Appena giunge marzo e si dipana in giorni capricciosi tra fioriture e
geli, più acuto diventa il pensiero di te, mamma carissima, perché in questo
tuo ultimo mese di vita, anche la tua salute fu altalenante. E, a momenti di
cauta euforia per ogni tua ripresa, subentravano ore di scoramento per
improvvise nuvole ad oscurare il sole e a devastare di pioggia i fiori bambini
che primavera regalava ai tuoi occhi e al nostro cuore. In ansia per te. Poi,
proprio quando ci dissero che ogni pericolo era scongiurato e ci preparavamo ad
accoglierti nuovamente in casa, programmando per te e con te insperati e
invocati giorni di rinnovata serenità, ci giunse notizia del tuo improvviso
ritorno per lasciarci per sempre. E tornasti in tempo per dirci addio.
E non è stato più possibile dimenticare. E marzo non si smentisce mai.
E
tutto ritorna.
" 2001
Fu
un devastante addio che ci vinse solo un anno e pochi mesi dopo quel Capodanno,
che segnò a caratteri cubitali nella Storia il primo anno di un nuovo secolo a
regalarci illusori refoli di risorte umane utopie.
La
perdemmo, in un lago di disperata corsa al suo sorriso.
Perdemmo
lei, mamma, persa in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e
profondi abissi di nuove speranze e nuove disperazioni.
Mamma
E
il suo sguardo sempre più dolente e malinconico. Pensieroso e stanco. E
l’ultimo nostro Natale e l’ultimo Capodanno, quindici anni fa, vissuti insieme
in quella che era stata la nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una
villa bellissima al centro del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui
fanno capo Isabella e Nicoletta con la loro nidiata di bimbi nati in questi
ultimi anni. Tutti nella tua casa senza più il gelso e con poche rose ma con
tanti altri alberi e fiori… e voci e trilli di allegria e capricci e coccole e
tenerezze… e Nicole (figlia di Isabella e prima nipotina di Anna Maria) che è
bimba di baci da afferrare con le dita e depositare nel cuore… e Francesco, il
suo bellissimo e silenzioso fratellino… e, poi, i figli di Nicoletta: Sofia,
vezzosa bimba di mille parole e mille acquerelli… e il fratellino Andrea, che
somiglia tanto a mio figlio Giuliano. Stessi occhi grandi e sornione sorriso.
Ma allora allora allora…
allora
fu tempo di lacrime per tutti, nascoste maldestramente tra ciglia di dolore per
un mostro tentacolare che si era ripresentato dopo anni di quiescenza e di
tranquilla certezza di averlo debellato senza gravi danni per la sua salute.
Mamma
E
il suo andare, volto preoccupato e passo leggero e il cappellino verde di
morbida lana a incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua
compagna di vita ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un
mago della chirurgia oncologica.
Furono tre mesi altalenanti di notizie mai
chiare mai scure
E
la decisione di raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina
in volo sulla corsia si sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna
Maria impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando
lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E
Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo compleanno.
Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore.
Mamma
era lì, inerme e sperduta, spaurita e gracile, dopo due interventi che ci
dissero risolutori, ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e
bianche rose d’ogni mese ornavano il viale che portava alla sua camera al
pianterreno di quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo
vederla prima che ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e
teneramente aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di
riabbracciarci con mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in
segno di saluto ed erano affaticate farfalle in lento volo.
Pioveva in quei
giorni di ansia e di paura
Una pioggia né buona né
cattiva, una pioggia d’attesa
Poi…
improvvisamente il sole
La
sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché potesse lasciarsi riscaldare
dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma lei rimase con occhi vuoti
senza guardarlo.
“Mamma,
hai visto? C’è il sole! È finalmente una bella giornata!”.
Silenzio
e occhi spenti.
“Mamma,
possibile che non ti rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”.
Silenzio
e occhi spenti.
“Ma
come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio di sole dopo
tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si astenevano.
Silenzio
e occhi spenti.
Silenzio.
Laghi di pianto trattenuto gli occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini,
noncurante del sole della bella giornata delle mie parole a rincuorarla.
(Alcuni
anni dopo, solo qualche anno fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza
da una finestra d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono
ricordata di lei e del suo rifiuto inerme.
Non
più quel suo sorriso sempre pronto e generoso nel lenire ferite.
Compresi
e mi disperai per quella mia insistenza fuori luogo in un momento così
difficile e doloroso per lei. Le avevano annunciato il terzo intervento
nell’arco di appena tre mesi. Ed era disorientata. Impaurita. Disperata.
