Nel Retino di ieri si è parlato dell’Antologia Il Sentimento della Scrittura, partendo dall’analisi delle due parole fondamentali: Sentimento e Scrittura, appunto. Certo, ci sarebbe stato molto altro da dire perché sono due termini che si possono declinare in tantissimi modi, ma il tempo concessomi non mi ha permesso di andare oltre. In realtà, recidivamente ogni volta rubacchio vari minuti in più… Parlando, comunque, di sentimento necessariamente ho fatto riferimento al “sentire”, che è alla base della nostra percezione, interna ed esterna, della realtà. Ebbene, vorrei qui riportare quanto ho scritto in passato su questo argomento per fare maggiore chiarezza, riferendomi più o meno, ma molto liberamente, a quanto scritto in proposito da Dario Voltolini in IL SENTIRE E L’ASCOLTARE:
“Abbiamo perso la
misura delle cose. Siamo esistenza senza contemplazione. Non abbiamo più
nostalgia e rimorsi. Non abbiamo da tornare verso nessun paese. E non abbiamo
neppure che cosa scoprire. Tutto è di uguale importanza, e di nessuna
importanza. Non abbiamo più il dono del discernimento e della discrezione.
Nessuno ascolta nessuno. Infatti, perché ascoltare e chi?” (David Maria
Turoldo).
Per uno scrittore o un poeta o per chi si dispone a diventarlo, ascoltare, invece, è molto importante, soprattutto per cogliere non tanto l’armonia di un rumore, di un suono o delle parole, ma la dissonanza. È il contrasto che ci sorprende e intensifica la capacità dei nostri sensi a “cogliere”. Ma prima di ogni operazione in tal senso è necessario fare silenzio, coltivare il silenzio, vivere profondamente il silenzio. “Il silenzio come momento aurorale dell’ascolto” (Massimo Baldini). Solo dopo è possibile cogliere l’armonia e la dissonanza: di rumori, suoni, musica, parole. “Il nostro è un tempo senza silenzio, senza armonie, è un tempo colmo di convulso fragore… La chiacchiera è la sola parola possibile in tempi in cui il silenzio è morto e regna sovrano il rumore… A ben guardare, la chiacchiera è la parola di tutti coloro che vogliono solo parlare e mai ascoltare, è la parola superflua, inefficace” (ancora Baldini). Il filosofo e scrittore Michele Federico Sciacca scrive: “Chi chiacchiera non si preoccupa di comunicare, ma solo d’infilar parole che non dicono niente. Non persuade, né convince; stanca e infastidisce. Non lo ascoltiamo, né, in fondo, a lui interessa l’essere ascoltato”. Ascolto e silenzio, dunque, devono procedere insieme. Entrambi si fanno inavvertitamente silenzio e ascolto interiori. Ignazio Silone afferma che: “Il silenzio interno significa che ogni cosa è al suo posto, ogni cosa è in ascolto”. E Alfred De Musset sostiene che: “La bocca custodisce il silenzio per ascoltare il cuore che parla”. Ma occorre fare attenzione perché a volte il silenzio può essere la morte dell’ascolto. Si tratta del silenzio cupo, ostile, desertico, offensivo, di isolamento e rifiuto. La parola, invece, se ponderata, è strumento di potere. Occorre saperla usare, a seconda dei casi, con dovizia o parsimonia. Può essere un’arma micidiale o una carezza. L’ascolto favorisce e facilita il suo potere in senso positivo o negativo. La mente, infatti, può essere una “spugna”. Occorre esercitarla. L’ascolto, come la lettura, è un ottimo esercizio. Ma altro è sentire, altro ascoltare. Sentiamo senza sforzo, inconsapevolmente, inavvertitamente. Ascoltare, invece, significa fare attenzione a quanto raggiunge il nostro orecchio. Saperlo percepire e poi scoprire nella sua dissonanza, nella sua armonia. Nel suo significato più evidente e in quello più profondo. Per scoprirvi la bellezza. La calofonia (suono armonioso) o la cacofonia (suono dissonante). Così anche per le parole: l’autenticità (naturalezza) e l’artificio (la costruzione). Per scrivere bene occorre saper ascoltare. Anche per saper parlare occorre saper ascoltare. L’efficacia della comunicazione si misura dall’indice di ascolto registrato da colui che parla. Ma saper parlare, oltre ad essere un dono, è anche un’arte che si conquista esercitandosi ad ascoltare gli altri per cogliere la seduttività della