Cinquantadue anni dopo...
Dai
corvi neri dei pensieri
mi
libero con dita di acciaio
che
scavano versi nel sangue
dei
ricordi e li scaraventano via.
Non ti
fermare al mio sorriso
arcobaleno
che si rifrange
nel
mare dei sogni inascoltati
è un
vizio che non m'abbandona
da
quando bambina assordavo
le
stelle con la risata del mio dolore
e cantavo
oh quanto cantavo
con
labbra di papaveri e ciliegi
e
zucchero filato per addolcire
il
fiele di ogni distacco l'assenza
e
spianare la ruga della malinconia
(oggi
che i vuoti sono squarci
nel
lacerato vestito della festa
lasciami
il sorriso di un rattoppo
a
fingermi un ricamo d'erba...)
Allora…
1967
Un
matrimonio atteso per circa dieci anni e poi pensato con sospetto, con l’anima
in sospensione per troppe delusioni vissute come inganni.
Avevo
sognato troppo per non cadere lungo le vie strette e tortuose della realtà. Eri
tu il mio modello ed ogni comportamento che se ne discostasse era una ferita.
Venne
zio Padre Leonardo ad officiare il rito.
La sera precedente le strade periferiche del
nostro paese mi videro con Anna Maria riempirle di lacrime e di pensieri
sgomenti. Tutto mi tormentava. La tua assenza. La presenza di tanti che avrei
voluto assenti. I giorni dell’amore e della lontananza. E quelli che sarebbero
venuti solo per noi nella nuova casa.
’Saremmo stati bene insieme?’
Piovve a dirotto il giorno dopo. Piovvero
anche dubbi e timori. Si mescolarono all’acqua che non li lavò. Non li fece
scorrere lontano. Mi attanagliarono il cuore nell’attesa del vestito bianco che
tardava ad arrivare. Non era ancora pronto ed era stato confezionato proprio
per me nel paese degli abiti da sposa. Modello Angela. Con ricami di perline e
coralli, che io amavo tanto, a formare delicate margherite sul corpetto e lungo
tutto l’ampio bordo dell’abito, morbido sui fianchi ma leggermente svasato alla
caviglia. Quei ricami mi ricordavano gli abiti di tua madre. Neri. Eleganti.
Indossati nel mio eterno carnevale. Il
mio abito era bianco su bianco. Come la mia anima di attesa e di sgomento. Sì,
era ancora bianca la mia anima. Dopo le chiacchiere delle comari del vicinato e
dopo dieci anni del mio canto d’amore con Primo, ero ancora candore di ali di
nuvole di veli, e tenerezza di bianche piume e luminosità di mattini non ancora
dischiusi al giorno. Primo aveva rispettato quel candore, quasi fosse un’offesa
infrangerlo, macchiarlo
(“Il
bianco non colora!”, aveva esclamato la mia nipotina un po’ di anni fa, alle
prese con i primi colori della sua vita. Ed io mi sorpresi per la profondità di
quella sua scoperta. Sì, è vero, il bianco è la somma di tutti i colori, ma non
colora. È foglio in attesa di pennellate perché abbia un senso. Come la vita.
Ed io quel giorno ero ancora un colore bianco da pennellare con tutti i colori
dell’amore e dei sogni e delle speranze. Dei fiori intatti…).
In quel giorno di pioggia, Primo, Pinuccio e
Nicola si erano avventurati all’alba che diluviava per portarmelo in tempo,
quel vestito tanto a lungo sognato, prima che il fotografo venisse per le foto
di rito.
Quel giorno il
vestito non era pronto come non ero più pronta io a dire il mio sì. Incompiuto
l’abito da sposa. Incompiuta io come sposa. Incompiuto il tempo dell’attesa che
aveva divorato il tuo tempo.
Mi sembrò un segno che non volli
interpretare.
Non avevo dormito quella notte e non avevo
potuto sognarti. Non avevo sogni cui aggrapparmi o da cui disancorarmi. Volevo
solo fuggire. Avrei voluto non sentire più quel nubifragio di pioggia cattiva
abbattersi sul naufragio del sole ad oscurare e sommergere i miei nuovi giorni…
Sull’altare tacqui per tre volte alla domanda
“Vuoi tu…?”.
No. Io non volevo. Non sapevo più cosa
realmente volevo…
Attimi eterni di panico. Vidi gli occhi di
zio Padre Leonardo interrogarmi preoccupati. Vidi Primo tremante e il suo
profilo di ragazzo innamorato, pallido e perduto dietro il mio lungo silenzio.
Vidi l’altare, i settembrini festosi, nuvole bianche e leggere che vibravano di
sogni che ancora sarebbero stati. Le rose rosse indispettite di spine tra tanta
innocenza di prato. Immaginai, dal brusio alle mie spalle, volti allarmati e
orecchie attente in attesa di quel monosillabo che tardava ad essere
pronunciato. Un piccolo monosillabo a racchiudere una promessa così grande. Di
eterna fedeltà. Ti vidi seduto alla tua sedia nella cappellina alla sinistra
dell’altare. Sentii la tua ansia. L’identica attesa degli altri. Vidi i tuoi
occhi d’amore verso nonna Angelina seduta vicino a mamma e babbo e con accanto
zia Maria
(“con i sentimenti
non si scherza” ti sentii mormorare…)
Contro i
miei tre no, pensati in silenzio, mormorai un solo sì. E vidi il mio ragazzo
felice. E fui felice. Sì, potevamo essere ancora felici. Sì, saremmo stati
felici. Sì, ce l’avremmo messa tutta per afferrare
Stracci di felicità. Gocce di felicità. Raggi di felicità.
(ttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttictictictictictic
t t)
E l’Ave
Maria di Schubert e la Marcia Nuziale di Mendelssohn e un suono d’Organo da far
volteggiare angeli e sorrisi di cherubini e sguardi d’amore accesi là in alto,
dove ora TU e zio Michele e zio fra’ Francesco e nonna Natalizia, i pochi che
mancavano all’appello, eravate in quel suono che si riverberava tra cornicioni
e vetrate e lacrime di commozione.
Sì. Eravate ancora in pochi a lasciare incolmati vuoti.
E compare
Luigi, svanito nei meandri bui del suo dolore, anche lui presente nella sua
involontaria assenza. Tra i banchi vestiti a festa con piccoli cesti di
settembrini, nonna Angelina e zia Maria in prima fila ripresero a guardarmi
felici ed eleganti, ed erano là ad abbracciarmi con braccia vere e trepide.
Tremanti di gioia e di solitudine. Dopo tanta pioggia, comparve il sole e
dipinse nel cielo un arcobaleno sognante che mi parve sorridere.
Fummo
felici? Non so rispondere.
Continuammo
a viaggiare su montagne russe e cieli di nuvole e di sole.
Di piogge e
d’improvvisi arcobaleni. La nostra vita. La vita di tutti.
(da Le piogge e i ciliegi, vol. II, SECOP edizioni, 2019, Corato-Bari)
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