domenica 17 marzo 2019

"Uno scrittore in ostaggio" (SECOP Edizioni) di Zaccaria Gallo

Parlare del nuovo libro di Zaccaria Gallo non è facile. Perché già dal titolo si presenta complesso e criptico, nonostante la chiarezza semantica del termine “ostaggio” e l’apparente semplicità della preziosa copertina (opera del giovanissimo e talentuoso Nicola Piacente), su cui un bellissimo pennino di penna stilografica dei tempi andati viene tenuto prigioniero, tipo una palla al piede dei carcerati del passato, quasi ad indicarci una sorta di lentezza, anche elegante se vogliamo, della scrittura. Si seguivano dei Corsi di Calligrafia per vergare su carta, a volte pergamenata, i segni di una “bella scrittura”, che lasciava presagire anche un contenuto altrettanto ricco di significato e di fascino. Questa splendida copertina sembrerebbe un invito a fare quasi un cammino a ritroso per tuffarci nel tempo antico, dove non esistevano ancora la macchina da scrivere (la gloriosa Olivetti lettera 32 del ’63) e il computer, classe 1965, (con tutti i suoi ultimi “derivati”).
E, invece, niente di tutto questo. E le interpretazioni sono state davvero tante e tutte decisamente poetiche. Nessuno ha pensato allo scrittore tenuto prigioniero dalla sua stessa necessità di scrivere, come sembrerebbe più ovvio, ma tutti (o quasi) si sono attardati su una simbologia di una palla gassosa e leggera che non tende al basso (come la forza di gravità vorrebbe), ma verso l’alto (come la creatività in tutte le sue declinazioni artistiche richiede, e soprattutto la scrittura).
È, dunque, un volare alto, quello di Zaccaria, verso un “altrove di sé” (come ogni buona letteratura esige), che poi è racchiuso in un libro. Il suo libro.
Ma, prima di parlarne, vorrei affrontare la lettura di queste pagine, partendo dalle tre insolite e bellissime metafore che Massimo Recalcati attribuisce al “libro” nel suo recente saggio A libro aperto (Feltrinelli 2018). E che prodigiosamente ieri mattina ho letto, grazie alla mia carissima amica Gabriella Basile, che mi ha fatto dono di un video meraviglioso.
Il libro è: un mare, un corpo, un coltello. E vado a braccio:
Mare: aperto, libero, che si slarga per lasciarci andare verso orizzonti sempre più ampi alla conquista del sapere e della libertà…
Corpo: se il libro ci prende profondamente fino a instaurare con noi un rapporto erotico, fatto di corpo, palpabilità, profumo, emozione… allora diventa esso stesso un corpo che si fonde col nostro corpo in un voluttuoso, insospettabile amplesso…
Coltello: noi usiamo metaforicamente quest’arma (non sempre impropria e incruenta) per fendere la pagina di un libro e penetrarvi in ogni suo più riposto anfratto ma, proprio quando stiamo per impossessarci della sua essenza più profonda (contenuto e forma e senso) ecco che il libro si fa, a sua volta coltello, e ci ferisce profondamente perché venga fuori dalla nostra anima il mistero della parola che ha messo radici in noi e ci connota a tal punto che la nostra “lalangue” (e Recalcati cita il suo Mastro Jacques Lacan), la nostra lingua più profonda, la nostra personalità che si è strutturata durante i nostri primi anni di vita e che abbiamo, pian piano, conquistato (o che ci hanno confezionato proprio per noi, perché la indossassimo a vita) torna a galla e si esprime (ma anche si espone) nella sua più vera, felice o dolente, autenticità.
A ben guardare, al libro di Zaccaria Gallo ben di attagliano tutte e tre queste metafore, ma io vorrei tentare altri significati e sensi per andare oltre e per definite non “il” libro, ma questo “suo” libro.
E, allora, uno Scrittore in ostaggio è un: fuoco d’artificio, calendario, diario, che scandisce il tempo lineare, ma anche quello circolare delle diverse stagioni della natura e della vita, e ciclico-spirale per via di ogni altro tempo che allo scrittore, ma anche a tutti noi, appartiene (il tempo “altro”).
