ALLA MADRE
La nostalgia di te
Dalla nostalgia di te sono devastato.
Rimpianto vasto come il mare
Sono gabbiano con ali spezzate
Se non odi che tuo figlio è morto
cercami sulla soglia della prima alba
Ma se a un flauto io dovessi somigliare
allora per amor mio, madre - anima mia,
abbandona meravigliose visioni e lacrime febbrili
Perché ultimamente sono angosciato anche nei miei sogni
Alla ricerca di te, perdo la strada in qualche
baratro sconosciuto
nel mio straziante volo grido il tuo nome
e l’incubo mi lascia attraversando una finestra rotta.
Gjeke Marinaj
Gjeke Marinaj
Today's McKinney Courier-Gazette
Sot ne McKinney Courier-Gazette
MCKINNEY WRITER NAMED HOME NATION'S AMBASSADOR
Staff report Oct 12, 2019
Accompanied by European dignitaries, McKinney writer Gjeke Marinaj, PhD, received the title of Nation's Ambassador at a special reception organized by his native Albania's government.
Active in many fields, Marinaj received the title for his contribution to Albanian and world literature and culture through poetry, prose, journalism, literary criticism, philosophy and academic teaching.
Marinaj launched his original philosophy, "Protonism Theory," as a form of literary criticism that aims to promote peace and positive thinking. Already taught in European universities, Protonism and its practice are central to Marinaj's recognition and goals in cultural diplomacy.
A lui va il mio affettuoso apprezzamento e abbraccio.
Ma, tornando alla sua poesia, ritendo che il suo Canto alla Madre sia “del dopo” e non “del prima”, come è avvenuto per Vincenzo Mastropirro, di cui ho parlato ieri con tanta commozione.
Qui il poeta è “devastato” da un “rimpianto vasto come il mare”, che ha dovuto attraversare con le sue ali “spezzate di gabbiano” e non poteva essere diversamente in un reale attraversamento per raggiungere, tra mille tappe e innumerevoli difficoltà, la terra dove ogni bandiera del mondo viene issata: l’America californiana, fino al Texas, o Stato della “stella solitaria”. E a noi sembra di seguirlo nel suo interminabile viaggio di ansia e di paura, ma anche di indomito coraggio nella determinazione ad ANDARE incontro all’ignoto, con dentro l’anima, trafitta da mille pugnali, la madre, la patria, entrambe abbandonate fisicamente, e una tenue luce di speranza.
Ma, tornando alla sua poesia, ritendo che il suo Canto alla Madre sia “del dopo” e non “del prima”, come è avvenuto per Vincenzo Mastropirro, di cui ho parlato ieri con tanta commozione.
Qui il poeta è “devastato” da un “rimpianto vasto come il mare”, che ha dovuto attraversare con le sue ali “spezzate di gabbiano” e non poteva essere diversamente in un reale attraversamento per raggiungere, tra mille tappe e innumerevoli difficoltà, la terra dove ogni bandiera del mondo viene issata: l’America californiana, fino al Texas, o Stato della “stella solitaria”. E a noi sembra di seguirlo nel suo interminabile viaggio di ansia e di paura, ma anche di indomito coraggio nella determinazione ad ANDARE incontro all’ignoto, con dentro l’anima, trafitta da mille pugnali, la madre, la patria, entrambe abbandonate fisicamente, e una tenue luce di speranza.
Ma un dubbio consolatorio coglie la grande sensibilità del poeta: Se non odi che tuo figlio è morto/ cercami sulla soglia della prima alba.
Bellissimi versi che, pur nati in terre e tempi diversi, ma in situazioni identiche di pericolo e di morte, somigliano, nel senso della precarietà esistenziale e del salvifico, indissolubile legame tra madre e figlio e tra parola poetica e speranza nel futuro (cercami sulla soglia della prima alba), ai versi del poeta curdo Abdulla Goran: Io vado, madre./ Se non torno…/ la mia anima sarà parola/ per tutti i poeti.
Per Gjeke il dubbio consolatorio iniziale è più complesso: riuscirà a raggiungere sano e salvo l’altra riva, sulla soglia della prima alba? Metafora bellissima della luce che rischiara le tenebre della notte e, quindi, della fuga notturna per evitare gli inganni del pieno giorno. Ed è là che sua madre dovrà avere il coraggio di cercarlo ancora. In entrambi i casi, la Poesia potrebbe salvare il futuro della nostra Umanità oggi alla deriva.
Grazie, Gjeke, per avercelo insegnato con la grandezza della tua Poesia, con la semplicità, umile e vera, della tua Persona.
