mercoledì 3 febbraio 2021

Il Retino delle Parole: mercoledì 3 febbraio 2021

Troppa solitudine in questi lunghi giorni di chiusura forzata agli altri, nel silenzio della nostra casa deserta di abbracci, parole, confidenze, abbandoni al dolore ma anche alla gioia. È una solitudine che pesa come macigno sul cuore, perché avverte sempre più crescente il “vuoto” di ogni assenza. Per questo è bene ancora parlarne. C’è solitudine e solitudine. Di solito la scopriamo soprattutto nella nostra anima. Dove la “sentiamo” più profondamente. E nella nostra casa quando è deserta di voci. La nostra casa che è la nostra stessa anima. Ma si può essere soli anche tra la folla. Se è subìta, è sicuramente più amara. Altre volte è voluta, ad dirittura desiderata, vedi Pasolini: soltanto solo, sperduto, muto, a piedi, riesco a riconoscere le cose…
Per Quasimodo, invece, la solitudine non è individuale e cercata, ma universale e subìta, come nella magnifica ultima terzina di “Solitudini”, divenuta il meraviglioso frammento di “Ed è subito sera” (ogni essere umano è solo mentre occupa un frammento infinitesimale di tempo su questa terra pensando di occuparne il centro col suo ESSERCI: illuminato, ma anche abbagliato, e ferito da un raggio di sole - bellezza, bontà, gioia, ma anche illusioni, delusioni, inganni, astuzie, e tradimenti, invidie, gelosie, violenze psicologiche di ogni genere - quando sopraggiunge improvvisamente la sera, tempo del nostro precipitare nell’ombra e nel buio: di quanto sia stato o non sia stato di noi)
. E, se tanta solitudine abita in ciascuno di noi, nei poeti è spesso condizione fondamentale per esorcizzarla con la poesia.
Nella dolente poesia di Roberta Lipparini, meravigliosa e coraggiosa poetessa bolognese, c’è un’amara verità che frantuma la sua anima nella sua casa “vuota”: la casa è simbolo, come si sa, di noi stessi, la casa siamo noi. Averne “le chiavi” dovrebbe essere il massimo delle possibilità delle realizzazioni personali in tutti i settori della nostra umana esistenza. Ma dovremmo essere baciate e illuminate da un AMORE ricambiato. Quando, invece, viene a mancare la reciprocità di questo sentimento vitale, tutto si spegne e muore. E quel “vuoto”, che potrebbe essere riempito a nostro piacimento e appagamento, diventa il “nulla”. Di qui il processo di nullificazione del proprio cuore, della propria anima.
E il riferimento a Mario Luzi ci sta tutto. Nel grande poeta essa è processo addirittura di totale annullamento della parola o della sua efficacia: nel 1939 ebbe a scrivere in un art. intitolato “Sull’ombra”: che cosa può aggiungere mai la parola? Sempre più col tempo ci appare sospinta da un impulso di silenzio, da un gelo eterno cosparso nell’anima. Essa è il “non più nulla da dire”, il significato ultimo e incorrotto delle parole, spogliate del gesto...
Vuoto disperante il nulla, dunque! Un giudizio come condanna! Eppure, proprio Luzi in molte sue poesie ci lascia intravedere nella “frantumazione di sé e del sé la forza unificatrice e salvifica della parola. Contro la violenza del mondo, la parola creatrice.
E questo accade anche nella poesia di Roberta. La nostra poetessa si salva proprio in virtù della sua capacità di “annullare” il dolore con la lievità delle sue parole spesso intrise di cauta, tenera ironia, rivolta soprattutto a sé stessa. Senza mai compiangersi o compiacersi della sua pena di donna che ama troppo senza avvertire la stessa intensità di sentimento nella persona amata. Ma la scrittura fissa l’Amore. Gli dà consistenza materica. Storia e memoria. E perciò diventa incancellabile ed eterno, nonostante tutto. Nonostante l’accidentato percorso umano. Di qui le bellissime rime “ritrovate” e “rivissute”, rivisitate in forma del tutto originale tanto da consolidare lo stile poetico di Roberta Lipparini, a livello nazionale e oltre. Grazie, Roberta.
Ma anche per la carissima Anna Mininno vale quanto detto per Roberta. La sua scrittura è ancora più essenziale, spesso risolta nel frammento, illuminante e categorico, contaminato in alcuni casi da espressioni in lingua francese o inglese, dovute alle sue scelte letterarie e professionali e ai suoi lunghi soggiorni all’estero. Per impararle e praticarle. Anna salva la frantumazione della sua personalità per eccesso di autocensura e per eccesso di modestia a mio parere, con la “nominazione”. Nelle tante eccellenti prose la nostra Autrice si serve dei nomi propri, essenzialmente di donne, per rivendicare una peculiarità, un modo di essere, di agire e di pensare. Un modo che dia senso e significato e pienezza alle proprie storie. E alla propria storia. Un poetare elegante si snoda agevolmente sia in prosa che in versi. Ama gli Haiku, per esempio, che sono un inno alla natura e al fluire della vita, contenuti in argini ben definiti dalle leggi della loro composizione brevissima (tre versi di 17 sillabe o more secondo lo schema: 5-7-5), musicale, evocativa, tenera come la fioritura dei ciliegi.
E la parola ancora una volta la salva Anna Mininno dal guazzabuglio dell’universo femminile, in cui spesso rischia di perdersi tra razionalità sempre vigile e creatività sempre in agguato. Per fortuna la creatività, la Poesia. Grata anche a te, Anna, per tanta passione poetica che ci cattura e ci spinge a leggerti e a conoscerti sempre più, sempre meglio.
E, a questo proposito, catturo da fb una poesia di Francesca Petrucci che merita un nostro commento tanto è ricca di parole “mute” che “urlano” attraverso il cielo la propria momentanea (per fortuna) solitudine, la propria “anima persa”: bellissimo ossimoro a “catturarci” più del mio stesso retino. Ecco la poesia:

