Parlare del nuovo
libro di Zaccaria Gallo non è facile. Perché già dal titolo si presenta
complesso e criptico, nonostante la chiarezza semantica del termine “ostaggio”
e l’apparente semplicità della preziosa copertina (opera del giovanissimo e talentuoso
Nicola Piacente), su cui un bellissimo pennino di penna stilografica dei tempi
andati viene tenuto prigioniero, tipo una palla al piede dei carcerati del passato,
quasi ad indicarci una sorta di lentezza, anche elegante se vogliamo, della
scrittura. Si seguivano dei Corsi di Calligrafia per vergare su carta, a volte
pergamenata, i segni di una “bella scrittura”, che lasciava presagire anche un
contenuto altrettanto ricco di significato e di fascino. Questa splendida
copertina sembrerebbe un invito a fare quasi un cammino a ritroso per tuffarci
nel tempo antico, dove non esistevano ancora la macchina da scrivere (la
gloriosa Olivetti lettera 32 del ’63) e il computer, classe 1965, (con tutti i
suoi ultimi “derivati”).
E, invece, niente di
tutto questo. E le interpretazioni sono state davvero tante e tutte decisamente
poetiche. Nessuno ha pensato allo scrittore tenuto prigioniero dalla sua stessa
necessità di scrivere, come sembrerebbe più ovvio, ma tutti (o quasi) si sono
attardati su una simbologia di una palla gassosa e leggera che non tende al
basso (come la forza di gravità vorrebbe), ma verso l’alto (come la creatività
in tutte le sue declinazioni artistiche richiede, e soprattutto la scrittura).
È, dunque, un volare
alto, quello di Zaccaria, verso un “altrove di sé” (come ogni buona letteratura
esige), che poi è racchiuso in un libro. Il suo libro.
Ma, prima di parlarne,
vorrei affrontare la lettura di queste pagine, partendo dalle tre insolite e bellissime
metafore che Massimo Recalcati attribuisce al “libro” nel suo recente saggio A libro aperto (Feltrinelli 2018). E che
prodigiosamente ieri mattina ho letto, grazie alla mia carissima amica
Gabriella Basile, che mi ha fatto dono di un video meraviglioso.
Il libro è: un mare, un corpo, un coltello. E vado a braccio:
Mare: aperto, libero, che si slarga per lasciarci andare
verso orizzonti sempre più ampi alla conquista del sapere e della libertà…
Corpo: se il libro ci prende profondamente fino a instaurare
con noi un rapporto erotico, fatto di corpo, palpabilità, profumo, emozione…
allora diventa esso stesso un corpo che si fonde col nostro corpo in un
voluttuoso, insospettabile amplesso…
Coltello: noi usiamo metaforicamente quest’arma (non sempre
impropria e incruenta) per fendere la pagina di un libro e penetrarvi in ogni
suo più riposto anfratto ma, proprio quando stiamo per impossessarci della sua
essenza più profonda (contenuto e forma e senso) ecco che il libro si fa, a sua
volta coltello, e ci ferisce profondamente perché venga fuori dalla nostra
anima il mistero della parola che ha messo radici in noi e ci connota a tal
punto che la nostra “lalangue” (e Recalcati cita il suo Mastro Jacques Lacan), la
nostra lingua più profonda, la nostra personalità che si è strutturata durante
i nostri primi anni di vita e che abbiamo, pian piano, conquistato (o che ci
hanno confezionato proprio per noi, perché la indossassimo a vita) torna a
galla e si esprime (ma anche si espone) nella sua più vera, felice o dolente,
autenticità.
A ben guardare, al
libro di Zaccaria Gallo ben di attagliano tutte e tre queste metafore, ma io
vorrei tentare altri significati e sensi per andare oltre e per definite non “il”
libro, ma questo “suo” libro.
E, allora, uno Scrittore in ostaggio è un: fuoco d’artificio, calendario, diario, che
scandisce il tempo lineare, ma anche quello circolare delle diverse stagioni
della natura e della vita, e ciclico-spirale per via di ogni altro tempo che
allo scrittore, ma anche a tutti noi, appartiene (il tempo “altro”).
