Ieri, dietro consiglio di Giuliano, mio figlio, perdutamente
innamorato di Bruce Springsteen da quando era ragazzino (a quattordici anni
ebbe il coraggio di attraversare per la prima volta da solo l’Italia per andare
a un suo concerto), siamo andati a cinema per vedere un film che parla di lui,
esaltando le doti carismatiche non solo della sua voce e delle sonorità delle
sue canzoni, ma anche e soprattutto dei suoi testi, rivolti essenzialmente ai
giovani di ogni età.
Ebbene, alcuni giorni fa, alla prima del film a Roma,
Giuliano fu talmente travolto dalla bellezza del film da scrivere di getto le
sue emozioni che si sono ben presto trasformate in una appassionata e
appassionante recensione, pubblicata su una rivista specializzata. E a me piace
partire proprio dalle sue parole per avere la sua stessa forza trascinante
nello scrivere il mio commento.
Blinded
by the Light: «Lui parla a me»
dal film "Blinded by the Light" |
… A un certo punto m'è venuto un groppo in gola, tenace e al
limite del sostenibile, che mi ha accompagnato per quasi tutta la durata
del film. Ogni colpo di batteria era in perfetto sync con quelli
del mio cuore e l'inizio d'ogni singola canzone, anche se già ascoltata
all'infinito, è stato un brivido, a squassare le vene dei polsi e a infrangersi
contro ogni singola fibra del mio corpo. Trentacinque anni fa ero Javed, il
protagonista di Blinded by the Light. Non ero pakistano, ma fa lo
stesso. Ero il ragazzino un po' sfigatello, desideroso di musica, passione,
energia, baci, sesso. Vita.
dal film "Blinded by the Light" |
Ero il ragazzino che schiacciava play per la prima volta sul
walkman Sony e si lasciava letteralmente travolgere da un turbinio di
sensazioni mai provate prima. Ero Javed, quell'estate del 1984, tre anni prima
di lui, ma con la stessa voglia di redenzione e riscatto da raggiungere
attraverso la musica. Ed era proprio la musica di Bruce Springsteen,
che nella sua sacralità arrivava deflagrante come il rullante di Badlands,
il sax di Jungleland e il piano di Backstreets, a
devastare e travolgere senza pietà, a diventare quanto di più potente
e dolce potesse capitarmi d'ascoltare.
dal film "Blinded by the Light" |
Ogni parola arrivava dritta e faceva il suo dovere,
diventava la formula di resistenza a tutto, l'àncora di salvezza, l'uscita di
sicurezza. «It's a town full of losers and I'm pulling out of here to win»,
gridata a pieni polmoni. Niente di più vero per il giovanissimo Javed e la sua
voglia di scappare via, nell'elogio stesso della fuga tanto cara alle tematiche
di Bruce Springsteen. La Luton di metà anni '80, imbrigliata nel
bigottismo e nel più nero e feroce razzismo contro chi cercava integrazione e,
laddove possibile, anche amore e rispetto. Le sue liriche, a scandire ogni
singolo momento di Javed, della sua famiglia e dei suoi (pochissimi) amici. Il
meccanismo emotivo che cambiò diverse vite, compresa la mia.
Javed sono io, ma Javed è anche tutta la mia generazione,
che 35 anni fa cominciò una profonda storia d'amore col più grande profeta
laico di sempre, Bruce Springsteen. Blinded by the Light diverte
ed emoziona, è diretto con grande garbo, supportato da attori molto bravi (il
padre di Javed è da applausi), ma è ovviamente la musica a dettare le dinamiche
emotive. Il groppo in gola rimane, fino a sciogliersi in un misto di lacrime e
stupore. Javed sono io, Javed siamo tutti noi cuori affamati, nati per correre,
anche ora a 50 anni, in drammatico sovrappeso, lo stomaco in subbuglio ma con
gli occhi mai stanchi di guardare.
Giuliano
Leone
Sono fiera di mio figlio e della sua scrittura, oltre
che di tutti gli altri suoi pregi e talenti. Sì, ne sono fiera come ogni mamma
che, ormai anziana, trepida per le realizzazioni dei sogni di ogni figlio. Io
ne ho quattro (Giuliano e le sue tre sorelle) e tutti e quattro hanno ereditato
da genitori e nonni, e chissà quanti altri avi, il dono della creatività e
della scrittura e lo hanno valorizzato, in vario modo, inseguendo i propri
sogni e progetti di vita. Come non esserne fiera? Come non essere
quotidianamente grata a Chi ci ha elargito questa meravigliosa LUCE, di cui non
abbiamo alcun merito?