“PAGINE”

A foglio a foglio/ Percorro cieli che urlano/ Parole mie, mute.// In questo guscio d’ombra/ Senza fine (sembra)/ Soffoco un sole d’anima/ Persa/ Dentro il crepaccio/ D’uno specchio incandescente/ A riflettere fiamme smarrite/ In sentieri di sabbie/ Smosse/ Da audaci impronte dolenti.// E, più in là, l’abisso!// Solo il cuore esulta/ A tratti/ A sbalzi/ In capovolte onde,/ In aneliti di lune sbagliate./ Persi/ Ma non sprecati,/ Stretti in roveti/ Che anelano alle rose.// Indelebili pagine/ Che sono la mia vita.

Le parole riempiono, uno dopo l’altro, i fogli (“indelebili pagine”) di una vita intera. Guai se non ci fossero le parole che, pur essendo spesso mute, vengono urlate dal cielo durante tutto il percorso esistenziale della poetessa, quasi una rivendicazione del proprio esserci al mondo e nel mondo con la consapevolezza di sé. Lei, abituata a vivere in “un guscio d’ombra/ Senza fine (sembra)”. Ed è bello quel “sembra” fra parentesi come se fosse un atto consolatorio per quel “senza fine” appena pronunciato. Perché, nella sua anima “persa” purtroppo, brilla “un sole” che potrebbe restituirle luce e splendore, se non si trovasse “Dentro il crepaccio/ D’uno specchio incandescente/ A riflettere fiamme smarrite/ In sentieri di sabbie/ Smosse/ Da audaci impronte dolenti”: quanto dolore per un’anima che si sa piena di sole, ma che è stretta in un crepaccio in cui si riflettono, come in uno specchio incandescente, tutte le sue orme pazienti, testarde ma smarrite, capovolte, fraintese, ignorate, che vengono rimosse da sabbie che inevitabilmente sono destinate a cancellarne le tracce. Ma l’abisso è più in là, oltre il crepaccio. Ed è per questo che, a tratti, “il cuore esulta” perché, nonostante i suoi sogni femminili (“di lune sbagliate”) spesso allo sbando di “onde capovolte”, ci sono momenti meravigliosi, in cui niente è perso completamente in quanto sono attimi “Stretti in roveti/ Che anelano alle rose” (intricati cespugli di spine che desiderano ardentemente che si risveglino in roseti): due versi di una bellezza inaudita. E le sue parole non più mute raccontano la sua storia vincente su ogni condizionamento, ogni dispersione di sé. Ed è vittoria di parole. Francesca stessa vincente.
Ma scopro su FB altre felici contaminazioni sul tema delle chiavi, la casa, la solitudine, che io catturo per dare un senso al nostro incontrarci e stare insieme con Poesia.

“ORME” di Mariateresa Bari:

Nell’armadio lo sfinimento,/ alla finestra una scialba aria/ cinguetta senza ali,/ niente chiavi alla porta./ L’orizzonte incurva la schiena/ nel brivido dell’ultimo lampione/ al primo raggio./ Orfano del suo nome/ che sulla riva umida di parole/ non lascia orme.