È, questo libro, anche
“occhio di Gesù”, ossia soffione di primavera (delicato,
leggero, bianco d’innocenza, trasparente nel suo sfioccarsi lieve e volare e
sparpagliarsi, frantumarsi, disperdersi), e girandola multicolore, che vibra ad ogni alito di vento o, ancora, aquilone nell’azzurro spazio, fors’anche
navicella spaziale, che si arrischia
per immensi universi stellari.
È sorriso di Dio al tentativo della parola di forare il cielo per
andare oltre o per mescolarsi con le stelle (desideri e sogni, non solo ad
occhi chiusi) e per riscoprirsi luce e suono e canto.
È risata di Dio, quando tende allo scrittore un agguato per renderlo
prigioniero del dubbio e della illusione della veridicità di quel dubbio, ma in
realtà lo attende dietro l’angolo nella strettoia del Logos che lotta con la
Fede e non ha scampo.
È una chat, in cui le parole si rincorrono come
schegge impazzite o come matasse arruffate, di cui si è perso il bandolo
perché, nel frattempo, altre parole si sono inserite con nuovi post che si
susseguono a ritmo incessante sul dispay e non lasciano traccia (se non in chi
è più emotivamente coinvolto nella conversazione o in chi ama far tesoro di
belle frasi di sconosciuti che per la breve connessione sente amici, ma che poi
perde per strada senza un racconto lungo o una storia coerente, che lasci il
segno).
È un pozzo (tipo quello di san Patrizio),
dove Zaccaria è andato a cercare e a recuperare le parole del passato, ormai
desuete e dimenticate, lanciandosi in apprezzabili “virtuosismi calami” per sorprenderci, farci sorridere,
darci un saggio di quanto sia andato perduto di quello che ci apparteneva e ci
connotava in tempi lontani. E da qui al flusso di coscienza il passo è breve.
Ma il libro contiene
anche molti termini medici, scientifici, vernacolari, di cui fa uso certosino
per impreziosire una pagina, darci contezza della realtà che supera la fantasia
o di quest’ultima che colora e vivacizza la realtà.
E, infine, Zaccaria
Gallo mi riporta alla splendida quanto amara e profetica affermazione di
Jacques Monod: “L’uomo contemporaneo è uno zingaro errante in un universo
frantumato”, parlando del Caso e del Caos e non ammettendo la Causalità.
Siamo in piena crisi
esistenziale, derivata dalla società decadente di fine secolo che avvertiva con
angoscia sempre crescente la fine della fede nella ragione, nella concretezza
dell’esperienza quotidiana, nelle certezze positivistiche. Si avvertiva già da
allora un senso di inadeguatezza, di mancanza di nuovi ideali e di nuove
risorse interiori, che sembravano essere venute meno del tutto. Si era come
alla fine agonizzante di un’epoca storico-culturale e artistico-letteraria. E si
attendeva una nuova alba (corsi e ricorsi storici di vichiana memoria). Nacque allora
il senso della frantumazione di ciascuna esistenza e senza spiragli di
soluzione.
Je est un autre, dirà Rimbaud, in un linguaggio nuovo e asintattico, che
rivelò la dispersione dell’identità del soggetto e la incapacità della lingua
di porsi come mediazione tra la sua realtà fittizia e quella non ancora incontaminata
dell’oggetto. Con Mallarmé si ebbe poi la fine del dialogo come comunicazione e
l’inizio di una lingua senza più interlocutori.
È il tramonto di tutti
i miti e di tutti gli eroi che avevano fatto grande l’Ottocento. Persino Dio è morto come afferma Nietzsche. Ci si
accorge della mancanza di senso generale e di una inquietudine sempre più vasta
che il nichilismo alimenta.
Anche Zaccaria si è
lasciato suggestionare, come tutti noi del resto, dalla frantumazione dell’Io e
dalle nuove forme di letteratura del Novecento, italiano e soprattutto
straniero (il racconto e il romanzo non hanno più una fabula, una storia che
nasce, si sviluppa si conclude, anche perché viene meno il senso della
continuità e del futuro). Tutto diventa più ingarbugliato e complesso. Difficile
da vivere e da gestire verso la fine dell’Ottocento e soprattutto nei primi
decenni del Novecento, sotto l’influenza degli studi di psicanalisi di Freud,
Jung, Winnicott, Lacan (e molti altri psicologi e psicanalisti) sulla
personalità umana, l’inconscio e i suoi spettri.