Anche Javed ha potuto, alla fine, realizzare il suo sogno,
grazie al talento della scrittura e a una particolare sensibilità poetica, che
lo hanno “segnato” sin da bambino, facendolo soffrire e gioire come altri mai.
Sì, è questa l’arma a doppio taglio di chi riceve il “signum” (“presagio”,
“auspicio”), il sigillo della “fame” poetica e artistica, che s’incarna nella
parola che è anche suono, ritmo, musica, canto, visionarietà nella costruzione
di un mondo altro in un altrove che è straniamento e possesso di sé, incanto,
amore.
E in Blended by the Light c’è la presenza
esaltante e coinvolgente di tutto questo.
Alain Bosquet scrive: “La poesia è sangue diventato fiore”.
E a me sembra che stia parlando di Javed e di quanti come lui.
Luton è un borgo inglese che, negli anni Ottanta del secolo
scorso, è ancora asfittico, chiuso ad ogni novità, ferocemente razzista contro
tutti gli immigrati, settario e grigio. Ed è a Luton, raccolto in un anonimo
quadrato di case, che nasce Javed in una famiglia di pachistani, islamici,
rigidi nei loro comportamenti di totale asservimento al padre/padrone, che
continuamente ferisce la delicata anima di suo figlio.
Vedo il suo “sangue” sparso in due occhi/laghi di dolore,
rabbia inesplosa, silenziosa ribellione, noia e rassegnazione. Ma scorgo anche
il “fiore” che diventerà e che è il suo diario in cui scrive poesie e annota
gli avvenimenti del giorno a livello locale e mondiale.
A Javed piace informarsi, studiare, scoprire il mondo,
quello che scorre velocemente ai piedi della sua collina verdeggiante, suo
rifugio e sua forza perché, lungo quel crinale scivola la sua speranza di poter
far parte, un giorno, di quel dinamismo di macchine che attraversano il mondo e
si aprono a nuovi incontri, altre fascinazioni.
Javed è certo mio figlio, ma è anche me ragazzina, con la
testa piena di pensieri sparpagliati e di sogni annodati a mille disperanti
impossibilità di poterli realizzare. È mia figlia Ombretta che fuggì da casa, a
soli ventitrè anni, verso un sogno colorato di pastelli, nuvolette, suoni
onomatopeici e didascalie. E piantò bandiere di faticose, lunghe conquiste. È
l’altra mia figliola, Daniela, che, ancora più giovane, volò verso la Capitale
per sfidare il mondo con i suoi aquiloni in libertà. Ma è anche Raffaella, la mia
primogenita, che, senza andare lontano, si acconcia quotidianamente le ali
perché sa che per realizzare i propri sogni basta guardarsi intorno e
reinventarsi il luogo abitato con occhi sempre nuovi e innamorati. Ma questo
Javed lo scopre molto più tardi. A conclusione della sua avventura.
Javed è, in fondo, con tutti i suoi coetanei, la giovinezza
innocente e paralizzata, ma anche “imbrattata” da desideri di sesso,
trasgressioni, avventure, percorsi notturni, al buio della propria camera in
cerca di vita. Poche possibilità ha la giovinezza di scoprire sé stessa, in ciò
che è e sarà. Occorre “uccidere” il padre (leggi Disonora il padre di
Enzo Biagi e Se incontri il Buddha per la strada uccidilo di
Sheldon B. Koop). E il padre o il Buddha sono i condizionamenti dominanti di un
“Super-ego” freudiano che schiaccia ardori e ribellioni degli adolescenti alle
prese con la inevitabile dispersione di identità e con lo spasmodico bisogno di
riappropriarsene, seguendo il proprio “Io” che deve fare i conti anche con l’“Es”
istintuale delle passioni sotterranee, a volte, persino inconfessabili. È il
necessario bisogno di andare contro tutto e tutti per affermare la propria
personalità. Costi quel che costi. Per scrivere la propria storia. Contro una
cultura che fa parte del passato e che perpetua comportamenti simili a macigni
per ogni bruco che avverte dentro il suo corpo e nel suo cuore il fremito delle
ali che prepotentemente stanno per dischiudersi e trasformarlo in farfalla…
Ma ci vuole una esplosione improvvisa. Una LUCE che abbagli
e redima. Che cambi le regole del gioco, i sistemi di vita collaudati, ma poco
rispondenti a ideali e sogni della giovinezza che corre e danza e balla e vola
secondo un ritmo che ciascuno sente dentro e fa suo fino a contagiarlo agli
altri e agli altri ancora. Non importa l’età, il sesso, la provenienza, il
credo. L’importante è scoprirsi negli occhi la stessa luminosa felicità. La
stessa gioia di VIVERE, di ESSERE. Di ESSERCI. E cambiare il mondo non solo con
la forza della creatività e della speranza, ma con la determinazione ad agire e
reagire per realizzarne concretamente il cambiamento. Occorre una fuga. Un
allontanamento (protagonista e antagonista di sé) dalle proprie radici. Dal
consueto, asfittico, mortifero ambiente.