Poi, ecco il terzo figlio poeta venirci incontro con brevi versi dedicati ad una Madre molto speciale, unica, irraggiungibile nel suo ideale di realtà/irrealtà, spesso filtrato tra rami ombrosi e solitari di bellezza e nobiltà.
Parlo di Giovanni Gastel, stupendo amico di carta, parole, immagini, sensibilità artistica e umana oltre ogni dire. Fotografo di fama internazionale, poeta, scrittore. Artista a tutto tondo.
Madre che hai protetto le mie fragilità
con nobiltà da giardiniere
torna e convincimi
che il dopo sarà reale.
Che lascerò la strada principale
e libero da convenzioni sociali e religiose
salirò ad un’altezza superiore
e sarò di nuovo a casa.
(Castellaro 2015)
Giovanni Gastel
Madre che hai protetto la mia fragilità è l’emblematico verso iniziale di una poesia senza titolo come tutte le poesie di questo poeta, che ama raccontarsi senza pudori e ama narrare, nella essenzialità del linguaggio poetico, il suo essere dimidiato sempre tra realtà e sogno, tra verità e mistificazione, tra appartenenza a una famiglia che ha luminose e secolari radici storiche e disancoraggio da tutto ciò che è e ciò che deve rappresentare sulla scena di un Teatro che s’illumina di Bellezza e di Apparenza.
Egli, pertanto, in rapidi dialoghi/soliloqui racconta spesso, come in questa poesia, di una Mamma che ha difeso coraggiosamente la sua infanzia da ogni impatto crudele con la realtà difficile e violenta contro il loro mondo ovattato, in un parco immenso, dove il silenzio pacificava il giorno. L’amara realtà era fuori dal grande giardino di verde d’alberi e di prati ad un passo dal lago. Ed era una realtà destabilizzante e devastante in quegli anni della sua infanzia dorata e della sua adolescenza incantata.
Fu una strategia vincente quella di preservarlo da ogni terribile verità negli oscuri anni Settanta-Ottanta del secolo scorso?
Ma, continua Gjeke, in un disperato presentimento (che per sua e nostra fortuna non si avvera), se io dovessi somigliare ad un flauto, ossia se la sua voce dovesse giungerla flebile come un suono dolente di flauto (e anche in questa poesia, geograficamente lontana mille miglia da quella di Vincenzo Mastropirro, ritroviamo, per altre vie mai percorse e non in termini di fuga, casomai di continuo ritorno, ancora questo strumento musicale dolcissimo), allora alla povera madre non resterà che abbandonare meravigliose visioni e lacrime febbrili, perché un sogno/incubo ha reso il figlio presago di un “qualche/ baratro sconosciuto”, mentre cerca ancora sua madre, con l’ansia di raggiungerla. E la Madre è, al di là dell’incubo stesso, anche la Patria abbandonata e vagheggiata in un ritorno impossibile, che potrebbe davvero farlo precipitare in un baratro senza ritorno. Non a caso, “baratro sconosciuto” è posto a fine verso, dove è più facile per il lettore prefigurarsi e visualizzare il precipizio che avrebbe potuto portare il poeta, se non si fosse trattato di un incubo, in uno “straziante volo” a “gridare il nome di sua madre”, unico appiglio al suo tentativo di salvezza. Per fortuna, non si è avverato il sogno. L’ultimo verso è per Gjeke la fuoriuscita dall’incubo, ma attraverso “una finestra rotta”. Altra splendida, anche se amara metafora, di una realtà che non ha risparmiato al poeta il frantumarsi dei sogni e delle illusioni con un passaggio pericolosissimo di vetri in frantumi tra il dentro/fuori del suo corpo/anima e, quindi, della sua stessa vita.
Un presagio che, in realtà, non ha lasciato scampo al dolore.
Pure, in altri versi, dedicati non solo alla madre, ma anche alla sua terra, e alla stessa poesia, Gjeke, come Vincenzo o Abdullà torna a parlare del dolore per la perdita o per la lontananza, trovando alla fine motivo di luce e di conforto proprio nel vuoto avvertito dentro perché i poeti “servono”, come qualche critico ha affermato, soprattutto a colmare i vuoti che la vita ci scava nell’anima in vari momenti del nostro percorso esistenziale. E, dunque, alla fine, è sempre la poesia a farsi consolazione e luce: Dov’ero la scorsa notte?, si chiede Gjeke nel titolo di una poesia che si accende di metafore e di amore per tutto ciò che è vita. E la risposta negli ultimi due impagabili versi è:
Dove le poesie cozzano contro il cielo/ Dove il poeta accende le parole.Un presagio che, in realtà, non ha lasciato scampo al dolore.
