domenica 13 ottobre 2019

domenica 13 ottobre 2019: Canto per le Madri d'autunno


La festa della mamma è un canto di primavera inoltrata (prima domenica di maggio) e si riferisce alle mamme giovani e sempre presenti alla vita dei figli bambini nella freschezza dei giochi condivisi fra allegre risate e strette al cuore; nello stupore delle fiabe raccontate; nella leggerezza delle passeggiate coi carrozzini lungo viali di parchi in fiore. Almeno nell’immaginario poetico collettivo, le mamme giovani le viviamo così: belle, leggere, sorridenti, innamorate della vita, dello sposo, del loro bambino. Le madri giovani sono un inno alla bellezza.
Le mamme d’autunno sono completamente diverse. Ricalcano i colori caldi che si vanno spegnendo della terza stagione. Sono come i frutti autunnali, ricchi di doni che bisogna avere occhi e cuore per scoprire: le melagrane, per esempio, con tutta la maternità riposta in quei chicchi di rosso dolore e di infinito amore, protetti da una buccia spessa e dura che si spacca prima che sia facile aprirla e scoprire una nuova protezione: le membrane interne simili a veli di lacrime e dolcezza per ogni riparo dai pesanti colpi della vita. Oppure sono grappoli d’uva dorata e ottobrina che espongono la loro spettacolare maternità tutta offerta allo sguardo e alle mani di chi si accinge alla raccolta per farne mosto dolcissimo e vino forte e corposo a riscaldare le sere d’inverno che verranno. Alla mensa con gli amici. E c’è una maternità più oscura e nascosta, ma ricca di morbidezza antica: la castagna tutta chiusa nel suo riccio pungente a difesa di un’anima ancora candida e bambina a ricordarci una madre che conosce i mali del mondo e difende strenuamente la morbidezza della sua maternità ritornata ai tempi dell’infanzia e dell’attesa di mani premurose a salvarla da ogni caduta. E che dire delle olive, brune ampolle piene di olio lenitivo per il palato, la pelle, lo spirito? L’olio che è oro liquido per la nostra tavola; alimento di lampade votive nei bicchieri; soccorso estremo di malati e moribondi; viatico per innalzarsi al Cielo.
Le madri d’autunno sono le mamme distanti. Quelle che hanno brevi voli come le foglie nel loro ultimo tramonto dorato fino ad accartocciarsi, prima che il buio le assalga, e confondersi con la terra: Madre di tutte le madri.
Le madri d’autunno sono solitarie e tristi. Sono pesanti di dolori e d’affanni. Sono colme di lacrime soffocate e di carezze mai più date e mai più ricevute perché un pudore strano impedisce agli adulti e ai vecchi di abbandonarsi a una carezza desiderata nel cuore, ma trattenuta tra le dita.
Sono le madri che rimpiccioliscono man mano che il tempo passa e vince il loro vigore e turgore. Le mamme da tempo lasciate nella loro casa da passi di figli che hanno urgenza di andare per realizzarsi nella vita secondo scelte volute o subìte.
Oppure sono quelle che ci abbandonano perché non hanno più tempo per aspettarci o seguirci. Devono andare. Sono le madri dell’assenza e del vuoto, scavato nell’anima di chi resta. Sono le madri rimpiante e riscoperte sempre vive nel cuore.
Sono inno di nostalgia e pianto.
Sono farfalle stanche e lente nell’ultimo volo tra le ombre cupe della sera e il buio della notte fino alla… soglia della prima alba, come meravigliosamente scrive in una sua poesia , dedicata appunto a sua madre, Gjeke Marinaj. 
Solo i figli poeti sanno scoprirla attraverso la luce che filtra tra i rami della loro mai spenta poesia in un intreccio di parole tra mani cuore anima…
Ma ecco cosa scrive di sua madre il primo figlio poeta: Vincenzo Mastropirro. 