Anche qui il dolore di una condizione di vita senza ali. Anche qui una casa/anima (e ne hanno parlato, con testi molto profondi e poetici Elina Miticocchio e Vito Di Chio, che ringrazio tanto) inaccessibile, questa volta, per mancanza di chiavi. Neppure quel possesso è concesso alla nostra poetessa (e l’allitterazione qui della sibilante ci sta tutta per fare sentire meglio lo strisciante sibilo squassante). E quanta solitudine, quanta nullizzazione negli ultimi versi giunti alla “riva umida di parole” che “non lascia orme”. La tua poesia, mia cara Mariateresa ha tracciato un profondo solco in me. Lo traccerà, ne sono certa, anche nel cuore di tutti noi. Gratificante, ma non necessariamente importante, il notare che si fa tesoro di quanto io vada commentando nel Retino, cercando di dare un mio senso e significato alle parole catturate o “incontrate” nelle poesie che porgo all’attenzione di quanti vivono con me questa rasserenante (spero) avventura. La contaminazione è molto significativa: è uno stimolo a scoprirsi, ad incontrare gli altri, ad andare oltre. A confrontarsi. Ad essere davvero insieme.
Ed ora è tempo di chiudere. Di ricordarvi che venerdì alle 18,30 parlerò anch’io del libro di Valeria Rossini su Maria Montessori e alle 19,30 ci incontreremo come sempre con il Retino. Buona giornata di tranquilla clausura in casa. Se potete e volete, scrivetemi. I vostri commenti sono graditi. Attesi. Ciao

4 commenti:

  1. L’addio

    Ho avuto case ad abitarmi
    Dietro la porta chiusa della stanza
    neppure un filo di luce ad illuminare
    la macchina da cucire
    Eppure di notte il tuo scialle di mohair
    passa lento davanti a uno specchio
    Spento è il respiro
    Un battito d’orologio segna l’addio.

    - tratto da "Le stanze del vento",Secop edizioni 2016 Collana I Girasoli a cura di Angela De Leo

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  2. Vero Angela, il confronto su queste righe è sempre illuminante. Hai parlato del grande Luzi, (che ho avuto la fortuna di incontrare, in un'altra vita) che aveva una particolare venerazione per la parola. La difendeva apertamente con tutte le sue forze, sebbene intravedesse la precarietà della sua Essenza. Basti ricordare la sua splendida "Vola alta parola". La lirica delle liriche. Preghiera ed inno salvifico! In quanto ai miei umilissimi versi, hai giocato d'anticipo, questa volta, catturandoli ancora prima che io potessi postarli qui. Grazie sempre per il tuo sguardo generoso e delicato. Un abbraccione!

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  3. Nella stanza degli occhi

    Di scivolare all'imbrunire
    nelle ore roche
    del sonno che spoglia
    dal frastuono del non detto, accade.

    Accade di azzannare
    una nuvola stanca che trasfigura
    in spuma di mare, scardina
    le porte serrate del cuore e resta.

    Mesta vibra l'aurora nel ruggito
    di onde feline.
    E si cerca nello specchio di cielo
    ingiallito di foglie.
    M. Bari
    Da intraverso, spiragli nell'essere

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  4. Cara Angela,
    ultimamente ( mercoledì 3 febbraio) hai pubblicato – come è tuo uso – appassionati e lucidi commenti alle poesie e alla Poesia di quattro donne (Roberta Lipparini, Anna Mininno, Francesca Petrucci e Mariateresa Bari), insistendo su parole-chiavi pescate dal tuo “Retino”: solitudine, casa, anima, ombra, chiavi, ecc:
    Ti invio questo testo di MARTIN BUBER dai racconti dei Chassidim che mette bene in luce il valore dei sogni, dell’anima come tesoro nascosto da cercare, della casa come luogo del tesoro, della vita come ricerca continua…
    BUONA Domenica
    Vito

    MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim: Il tesoro nascosto
    Ai giovani che venivano da lui per la prima volta, Rabbi Bunam era solito raccontare la storia di Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l'ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripeté per la terza volta, Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisik gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin li dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: "E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch'io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisik, figlio di Jekel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Eisik e l'altra metà Jekel!". E rise nuovamente. Eisik lo salutò, tornò a casa sua e dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga intitolata "Scuola di Reb Eisik, figlio di Reb Jekel". "Ricordati bene di questa storia - aggiungeva allora Rabbi Bunam - e cogli il messaggio che ti rivolge: c'è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare".

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