Pure, in altri versi, dedicati non solo alla madre, ma anche alla sua terra, e alla stessa poesia, Gjeke, come Vincenzo o Abdullà torna a parlare del dolore per la perdita o per la lontananza, trovando alla fine motivo di luce e di conforto proprio nel vuoto avvertito dentro perché i poeti “servono”, come qualche critico ha affermato, soprattutto a colmare i vuoti che la vita ci scava nell’anima in vari momenti del nostro percorso esistenziale. E, dunque, alla fine, è sempre la poesia a farsi consolazione e luce: Dov’ero la scorsa notte?, si chiede Gjeke nel titolo di una poesia che si accende di metafore e di amore per tutto ciò che è vita. E la risposta negli ultimi due impagabili versi è:
Grazie, Gjeke, per avercelo insegnato con la grandezza della tua Poesia, con la semplicità, umile e vera, della tua Persona.
Poi, ecco il terzo figlio poeta venirci incontro con brevi versi dedicati ad una Madre molto speciale, unica, irraggiungibile nel suo ideale di realtà/irrealtà, spesso filtrato tra rami ombrosi e solitari di bellezza e nobiltà.
Parlo di Giovanni Gastel, stupendo amico di carta, parole, immagini, sensibilità artistica e umana oltre ogni dire. Fotografo di fama internazionale, poeta, scrittore. Artista a tutto tondo.
con nobiltà da giardiniere
torna e convincimi
che il dopo sarà reale.
Che lascerò la strada principale
e libero da convenzioni sociali e religiose
salirò ad un’altezza superiore
e sarò di nuovo a casa.
(Castellaro 2015)
Giovanni Gastel
Egli, pertanto, in rapidi dialoghi/soliloqui racconta spesso, come in questa poesia, di una Mamma che ha difeso coraggiosamente la sua infanzia da ogni impatto crudele con la realtà difficile e violenta contro il loro mondo ovattato, in un parco immenso, dove il silenzio pacificava il giorno. L’amara realtà era fuori dal grande giardino di verde d’alberi e di prati ad un passo dal lago. Ed era una realtà destabilizzante e devastante in quegli anni della sua infanzia dorata e della sua adolescenza incantata.
Fu una strategia vincente quella di preservarlo da ogni terribile verità negli oscuri anni Settanta-Ottanta del secolo scorso?
La risposta che il poeta ci offre è legata ai versi seguenti, quale invocazione alla Custode di ogni sua fragilità: con nobiltà da giardiniere/ torna e convincimi/ che il dopo sarà reale”.
E, infine, ecco una poesia straziante di Abdullà Goran: ha accompagnato le eroine curde nella loro strenua lotta contro l’ISIS, in favore dell’Europa, oggi forse dimentica del sacrificio delle loro giovani vite. Per non dimenticare. Per regalarci ancora un filo di speranza.
… Io vado, madre.
Se non torno,
sarò fiore di questa montagna,
frammento di terra per il mondo
più grande di questo.
Io vado, madre.
Se non torno,
il corpo esploderà là dove si tortura
e lo spirito flagellerà,
come l’uragano, tutte le porte.
Io vado, madre.
Se non torno,
la mia anima sarà parola
per tutti i poeti.
(Abdullà Goran)
Anche in questi versi l’amore protettivo e oblativo delle madri diventa forza e coraggio per i figli, capaci di affrontare la violenza delle torture e della guerra perché si sentono protetti dal loro amore, dalla loro presenza spirituale. Un filo resistentissimo a vincere persino la paura e la stessa morte.
Il poeta curdo Abdullà Goran è il cantore di tanto amore e tanto coraggio. E lo fa con metafore ardite e dolcissime ad addolcire anche il nostro cuore.
Dunque, Giovanni Gastel sentì pesantemente precipitare la realtà esterna sulle sue fragilità così strenuamente difese, non appena si trovò fuori dal suo Hortus conclusus, vissuto in tutta la sua innocente irrealtà. La sua invocazione continua come preghiera che sale verso l’alto. Convincimi, chiede alla madre perduta ormai alla fisicità, ma fortemente ancorata nel suo cuore, Che lascerò la strada principale/ e libero da convenzioni sociali e religiose/ salirò ad un’altezza superiore.
È l’anelito della sua anima a scoprire una libertà mai provata, chiusa come era stata per anni nella prigione di regole, cui bisognava obbedire, e che non avevano niente di vero fuori da quel mondo circoscritto. Bisognava adeguarsi a convenzioni sociali e a dogmi religiosi, che il suo spirito creativo, ribelle e prigioniero mal sopportava, allontanandolo certamente dalla cruda realtà che i suoi coetanei vivevano fuori.