Se vorrai

Se vorrai, posso essere tuo figlio sempre.
Il bambino che rompeva gli occhiali,
il figlio che ha cambiato i racconti del tempo,
quello che piangeva sulle pagine a quadretti,
quello che amava il gioco per il gioco.
Posso carezzarti come solo un figlio fa
e ora, che sei diventata esile e stanca,
posso dirti che sei più bella di prima.
La mia immagine è il tuo volto scavato
come l'ultimo tratto dell'arcobaleno
che si spegne nel mare degli assoli.
Posso essere tuo figlio se mi abbraccerai
con le forze residue delle tue braccia.
Fallo e ti lascerò andare senza piangere.

vm (Vincenzo Mastropirro)

     

Vincenzo Mastropirro, amico carissimo, poeta soprattutto dialettale, ottimo musicista e compositore, docente, ha scritto questa intensa, tenerissima poesia, il giorno prima, appena qualche settimana fa, che sua madre si spegnesse “nel mare degli assoli”.
La pubblicò su fb come ultimo canto per la sua amatissima madre. E inaspettatamente in italiano. Inaspettatamente perché Vincenzo ha capovolto le regole, come solo un artista sa e può fare, in barba a tutte le teorie di molti studiosi di dialettologia, che vogliono la lingua materna la sola visceralmente usata nei momenti più aspri o più esaltanti della vita. Il dialetto, voce dell’anima, che parla la lingua del corpo in maniera forte, materica, vera, ogni volta che siamo noi senza orpelli grammaticali e senza costruzioni sintattiche anche della nostra personalità di status.

E, invece, ecco che qui Vincenzo scopre che la sua voce più appassionata, a poche ore dal distacco, non è quella che abitualmente usava per comunicare con sua madre, che si esprimeva sempre in un dialetto colorito, ironico, sentenzioso, vibrante di tutti gli accenti antichi e mai perduti.
Per la prima volta forse, con lei ha sentito l’urgenza di rivolgerle parole d’amore con una lingua quasi a lei sconosciuta, ma altamente poetica perché sicuramente più musicale e dolce del duro dialetto ruvese. Sì, Vincenzo ha sentito che ora l’omaggio più bello che potesse fare a sua madre “esile e stanca” rispetto alla donna forte e coraggiosa, battagliera e volitiva con cui era solito battibeccare in “duetti dispettosi” d’amore, era un ricamo di note tenerissime, quasi ad accoglierla nel nido delle sue braccia per aiutarla a volare via, in un sommesso suono di flauto dolce, suo strumento preferito e amato da tenera età. L’unico che riusciva a tenere “imbrigliato” quel ragazzino scavezzacollo che amava poco la scuola e i suoi quaderni a quadretti, quasi a farci visualizzare una prigione di reticoli e di numeri a spegnere la sua voglia di imparare. Il ragazzino, che amava “il gioco per il gioco”, tornando a casa con gli “occhiali rotti” e i “racconti del tempo” ancora da inventare…

Come avrebbe potuto dire Vincenzo in dialetto a sua madre “fragile e bella”: La mia immagine è il tuo volto scavato/ come l'ultimo tratto dell'arcobaleno/che si spegne nel mare degli assoli?. Tre versi di una musicalità e bellezza ineffabili! Come le avrebbe potuto dire con infinito amore, in un sussurro di pudore e di tormento, Posso essere tuo figlio se mi abbraccerai/ con le forze residue delle tue bracciain dialetto senza che piangessero in due privi, entrambi, della possibilità di salvezza da quelle lacrime come pioggia devastante sul loro reciproco addio e comune dolore?
E, invece, l’italiano, tenero e melodioso, gli ha permesso di abbracciarla piano perché sua madre si addormentasse serena, cullata da quel flauto di dolcezza mentre Vincenzo in un grido muto le cantava, ninnandola: 
Fallo e ti lascerò andare senza piangere.
Ed ora siamo noi a versare lacrime di profonda commozione per tanta tenerezza, per tanto infinito silenzioso amore…

(Fine prima parte) 

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