È, questo libro, anche “occhio di Gesù”, ossia soffione di primavera (delicato, leggero, bianco d’innocenza, trasparente nel suo sfioccarsi lieve e volare e sparpagliarsi, frantumarsi, disperdersi), e girandola multicolore, che vibra ad ogni alito di vento o, ancora, aquilone nell’azzurro spazio, fors’anche navicella spaziale, che si arrischia per   immensi universi stellari.
È sorriso di Dio al tentativo della parola di forare il cielo per andare oltre o per mescolarsi con le stelle (desideri e sogni, non solo ad occhi chiusi) e per riscoprirsi luce e suono e canto.
È risata di Dio, quando tende allo scrittore un agguato per renderlo prigioniero del dubbio e della illusione della veridicità di quel dubbio, ma in realtà lo attende dietro l’angolo nella strettoia del Logos che lotta con la Fede e non ha scampo.
È una chat, in cui le parole si rincorrono come schegge impazzite o come matasse arruffate, di cui si è perso il bandolo perché, nel frattempo, altre parole si sono inserite con nuovi post che si susseguono a ritmo incessante sul dispay e non lasciano traccia (se non in chi è più emotivamente coinvolto nella conversazione o in chi ama far tesoro di belle frasi di sconosciuti che per la breve connessione sente amici, ma che poi perde per strada senza un racconto lungo o una storia coerente, che lasci il segno).
È un pozzo (tipo quello di san Patrizio), dove Zaccaria è andato a cercare e a recuperare le parole del passato, ormai desuete e dimenticate, lanciandosi in apprezzabili “virtuosismi calami” per sorprenderci, farci sorridere, darci un saggio di quanto sia andato perduto di quello che ci apparteneva e ci connotava in tempi lontani. E da qui al flusso di coscienza il passo è breve.
Ma il libro contiene anche molti termini medici, scientifici, vernacolari, di cui fa uso certosino per impreziosire una pagina, darci contezza della realtà che supera la fantasia o di quest’ultima che colora e vivacizza la realtà.
E, infine, Zaccaria Gallo mi riporta alla splendida quanto amara e profetica affermazione di Jacques Monod: “L’uomo contemporaneo è uno zingaro errante in un universo frantumato”, parlando del Caso e del Caos e non ammettendo la Causalità.
Siamo in piena crisi esistenziale, derivata dalla società decadente di fine secolo che avvertiva con angoscia sempre crescente la fine della fede nella ragione, nella concretezza dell’esperienza quotidiana, nelle certezze positivistiche. Si avvertiva già da allora un senso di inadeguatezza, di mancanza di nuovi ideali e di nuove risorse interiori, che sembravano essere venute meno del tutto. Si era come alla fine agonizzante di un’epoca storico-culturale e artistico-letteraria. E si attendeva una nuova alba (corsi e ricorsi storici di vichiana memoria). Nacque allora il senso della frantumazione di ciascuna esistenza e senza spiragli di soluzione.
Je est un autre, dirà Rimbaud, in un linguaggio nuovo e asintattico, che rivelò la dispersione dell’identità del soggetto e la incapacità della lingua di porsi come mediazione tra la sua realtà fittizia e quella non ancora incontaminata dell’oggetto. Con Mallarmé si ebbe poi la fine del dialogo come comunicazione e l’inizio di una lingua senza più interlocutori.
È il tramonto di tutti i miti e di tutti gli eroi che avevano fatto grande l’Ottocento. Persino Dio è morto come afferma Nietzsche. Ci si accorge della mancanza di senso generale e di una inquietudine sempre più vasta che il nichilismo alimenta.   
Anche Zaccaria si è lasciato suggestionare, come tutti noi del resto, dalla frantumazione dell’Io e dalle nuove forme di letteratura del Novecento, italiano e soprattutto straniero (il racconto e il romanzo non hanno più una fabula, una storia che nasce, si sviluppa si conclude, anche perché viene meno il senso della continuità e del futuro). Tutto diventa più ingarbugliato e complesso. Difficile da vivere e da gestire verso la fine dell’Ottocento e soprattutto nei primi decenni del Novecento, sotto l’influenza degli studi di psicanalisi di Freud, Jung, Winnicott, Lacan (e molti altri psicologi e psicanalisti) sulla personalità umana, l’inconscio e i suoi spettri.
