sabato 12 maggio 2018

“DUETTO PROFANO” di Giovanni Gastel - prima parte

Duetto Profano di Giovanni Gastel
A ridosso della magnifica prima presentazione nazionale del romanzo giovanile “Duetto Profano” (SECOP Edizioni) di Giovanni Gastel, il nostro grande fotografo a livello internazionale, avvenuta il pomeriggio del 10 maggio, alle h. 17, nella sala Romania del Padiglione 3 del Salone del Libro di Torino, non essendo stata purtroppo presente, ed avendo seguito a fatica la diretta per via dell’enorme rimbombo che si avvertiva, come di consueto avviene nel Salone, a causa di suoni, rumori, voci, passi, chiacchierate, che si susseguono e si moltiplicano all’infinito, ritengo di potermi cimentare almeno con una prima “lettura” del libro.
Un romanzo molto originale e ricco di spunti di riflessione per chi sostiene, a ragione, che un buon testo debba aiutarci a dilatare orizzonti e a confrontare il nostro punto di vista con quello degli altri per imparare a coniugare nel modo migliore possibile il nostro essere al mondo e per tentare di affrontare le molteplici realtà, che siamo chiamati a vivere contemporaneamente, con discernimento, senso critico, libertà di pensiero. E di gestirle, queste nuove e non sempre chiare realtà (per questo il futuro ci fa paura) con la necessaria, conquistata e perdurante resilienza, affinché non ci si possa disperdere, come purtroppo spesso oggi anche agli adulti e agli anziani accade, nella complessità della società contemporanea, nella sua velocissima trasformazione, nella indifferenza della massa anonima che definiamo “gente”, negli innumerevoli linguaggi di una tecnologia sempre più disumanizzante e nella comunicazione virtuale e planetaria, croce e delizia dei nostri giorni. Sono questi i nemici che una buona letteratura deve sconfiggere oggi. Per riumanizzare l’uomo e restituirlo ai valori di sempre. E sin qui credo che questo libro abbia tutte le carte in regola.
Dunque, “Duetto Profano”. Già il titolo suscita curiosità, meraviglia. Ci intriga immediatamente. Perché dà voce a due voci (duetto) che dovrebbero andare in sintonia perché sono strettamente legate al canto “ad una voce” e, invece, divergono per “estraneità” allo stesso mondo (profano = che sta fuori dalla dimensione del sacro, ma anche dall’ambiente, dalla storia, dalla lingua e, forse anche, dalla parola e dalla musica che, soprattutto in un duetto, è consonanza, armonia).
Sono due voci legate, ma divise.  Solo le voci? Chi, allora? Forse i protagonisti, forse le storie narrate. Forse lo stesso pensiero dell’autore: un giovanissimo, geniale, diciassettenne che vuole cimentarsi con la scrittura, ma è ancora nella fase della ricerca di sé in un mondo che lo vuole incasellare nelle regole del bon ton sociale (e la foto di copertina in bianco e nero, ma con la metà più buia e misteriosa sfumata di rosso, ne è la straordinaria conferma. Conferma nell’abbigliamento, nell’eleganza del gesto, e della sigaretta tra dita lunghissime di una mano indolente e splendida, che fa da contraltare allo sbocciare del fiore, simile a stella alpina in ribellione controvento sul rever quasi sciallato e ampio della giacca - al posto della pochette nel taschino - nel classico confortevole raffinato pied de poule. Nei capelli semilunghi e appena smossi. Nel volto, corrucciato e severo con occhi grandi a guardare lontano).
Certo, a ben ricordare la storia letteraria, in senso diacronico e sincronico, sono stati molti i grandi autori che hanno usato la strategia del “doppio” nelle loro opere: da Plauto a Goldoni, da Oscar Wilde a Dostoevvskij a Virginia Woolf, a Pessoa, ma in questo romanzo il duplice volto del protagonista si interseca con un duplice romanzo, che dà alla struttura del libro un impianto del tutto particolare e nuovo, nella sua “circolarità (struttura ad anello), in cui realtà e fantasia si aggrovigliano e si allontanano per tornare ad intrecciarsi nei desideri, nei bisogni, nelle dispersioni e disperazioni dei due protagonisti, a cui si affiancano volti e voci e storie di altri ragazzi nella loro “età ingrata”, ma anche di adulti, parenti, estranei, amici perduti e ritrovati e ancora persi forse per sempre. In una girandola di situazioni e di luoghi che ben si addicono alla dispersione/disperazione adolescenziale, e alla tela di ragno di vite solo all’apparenza tranquille e appagate, ma quanto distanti dall’ideale di sé nella verità del proprio “Io” più profondo e quasi sempre ferito e sconfitto.