voce, dell’intonazione, del ritmo, dell’inflessione, delle pause; e, poi, la chiarezza, l’originalità, l’eleganza formale dell’esposizione; la profondità o la lievità, l’ironia, o la drammaticità, la semplicità o la cripticità del contenuto. Sono modi che vanno presi a modello e rielaborati in maniera personale perché catturanti, oppure vanno rigettati in quanto respingenti. “L’ascolto è uno strumento conoscitivo di grande importanza, esso consente di essere aperti nei confronti del mondo e del prossimo. Un ascolto con la piena fioritura dei sensi, un ascolto non opacizzato, non deprivato è il presupposto di ogni vero dialogo, di ogni comunicazione piena” (Massimo Baldini). Chi impara ad ascoltare si apre al tu e al noi, superando il proprio egocentrismo, solipsismo e narcisismo. Impara a conoscere sé stesso, conoscendo e riconoscendo l’altro. Con umiltà e discernimento. “L’aprirsi all’ascolto, dunque, equivale ad ammettere la propria finitezza, presuppone un sapere di non sapere, un essere coscienti della perfettibilità delle proprie conoscenze, è mettersi comunque in discussione, un riconoscere nell’altro una persona che è portatrice di ragioni che non devono essere sottovalutate, ma appunto valutate… Sottrarsi all’ascolto equivale a compiere un voto di povertà non necessario, mentre offrirsi al dialogo e all’ascolto comporta la decisione di correre dei rischi, comporta la messa in discussione delle proprie tesi e l’eventuale loro revisione o il totale abbandono” (R. Arnheim). Bello, al riguardo, il pensiero di Jean Lacroix: “Ogni attività umana autentica è dialogo: dialogo con il mondo che è poesia, dialogo con gli altri che è amore, dialogo con Dio che è preghiera. La tentazione propria del pensiero è il monologo: basta murarsi nel proprio sistema e rifiutare l’altro per annientare sé stesso. Il vero pensiero al contrario è dialogo: è, come dice Platone, il dialogo dell’anima con sé stessa. E l’anima non può dialogare con sé stessa se non ha saputo accogliere l’altro, se l’altro non è già in essa. Nulla di più raro oggi: il mondo moderno è pieno di individui monologanti che, senza mai accogliere l’altro, si oppongono e si urtano”. Comunicazione, esistenza e co-esistenza sono, dunque, concetti inseparabili che dovrebbero trasformarsi in realtà per diventare migliori. Allora, impariamo ad ascoltare, scoprendo innanzitutto l’importanza dello sfondo: tutti i suoni, i rumori, le parole che ci circondano e che non mettiamo a fuoco perché in apparenza non ci riguardano personalmente. Eppure modificano il nostro modo di sentire e di ascoltare. Ci innervosiscono, ci calmano, ci sorprendono, ci incuriosiscono, ci stimolano ad una percezione più attenta di ciò che è fuori di noi e che si riflette in noi. Ci distraggono, ci aiutano a concentrarci meglio. Acuiscono i nostri sensi o li neutralizzano. E, a questo punto, mi piace prendere in esame altre parole che scaturiscono dal guardare/vedere, sentire/ascoltare per assaporare meglio la realtà in noi e fuori di noi: EMOZIONE: grande turbamento della psiche di fronte al bello o al brutto. Commozione o apprensione. Avventura dell’anima: rischiosa ed eccitante. Appassionata partecipazione alla vita. Eccitazione dei sensi e dello spirito. Sindrome di Stendhal davanti alla bellezza di un’opera d’Arte (un quadro). EMOTIVITA’: maggiore o minore propensione, a seconda della sensibilità personale, di reagire emotivamente, in senso positivo o negativo, alle sollecitazioni dei sensi nello scoprire e conoscere il mondo. EMOTIVO: che reagisce in maniera visibile a qualsiasi emozione a causa della ipersensibilità del soggetto. EMOZIONANTE: che provoca emozioni o anche è ricco di suspence. Ma occorre anche chiedersi: È la creatività che sollecita le emozioni o sono le emozioni che stimolano e favoriscono la creatività? La risposta non è facile perché entrambe, creatività ed emozione, fanno parte del nostro codice genetico e si influenzano vicendevolmente. Se la creatività, infatti, è una forma, forse la più elevata, della nostra intelligenza, la emotività fa anch’essa parte di quella particolare