Segue, pertanto, l’evoluzione
del linguaggio poetico con Marinetti, i Futuristi e i Dadaisti e poi, via via,
fino ai nostri giorni con le Avanguardie e le Neoavanguardie degli anni
Sessanta-Ottanta del secolo scorso; gli Sperimentalisti di prima e seconda
generazione, i Postmodernisti che si sono andati sempre più affermando e
diffondendo grazie anche all’influenza della letteratura nordamericana e mitteleuropea
fino al nostro Italo Svevo con La
coscienza di Zeno, James Joyce con Ulisse,
e, primo fra tutti in Italia, Stefano d’Orrigo con Orcynus Orca.
La povertà spirituale,
la complessità della società, il relativismo crescente portano, inoltre, la
poesia a forme esasperate di individualismo; in Francia i Simbolisti e i Poeti
maledetti ci offrono appigli per scoprire nuove forme poetiche che da noi
diventano ermetiche, e in America la Beat Generation ci contamina con Allen
Ginsberg, Jack Kerouak; Paul Celan dalla Germania e, poi, Bukowski, nato in
Germania, ma vissuto negli Stati Uniti, ci raccontano in maniera assolutamente
vera la disperazione e la follia. I flussi di coscienza scompaginano prosa e
poesia. Tutto il nostro universo sociale, culturale, artistico ci crolla
addosso.
Dai primi anni del
nuovo millennio, però, si va evidenziando un cambiamento di rotta. Superati gli
sperimentalismi che avevano reso la lingua sempre più astratta e priva di senso
e di significato, e superati i folli ruoli dei poeti, dediti all’alcol e alla
droga, si tende a creare un’atmosfera sempre più pacificata in un mondo
desertificato di sentimenti, e stanco.
Sempre più i
giovanissimi, almeno quelli più impegnati, vanno alla ricerca dei veri valori della
vita, dispersi del tutto nell’arco di mezzo secolo o poco più.
Si tende a dare
fondamento e sostanza alla parola che riprende il suo ruolo di comunicazione
prima ancora che di espressione.
Anche la poesia va
riscoprendo forme di classicità dimenticate: la rima, la metrica, una sorta di
discorsività per poterci salvare, riscoprendo la mediazione del Verbum e del
Logos tra materia e spirito.
Tutto si va
lentissimamente ricomponendo in armonia, in contrasto con la velocità della
trasformazione in atto nella nostra società sempre più telematica, cibernetica,
legata essenzialmente all’immagine e al progresso irreversibile della scienza e
della tecnica e di un nuovo modo di rapportarci gli uni con gli altri.
E, in tutta questa incessante
trasformazione, ecco questo libro che ci cattura e ci disorienta sin dalle
prime pagine. Ma poi ci si accorge che questo diario ci prende per mano per
condurci con leggerezza e caparbietà nella stessa trasformazione del suo
Autore, uomo/poeta/scrittore, avvenuta dal suo settantanovesimo anno di età all’ottantesimo.
In un crescendo di esplorazioni, riflessioni, annotazioni, emozioni che nascono
da nuove esperienze di vita, “tutte da assaporare quasi fosse la prima volta,
esaltandone il gusto e l’odorato, il ricordo e la nostalgia, il sogno e il
disegno, il progetto e il mistero. L’intero senso della vita” (dalla Prefazione
della sottoscritta).
E con il senso della
vita, il suo sogno e il suo mistero, Zaccaria si lascia dolcemente accarezzare
dalla poesia sempre fortemente presente nella sua anima e scrive pagine di
grande bellezza e di serena autenticità.
Il tanto di più che
non ho raccontato andatelo a leggere nel libro, che vi aspetta in libreria.
Ed io voglio
concludere con i versi di Juan Ramon Jmenez per augurare a Zaccaria e al suo
libro appena nato tanta vita, mentre il mandorlo ci rallegra con i suoi
germogli appena bocciati:
Tempo, dammi il tuo segreto
che ti fa più nuovo quanto
più invecchi!
… e il tuo presente
sempre lo stesso dell’istante
del mandorlo in fiore
AUGURI!!! Ang
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