lunedì 15 gennaio 2018

A FATICA SI RIPRENDE


Sono passati i giorni della festa. È già un ricordo la magia del Natale. È una stella ormai perduta nel cielo di tutti i desideri la preghiera di un sogno nella notte dei botti e dei calici levati e degli auguri a gola spiegata per giungere agli “amici vicini e lontani”. E affievolita è già la speranza del suo accadimento. Si è già spenta l’euforia del primo giorno dell’anno.
Rimane un lieve tremore dei giorni da affrontare nell’illusione che siano nuovi, ben sapendo che sono solo altri giorni che ci viene concesso di vivere con tutte le speranze dell’alba e i rammarichi del tramonto, con il fazzoletto dei progetti ripiegato o fatto nodo per il giorno dopo. Il buio della notte ingoia pensieri. Poi il risveglio.
Si ricomincia. E ci si accorge che nulla è cambiato. Tutto è come prima. E si avverte sulle spalle la stanchezza dell’abitudine che ci regala gesti consueti. Doccia. Spazzolino. Sapone sul viso. Crema idratante. Trucco veloce. Rossetto per ravvivare un sorriso e propiziarci il giorno. Caffè per affrontarlo con vigore. Specchio per la nostra tranquillità o disperazione o rassegnazione. Corsa al lavoro mentre sale il giorno. Il pranzo programmato nelle pietanze prive di calorie e di buonumore. Il riposo del pomeriggio a chi è concesso. Gli impegni pomeridiani. La spesa. Il rientro. Le pantofole e la vestaglia. Il divano. La TV. I messaggi su whatSapp stereotipati e micidiali per una comunicazione anonima e fuorviante nella loro asettica essenzialità che esclude toni rivelatori ed emozioni condivise tra sguardi elusi e voci dimenticate e del tutto estranee alla conversazione. La buonanotte per augurarci il sonno che, però, tarda a venire. Buio. Vuoto di pensieri.
Si ricomincia. E questo paradossalmente ci tranquillizza. L’abitudine è l’anestesia dell’adattamento e dell’accettazione persino della frustrazione, della mancanza dell’imprevisto e del susseguente mancato batticuore.
Non ci sorprende e non ci allarma neppure l’ennesima lite dei vicini di casa, la notizia di stupro nella notte, di una rapina con mortali conseguenze, del barbone morto assiderato, dell’ennesimo naufragio dei migranti nel Mediterraneo, della donna smembrata e gettata nel cassonetto dei rifiuti, dell’attentato negli USA o a Parigi, dei fasulli proclami dei politici e dei loro congiuntivi in fuga, e della fuga dei nostri cervelli migliori, dei baroni in guerra per il potere in una clinica di lusso o in un semplice ospedale di periferia, della guerra nucleare già subdolamente in atto, delle multinazionali a decidere dei nostri destini di formiche al lavoro sotto i cieli roventi d’estate, e dell’estate che è solo un pallido ricordo per non morire assiderati con venti gradi sotto zero, percepiti e mai reali.
Niente più scalfisce la nostra abitudine all’indifferenza per esserne fuori e per salvaguardare la nostra quiete di palude, dove sguazziamo, ippopotami senza orizzonti, nel grigiore del fango che ci sommerge. E forse non ne abbiamo più contezza. Un nichilismo devastante invade l’abitudine che è diventata l’anima della nostra casa, la strisciante insidia delle nostre strade che i giovani percorrono perché sono senza ideali e senza guida, senza lavoro e senza progetti. E neppure una nostalgia a salvarli dal vuoto di senso di una esistenza subita e non cercata.
Si ricomincia. Con il solito individualismo e le antiche ipocrisie. Il pettegolezzo spicciolo col dito puntato sulla pagliuzza nell’occhio dell’amico/nemico e dimentico della trave che impedisce di vedere i propri limiti e senza più un’anima per provare un senso di colpa o rimorso.
Basta un indice levato per farci ignorare persino la luna, un tempo incanto di folli e poeti e persino di pastori erranti con greggi di ignoranza e ingenuità.
Eppure, basterebbe poco per riscoprire la luna e le perdute stelle. Farci paladini di sogni e cavalieri di vessilli da seguire e di ideali da sfogliare come margherite in attesa di fiorire al primo sentore della primavera.
Basterebbe spostare la direzione del dito per puntarlo verso noi stessi e provare a guardare il cielo. Scopriremmo una scritta luminosa, dimenticata nel profondo fondo della nostra anima, che è coscienza di sé e di ogni altro da sé: I CARE.
Coscienza che dovremmo trasformare in consapevolezza e resilienza. Potremmo scoprire i nostri limiti e le nostre potenzialità. Senza ingigantire i limiti. Senza inneggiare alle virtù. Riconciliandoci con i primi. Facendoci coraggio con le seconde e mettendole in primo piano per imparare ad utilizzarle al meglio del nostro impegno quotidiano per scrollarci di dosso l’abitudine, riemergere dalla palude, scoprire che abbiamo due robuste leve per raddrizzare il mondo, almeno il nostro piccolissimo quadrato di casa, palmo di terra che la circonda: la creatività, che ci fa scoprire il possibile, e la razionalità, che ci offre le modalità della realizzazione. Sono le coordinate per restituirci fantasia e realtà. Punti cardine per ricominciare.
E questa volta si può (o si deve?) ricominciare per davvero…

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