Solo dopo, solo quando la libertà diventa quel Canto che colma il vuoto di ogni assenza e di ogni verità, solo allora il poeta sente che avrà ritrovato il sentiero fiorito di parole e di luce… che la poesia gli offre come àncora di salvezza contro le brutture del mondo che lo vedono estraneo e solitario.
E solo allora Giovanni, in un’ascesa verticale, sentirà il coraggio di vincere le sue fragilità con un grido liberatorio e rasserenato, nella scoperta di un Dio che gli vive dentro e che, paziente, lo attende per accoglierlo nell’unica Verità assoluta del suo Amore immenso. Qui tutto questo è appena intuito dal lettore assiduo che conosce la vasta produzione poetica di Gastel, ma è spesso raccontato dal poeta nelle poesie di questi ultimi anni, in cui sempre più si avverte la sua ansia di scoprirsi nelle braccia amorevoli di quel Dio che “atterra e suscita, che affanna e che consola” (Manzoni).
In questa scarna ma profondissima poesia, allora, Giovanni Gastel sente il bisogno di confidare a Lei, amatissima Madre, alle sue ali di Angelo protettivo e salvifico, la sua speranza di un felice ritorno: E sarò di nuovo a casa.
Dove la realtà, bellissima e luminosa, avrà vinto ogni finzione nella suprema saggezza e bontà di Dio.
A restituirgli Amore.
Solo dopo, solo quando la libertà diventa quel Canto che colma il vuoto di ogni assenza e di ogni verità, solo allora il poeta sente che avrà ritrovato il sentiero fiorito di parole e di luce… che la poesia gli offre come àncora di salvezza contro le brutture del mondo che lo vedono estraneo e solitario.
E solo allora Giovanni, in un’ascesa verticale, sentirà il coraggio di vincere le sue fragilità con un grido liberatorio e rasserenato, nella scoperta di un Dio che gli vive dentro e che, paziente, lo attende per accoglierlo nell’unica Verità assoluta del suo Amore immenso. Qui tutto questo è appena intuito dal lettore assiduo che conosce la vasta produzione poetica di Gastel, ma è spesso raccontato dal poeta nelle poesie di questi ultimi anni, in cui sempre più si avverte la sua ansia di scoprirsi nelle braccia amorevoli di quel Dio che “atterra e suscita, che affanna e che consola” (Manzoni).
In questa scarna ma profondissima poesia, allora, Giovanni Gastel sente il bisogno di confidare a Lei, amatissima Madre, alle sue ali di Angelo protettivo e salvifico, la sua speranza di un felice ritorno: E sarò di nuovo a casa.
Dove la realtà, bellissima e luminosa, avrà vinto ogni finzione nella suprema saggezza e bontà di Dio.
A restituirgli Amore.
E, infine, ecco una poesia straziante di Abdullà Goran: ha accompagnato le eroine curde nella loro strenua lotta contro l’ISIS, in favore dell’Europa, oggi forse dimentica del sacrificio delle loro giovani vite. Per non dimenticare. Per regalarci ancora un filo di speranza.
… Io vado, madre.
Se non torno,
sarò fiore di questa montagna,
frammento di terra per il mondo
più grande di questo.
Io vado, madre.
Se non torno,
il corpo esploderà là dove si tortura
e lo spirito flagellerà,
come l’uragano, tutte le porte.
Io vado, madre.
Se non torno,
la mia anima sarà parola
per tutti i poeti.
(Abdullà Goran)
Il poeta curdo Abdullà Goran è il cantore di tanto amore e tanto coraggio. E lo fa con metafore ardite e dolcissime ad addolcire anche il nostro cuore.
Io vado, madre. Se non torno. Due versi anaforici, martellanti che percuotono le nostre coscienze come rintocchi di campane, come suono cadenzato di orologio nella piazza del paese, come “uragano” che “flagellerà tutte le porte”.
Si tratta di un canto che non può morire. Come la speranza. Che non abbandona mai una madre in attesa del ritorno del figlio. Come le parole che lasciano dietro di sé come scia luminosa i poeti. Soprattutto quando i poeti parlano delle loro Madri d’Autunno. Della loro Terra di gelo, arrossata, dissacrata e svenduta. Delle Parole sacre ed eterne per salvarla.
Si tratta di un canto che non può morire. Come la speranza. Che non abbandona mai una madre in attesa del ritorno del figlio. Come le parole che lasciano dietro di sé come scia luminosa i poeti. Soprattutto quando i poeti parlano delle loro Madri d’Autunno. Della loro Terra di gelo, arrossata, dissacrata e svenduta. Delle Parole sacre ed eterne per salvarla.
(fine seconda parte)
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