E questa LUCE è per Javed la musica del Boss, il suo canto
di rivolta sociale, il suo rock di protesta contro ogni ingiustizia che rende
“affamati” di verità e di amore i tanti ragazzi alla deriva come lui, perché
avvertono la discrepanza tra ciò che sembra riservare un destino subìto e ciò
che desiderano da un futuro agìto.
Bruce diventa il Mito, di cui ogni essere umano si è nutrito
sin dall’alba della sua storia. E il viaggio, la fuga, la libertà, il coraggio
di vivere in libertà.
Le sue parole sono la poesia della vita che supera le
angustie di una quotidianità povera di prospettive felici e si fa ardimento,
fuoco, passione.
La sua musica è l’esaltazione di sonorità mai ascoltate
eppure sempre avvertite nel pulsare del cuore.
La sua voce, un grido roco e tenero, che si fa anima e
abbraccia l’universo. E l’universo è tutto quello che riteniamo immenso,
evanescente e lontano, ma che pure sentiamo di possedere con i suoi insondabili
buchi neri e con le misteriose stelle a illuminare il buio. A indicare il
cammino anche nel buio. E la loro luce ci indica la direzione giusta. Ci
permette di ritrovare sempre la strada del ritorno. E ci rende vincitori anche
quando ci percepiamo vinti.
Javed, alla fine, è un vincitore. Vince, grazie a Bruce e
alla sua musica che lo sprona ad essere sé stesso, ma anche grazie al suo
talento, alla sua sana ribellione, al suo andare lontano. E grazie anche a quel
pizzico di fortuna (Machiavelli parla di 50%), che sempre provvidenzialmente
accompagna le nostre azioni e la vita tutta: una scuola con insegnanti
illuminati; un uragano, naturale e personale, che sconvolge la sua esistenza e
scompagina i suoi fogli (è lo stesso Javed, in una notte di disperazione, a
gettarli al vento turbinoso che scompiglia i suoi giorni e quelli dei suoi
cari), ma una pagina bussa ai vetri di uno studioso che profuma di sapienza e
poesia e che lo incoraggia a continuare contro il volere persino della
famiglia; l’incontro con amici (pochissimi, ma sinceri e, qualche volta, anche
in distonica sintonia); l’incantato sorriso incoraggiante di una ragazzina
politicamente impegnata che turberà i suoi sensi, i suoi pensieri, la sua
anima.
Stupendo e illuminante il discorso finale di Javed, ormai
riconosciuto studente eccellente della sua scuola: sì, il boss gli ha dato le
ali, ma il ritorno a casa gli è servito a riscoprire radici e affetti,
amicizia, amore. A comprendere il prima e il dopo. E tra il prima e il dopo non
servono muri d’isolamento o vertiginosi voli solitari a forare l’azzurro come
l’albatro di baudelairiana memoria, ma ponti verso nuovi cieli, nuovi
orizzonti, nuovi universi… verso il nuovo vero suo “Io” in verticale, che è
anche un “Sé” orizzontale, un “Noi” comunitario e solidale.
E finalmente pioggia di lacrime di commozione fino
all’ultima scena, l’ultima canzone. Con Primi piani multipli di volti,
paesaggi, cieli, che penetrano negli occhi e si uncinano al cuore per tenerci
l’anima in sospensione…
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