Segue, pertanto, l’evoluzione del linguaggio poetico con Marinetti, i Futuristi e i Dadaisti e poi, via via, fino ai nostri giorni con le Avanguardie e le Neoavanguardie degli anni Sessanta-Ottanta del secolo scorso; gli Sperimentalisti di prima e seconda generazione, i Postmodernisti che si sono andati sempre più affermando e diffondendo grazie anche all’influenza della letteratura nordamericana e mitteleuropea fino al nostro Italo Svevo con La coscienza di Zeno, James Joyce con Ulisse, e, primo fra tutti in Italia, Stefano d’Orrigo con Orcynus Orca.
La povertà spirituale, la complessità della società, il relativismo crescente portano, inoltre, la poesia a forme esasperate di individualismo; in Francia i Simbolisti e i Poeti maledetti ci offrono appigli per scoprire nuove forme poetiche che da noi diventano ermetiche, e in America la Beat Generation ci contamina con Allen Ginsberg, Jack Kerouak; Paul Celan dalla Germania e, poi, Bukowski, nato in Germania, ma vissuto negli Stati Uniti, ci raccontano in maniera assolutamente vera la disperazione e la follia. I flussi di coscienza scompaginano prosa e poesia. Tutto il nostro universo sociale, culturale, artistico ci crolla addosso.
Dai primi anni del nuovo millennio, però, si va evidenziando un cambiamento di rotta. Superati gli sperimentalismi che avevano reso la lingua sempre più astratta e priva di senso e di significato, e superati i folli ruoli dei poeti, dediti all’alcol e alla droga, si tende a creare un’atmosfera sempre più pacificata in un mondo desertificato di sentimenti, e stanco.
Sempre più i giovanissimi, almeno quelli più impegnati, vanno alla ricerca dei veri valori della vita, dispersi del tutto nell’arco di mezzo secolo o poco più.
Si tende a dare fondamento e sostanza alla parola che riprende il suo ruolo di comunicazione prima ancora che di espressione.
Anche la poesia va riscoprendo forme di classicità dimenticate: la rima, la metrica, una sorta di discorsività per poterci salvare, riscoprendo la mediazione del Verbum e del Logos tra materia e spirito.
Tutto si va lentissimamente ricomponendo in armonia, in contrasto con la velocità della trasformazione in atto nella nostra società sempre più telematica, cibernetica, legata essenzialmente all’immagine e al progresso irreversibile della scienza e della tecnica e di un nuovo modo di rapportarci gli uni con gli altri.
E, in tutta questa incessante trasformazione, ecco questo libro che ci cattura e ci disorienta sin dalle prime pagine. Ma poi ci si accorge che questo diario ci prende per mano per condurci con leggerezza e caparbietà nella stessa trasformazione del suo Autore, uomo/poeta/scrittore, avvenuta dal suo settantanovesimo anno di età all’ottantesimo. In un crescendo di esplorazioni, riflessioni, annotazioni, emozioni che nascono da nuove esperienze di vita, “tutte da assaporare quasi fosse la prima volta, esaltandone il gusto e l’odorato, il ricordo e la nostalgia, il sogno e il disegno, il progetto e il mistero. L’intero senso della vita” (dalla Prefazione della sottoscritta).
E con il senso della vita, il suo sogno e il suo mistero, Zaccaria si lascia dolcemente accarezzare dalla poesia sempre fortemente presente nella sua anima e scrive pagine di grande bellezza e di serena autenticità.
Il tanto di più che non ho raccontato andatelo a leggere nel libro, che vi aspetta in libreria.
Ed io voglio concludere con i versi di Juan Ramon Jmenez per augurare a Zaccaria e al suo libro appena nato tanta vita, mentre il mandorlo ci rallegra con i suoi germogli appena bocciati:

Tempo, dammi il tuo segreto
che ti fa più nuovo quanto
            più invecchi!
… e il tuo presente
sempre lo stesso dell’istante
del mandorlo in fiore
AUGURI!!!  Ang

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