochette nel
taschino - nel classico confortevole raffinato pied de poule. Nei capelli semilunghi e appena smossi. Nel volto,
corrucciato e severo con occhi grandi a guardare lontano).
Certo, a ben ricordare
la storia letteraria, in senso diacronico e sincronico, sono stati molti i
grandi autori che hanno usato la strategia del “doppio” nelle loro opere: da
Plauto a Goldoni, da Oscar Wilde a Dostoevvskij a Virginia Woolf, a Pessoa, ma
in questo romanzo il duplice volto del protagonista si interseca con un duplice
romanzo, che dà alla struttura del libro un impianto del tutto particolare e
nuovo, nella sua “circolarità (struttura ad anello), in cui realtà e fantasia
si aggrovigliano e si allontanano per tornare ad intrecciarsi nei desideri, nei
bisogni, nelle dispersioni e disperazioni dei due protagonisti, a cui si
affiancano volti e voci e storie di altri ragazzi nella loro “età ingrata”, ma
anche di adulti, parenti, estranei, amici perduti e ritrovati e ancora persi
forse per sempre. In una girandola di situazioni e di luoghi che ben si
addicono alla dispersione/disperazione adolescenziale, e alla tela di ragno di
vite solo all’apparenza tranquille e appagate, ma quanto distanti dall’ideale di
sé nella verità del proprio “Io” più profondo e quasi sempre ferito e
sconfitto.
“Lui ha una vita di merda, lo sa. E sa che io lo so. Ma non parla, sta
lì seduto e non parla. (…) Ha una
vita di merda, ma dipinge paesaggi. Smette di lavorare, arriva a casa, mangia
senza dire niente e si mette a dipingere. Abbiamo la casa invasa di paesaggi.
Li ricopia da un album…”.
È il padre del primo protagonista.
Senza alcun talento, ma ama ricopiare paesaggi. Nel suo piccolo, ama il bello e
se ne fa una ragione di vita in tanto silenzio avaro di sogni. In tanta
incomunicabilità. Sono gli anni a ridosso dei film di Antonioni quelli in cui
vive la fanciullezza e l’adolescenza l’autore, ed è ancora molto forte la
suggestione della trilogia (“L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse”) che aveva
segnato l’epoca postbellica ancora in crisi di identità e ancora alle prese con
la precarietà degli affetti e dei sentimenti, tra scene di silenzio carico di
parole non dette. Un senso di asfissia incombe tra il ragazzo che ha dentro
solchi confusi di rabbia e ribellione e suo padre, piccolo borghese, “piccolo e fascista. (…) Poi forse non è nemmeno più fascista, solo
non gli piacciono i comunisti”.
Di qui l’eterno
ritorno nietzschiano all’infanzia e ai luoghi del cuore: il giardino delle
meraviglie, la grande villa silenziosa, la Milano della domenica e della messa.
“… Sono arrivato col treno questa mattina. Questa
casa è grande. Fin troppo grande. Ha l’odore tipico delle case disabitate. Dà un
senso leggero di potenza aprire le finestre di una grande casa silenziosa e
buia. La luce entra di colpo e sembra inventare la stanza che illumina, crearla
dal nulla. (…) Mio fratello è bello…
grande… piace alle donne… ed ha in fondo agli occhi una calda tristezza perfino
quando ride. Quando ero piccolo giocava con me in questo grande giardino…”.
Ma è già una storia
tutta inventata che ha il magico sapore di un registro linguistico completamente
diverso: più morbido, elegante, poetico, descrittivo e connotativo insieme, che
dà la stura ai ricordi e ai pensieri “forti” di un diciottenne ricco, colto,
divoratore di libri, ma altrettanto scontento della vita che conduce. Annoiato.
Solo. Per scelta o per abitudine. O forse anche per contestazione. Forse perché
pensa troppo e agisce troppo poco... Pensieri grandi, filosofici, mistici, linguistici,
i suoi. E, così, per bocca del secondo protagonista, che ha dimestichezza con l’uso
della parola elegante, l’autore, sebbene giovanissimo, ha la possibilità di
fare un’ampia digressione/riflessione sulle parole. La loro importanza. Prima delle
parole il caos e dopo la Parola - il Verbo - Dio, ordine e perfezione. E alla
mente del lettore riporta il ricordo biblico di Adamo, prima creatura vivente,
dotata del dono incommensurabile della parola e, quindi, del pensiero (e qui, a
mio parere, Darwin potrebbe essere contestato: dove l’anello mancante? Non è
stato forse dotato di pensiero, parola, spirito il primo uomo in quanto tale,
sulla Terra?).
Fu il primo uomo,
infatti, a dare un nome a tutte le cose del creato. E la nominazione diede
pienezza di vita e una identità a tutte le cose. E creò l’ordine laddove c’era
disordine e la regola laddove c’era confusione. Potenza del pensiero mai
disgiunto dalla parola e potenza della nominazione mai disgiunta dall’ordine e
dalla causalità in tutti gli accadimenti umani. Dio, Causa prima di ogni cosa?
“A volte penso che il problema stia nelle parole. Le parole che
catalogano tutta la realtà, tutti i sentimenti, tutte le azioni. Non c’è cosa
che sfugga alla catalogazione. Ci sono parole per indicare persino il contrario
delle parole. Al principio era la Parola… e la Parola era presso Dio… e la
Parola era Dio…”.
Nessun commento:
Posta un commento