intelligenza che Goleman definisce “emotiva”. In pratica, entrambe scaturiscono dalla nostra mente, ma si definiscono meglio e si colorano con il “cuore”, ossia con quella sensibilità affettiva che i latini definivano “sapientia cordis” e il filosofo francese Biagio Pascal “ésprit de finesse”in tandem con “l’ésprit de géometrie”. Spesso, però, la creatività, che ciascuno di noi possiede in maggiore o minore misura, come la stessa sensibilità, spesso viene soffocata o condizionata dall’ambiente in cui viviamo, dalle esperienze vissute, dagli incontri positivi o negativi con gli altri, coetanei o adulti, che avvengono in maniera occasionale o sistematica, dagli insegnanti che l’hanno stimolata e valorizzata oppure soffocata e spenta con il loro modo di insegnare o di rapportarsi con gli alunni, in un clima di libertà o di ferree regole di disciplina. La creatività, come sappiamo, non ama prigioni o catene, imposizioni o schemi. Ha bisogno di volare libera oltre ogni possibile steccato. Ha bisogno del fuoco acceso della mente e del sorriso tenero del cuore. Ha bisogno di innamorarsi o di indignarsi, senza mai addormentarsi nella indifferenza o connotarsi di violenza o di odio. I sentimenti negativi fanno morire la creatività, la intossicano con i loro veleni. Ecco perché è più facile cantare l’amore che l’odio. Quando, però, ci accorgiamo che qualcosa sta soffocando la nostra creatività o non le ha mai permesso di mettere le ali; quando sentiamo che la paura ci blocca; la mancanza di autostima ci frena nelle nostre libere espressioni, fino a crearci veri e propri disturbi di natura psico-fisica, come mal di testa, dolori cervicali o lombo-dorsali, tremori o battiti accelerati del cuore che, prima di diventare vere e proprie patologie, sono spie del nostro malessere interiore, possiamo adottare delle soluzioni piuttosto semplici e alla portata di tutti per cercare di superare il disagio in cui ci troviamo o ci dibattiamo, nostro malgrado: camminare all’aperto, per esempio, fare qualche esercizio di movimento con tutti i segmenti del corpo, respirare profondamente e meditare… Ognuno, del resto, “sente” il proprio corpo e sa inconsciamente come comportarsi per il proprio ben-essere psisco-fisico. Ma ci vuole molto discernimento e consapevolezza di sé. Cercando umilmente l’aiuto degli altri perché, come sappiamo, “nessuno si salva da solo”! Detto ciò, mi sembra giusto riportare qualche testimonianza molto pertinente e significativa, catturata dalle pagine di FB.
Ed ecco una tormentata poesia di Rita Vecchi, una poetessa
che mi porto nel cuore e che, nonostante sia seguita con molta attenzione e
ammirazione da tanti lettori e lettrici della sua pagina, per eccesso di
riserbo e di umiltà non ha ancora pubblicato i suoi numerosi e profondissimi
testi in prosa e in versi. Riporto qui una delle tantissime sue poesie nella
speranza di farle dono gradito: “ECO DI UN’ANIMA”: ho perso l’ovale del viso/ dissolto nell’acqua del tempo/ Disperso il
fragore degli occhi/ nascosto in orbite lasse./ La pelle è muta/ - silenzio di
fibre cambiate,/ macchiate dai baci beffardi/ dei giorni spariti./ Pietosa e
commossa/ abbraccio l’immagine cara./ Quell’anima sola/ risuona dell’eco/ di
stanze svuotate. Constatazione amara del tempo che passa inesorabilmente,
lasciandoci cicatrici nel corpo e nell’anima, segni di antiche ferite e dell’impietoso
incalzare degli anni nei suoi misfatti: a un ovale scolpito di grazie e
bellezza è subentrato un contorno del viso smarginato e slavato, come tutto ciò
che viene bagnato dall’acqua; al meraviglioso esplodere del “fragore” degli
occhi c’è un rimando di “orbite lasse”. Anche la pelle non ha più richiami di
baci che il tempo beffardo ha ridotto in macchie, sconfitta testimonianza “dei
giorni spariti”. E a lei, la donna che ama la bellezza e la poesia, non rimane
che un commosso rimpianto nell’abbracciare l’immagine dell’antico splendore. L’anima
è tutto ciò che le rimane e supera col suo canto che vibra ancora la
desolazione delle “stanze svuotate”, prive di ciò che la connotava nella
pienezza della giovinezza.