Lui ha una vita di merda, lo sa. E sa che io lo so. Ma non parla, sta lì seduto e non parla. (…) Ha una vita di merda, ma dipinge paesaggi. Smette di lavorare, arriva a casa, mangia senza dire niente e si mette a dipingere. Abbiamo la casa invasa di paesaggi. Li ricopia da un album…”.
È il padre del primo protagonista. Senza alcun talento, ma ama ricopiare paesaggi. Nel suo piccolo, ama il bello e se ne fa una ragione di vita in tanto silenzio avaro di sogni. In tanta incomunicabilità. Sono gli anni a ridosso dei film di Antonioni quelli in cui vive la fanciullezza e l’adolescenza l’autore, ed è ancora molto forte la suggestione della trilogia (“L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse”) che aveva segnato l’epoca postbellica ancora in crisi di identità e ancora alle prese con la precarietà degli affetti e dei sentimenti, tra scene di silenzio carico di parole non dette. Un senso di asfissia incombe tra il ragazzo che ha dentro solchi confusi di rabbia e ribellione e suo padre, piccolo borghese, “piccolo e fascista. (…) Poi forse non è nemmeno più fascista, solo non gli piacciono i comunisti”.
Di qui l’eterno ritorno nietzschiano all’infanzia e ai luoghi del cuore: il giardino delle meraviglie, la grande villa silenziosa, la Milano della domenica e della messa.
“… Sono arrivato col treno questa mattina. Questa casa è grande. Fin troppo grande. Ha l’odore tipico delle case disabitate. Dà un senso leggero di potenza aprire le finestre di una grande casa silenziosa e buia. La luce entra di colpo e sembra inventare la stanza che illumina, crearla dal nulla. (…) Mio fratello è bello… grande… piace alle donne… ed ha in fondo agli occhi una calda tristezza perfino quando ride. Quando ero piccolo giocava con me in questo grande giardino…”.
Ma è già una storia tutta inventata che ha il magico sapore di un registro linguistico completamente diverso: più morbido, elegante, poetico, descrittivo e connotativo insieme, che dà la stura ai ricordi e ai pensieri “forti” di un diciottenne ricco, colto, divoratore di libri, ma altrettanto scontento della vita che conduce. Annoiato. Solo. Per scelta o per abitudine. O forse anche per contestazione. Forse perché pensa troppo e agisce troppo poco... Pensieri grandi, filosofici, mistici, linguistici, i suoi. E, così, per bocca del secondo protagonista, che ha dimestichezza con l’uso della parola elegante, l’autore, sebbene giovanissimo, ha la possibilità di fare un’ampia digressione/riflessione sulle parole. La loro importanza. Prima delle parole il caos e dopo la Parola - il Verbo - Dio, ordine e perfezione. E alla mente del lettore riporta il ricordo biblico di Adamo, prima creatura vivente, dotata del dono incommensurabile della parola e, quindi, del pensiero (e qui, a mio parere, Darwin potrebbe essere contestato: dove l’anello mancante? Non è stato forse dotato di pensiero, parola, spirito il primo uomo in quanto tale, sulla Terra?).
Fu il primo uomo, infatti, a dare un nome a tutte le cose del creato. E la nominazione diede pienezza di vita e una identità a tutte le cose. E creò l’ordine laddove c’era disordine e la regola laddove c’era confusione. Potenza del pensiero mai disgiunto dalla parola e potenza della nominazione mai disgiunta dall’ordine e dalla causalità in tutti gli accadimenti umani. Dio, Causa prima di ogni cosa?
A volte penso che il problema stia nelle parole. Le parole che catalogano tutta la realtà, tutti i sentimenti, tutte le azioni. Non c’è cosa che sfugga alla catalogazione. Ci sono parole per indicare persino il contrario delle parole. Al principio era la Parola… e la Parola era presso Dio… e la Parola era Dio…”. 

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