E di Mauro Contini ecco un’altra dolente poesia di
rammemoramento: “HA UN RESPIRO IL CUORE”: Ha
un respiro il cuore,/ si dispiega nelle periferie/ dell’immaginazione,/
percorrono l’anima tutte le strade/ che abbiamo attraversato,// l’ombra che ci
segue costante/ a dimostrare l’evanescenza,/ la fragilità dei sentimenti/ segue
il vento e spera/ un approdo di salvezza,// è luce di attenzione/ questo
silenzio di lontananza/ che scuote i prati e le convinzioni,/ nell’attesa a te
dovuta/ l’enigma della fede,// in quale porto indugi e scruti/ ti celi tra
argille sollevate,/ nuvole di polvere/ in solitudini di cortili,/ abiti le ore
dell’abbandono,// scivoli tra le pieghe della nostalgia,/ il tuo volto rivela
un tempo antico/ e una rinnovata profezia,/ nel pensiero sfugge alla dimenticanza/
il ventaglio delle tue mani. Il cuore ha un respiro che si
dilata fino a raggiungere “le periferie dell’immaginazione", dove tutto è
indefinito e da reinventare perché tutte le altre strade attraversate “percorrono
l’anima” in un assalto di nostalgia pure nella constatazione della “fragilità
dei sentimenti”, anzi forse anche proprio per questo. Se tutto rimanesse
intatto nel tempo il poeta non avrebbe l’ansia di “un approdo di salvezza”. E,
invece, la lontananza e il silenzio si rivelano come “luce d’attenzione” che,
al pari del vento, ha la forza di scuotere ciò che è lieve e bello e facilmente
muta (i prati), ma anche ciò che è difficile da sradicare (le convinzioni). E,
intanto, “nell’attesa a te dovuta" (che mi riporta alla stupenda raccolta La voce a te dovuta di Salinas) con
tutti i versi successivi, che si srotolano in un crescendo rossiniano di nostalgica
rimembranza, attraverso l’ossimorica realtà dei nostri giorni (la solitudine
dei cortili un tempo pieni di vita, di voci, di presenze di adulti e bambini
festanti; le ore dell’abbandono nella propria casa e il “tempo antico” impresso
nel nuovo volto), il poeta giunge come inattesa profezia a quelle "mani" che, nel ricordo, si aprono "a ventaglio", lievi
come ali e come carezza tanto agognata. Versi stupendi, che conoscono
perfettamente l’Arte del poetare.
E ora vi saluto. Alla
prossima. Buon fine settimana con poesia…
Riflessioni interessanti, che uniscono poetica eccelsa a grande Umanità. Rita Vecchi
RispondiEliminaGrazie di cuore per questo intervento articolato e interessante che, generosamente,include un'analisi di una mia poesia.
RispondiEliminaMauro Contini
Divorato tutto, con avidità, Angela! Tanti, tanti temi toccati,in queste tue righe appassionate. Ma, ancora una volta,incredibilmente, hai ripreso le ragioni della mia scrittura. Non so se hai avuto modo di guardare il video che ho inviato alla Secop. Se sì, ne avrai conferma. Innanzitutto,a proposito del silenzio, e del chiasso nella nostra testa, riporto una riflessione di Franco Loi, che egli dice, non è semplice assenza di suoni. Per fare silenzio abbiamo bisogno di zittire il pensiero, folla urlante nella nostra mente. Vero e proprio rumore del pensiero. Pensiero che, aggiunge Pessoa, è "un'infermità degli occhi"! Per scrivere, dobbiamo fare spazio al cuore. E per me l'alba è il momento in cui meglio si sperimenta l'attesa. In quanto al senso di soffocamento, io parlo di sottovuoto. La scrittura è una finestra che illumina una stanza. Possiamo decidere di lasciarla chiusa e godere passivamente della sua luce, o spalancarla e respirare aria fresca. Ed io avverto quotidianamente questa esigenza personale: prendere volo! Ancora una volta grazie, cara Angela!
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