Anch’io, alcuni anni dopo, non fui in condizione di godere del sole e della sua luce luminosa in quel
centro di riabilitazione in cui mi sentivo debilitata. Anch’io evitavo di
guardarlo per non provare la ferita di dovergli probabilmente dire addio.
Come
avevo potuto pretendere che lo guardasse lei che aveva i giorni contati e lo
sapeva? Come poteva sentirsi rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non
avevo capito niente di mia madre e della sua anima prostrata e vinta!
Come
si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate
dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di
alleviare le sofferenze di chi amiamo?
Anche
con te mi era capitato, ricordi? Evidentemente si può.
(Ma
oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante
incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci
di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è
qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente
nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere
pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra
socialità. La nostra affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo
nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la
difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur
vivendo spesso nella stessa galassia).
Quella
strana inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era
purtroppo accaduta anche tra me e mamma.
Mio
malgrado Suo malgrado
La salutammo mentre la portavano in sala operatoria con l’ultima
figlia che la seguiva passo passo, e mi sembrò un uccellino spaventato e tenero
con quella sua cuffietta di lana rosa per non prendere freddo ed era una bimba
alla prima passeggiata all’aperto. Aveva la stessa aria stupita, non d’incanto
infantile per la scoperta del mondo, ma di disincanto per un mondo conosciuto
amato ignorato perduto. Ci aveva raggiunto anche Mimmo, che porta il tuo nome
modernizzato e che fisicamente ti somiglia molto. Ed ora eravamo tutti con lei
e per lei a sperare e a pregare. Mancava solo Anna Maria, presente con continue
telefonate. Il chirurgo-mago ci tranquillizzò, ci disse che potevamo tornare a
casa perché di lì a qualche giorno sarebbe tornata anche lei. Avremmo dovuto
usare accorgimenti e precauzioni, ma il peggio era scongiurato. Rincuorati, ripartimmo
per preparare la sua camera con tutti i comfort ad accoglierla. Durante il
viaggio di ritorno, facemmo progetti per lei. Io mi ripromettevo di esserle più
vicina come non lo ero mai stata per tutti gli anni precedenti. Ora sarei stata
più libera (il 2000 aveva segnato la interruzione a tempo indeterminato dei
Concorsi nella scuola!) e mi sarei dedicata esclusivamente a lei. L’avrei
portata in vacanza con me. Saremmo state finalmente insieme. Progetti che
ebbero il respiro breve di quel raggio di sole in quei giorni di interminabili
piogge di inizio primavera, che tardava a giungere e che io sognavo per lei
tiepida e con passi di rugiada. Il luminare avrebbe dovuto dirci che “il peggio
sembra scongiurato”, non che “è scongiurato”.
Quella notte del ritorno ti
sognai
Stavo camminando sull’orlo di un burrone di cui non vedevo la fine,
tanto buio era il fondo da non distinguere se vi fosse un bosco fitto di alberi
cupi o il mare con la sua nenia sommessa o la pianura con i suoi campi
coltivati. Mi sentivo sola e disperata e non sapevo perché stessi camminando
proprio sul ciglio della strada in quel silenzio spettrale e in quella oscurità
così spaventosa. Ad un tratto, ti vedevo seduto proprio lì sul bordo di
quell’orribile precipizio a guardare nel vuoto. T’invocavo, dapprima senza
voce. Poi, avevo preso a chiamarti con voce sempre più forte e disperata, ma
non ti giravi. Ostinatamente continuavi a guardare verso l’abisso senza
rispondermi e senza voltarti. Sembravi sordo ad ogni mio richiamo.
Mi svegliai sudata e spaventata con un brutto presentimento,
confermato da una telefonata concitata che ci informava che stavano portando
mamma in ambulanza con il pericolo che morisse per strada. Purtroppo mamma
aveva avuto un improvviso repentino peggioramento. Una dottoressa, nostra cara
amica, Teresa A., si assunse la responsabilità, con grande coraggio, di
permettere il trasterimento, da quell’ospedale del Nord nel profondo Sud della
nostra casa, in un’autoambulanza privata, con lei sempre vigile al suo fianco e
con nostra sorella, attento angelo a colmarla di carezze. Giunsero stremate
entrambe, madre e figlia, tra lacrime brevi, e parole affaticate e non sempre
lucide.
Due giorni appena rimase con noi tra spasimi che ci destabilizzavano e
tenui sorrisi di affettuosi addii. Ci lasciò stanca di aspettare e di soffrire
all’alba della domenica e ci sembrò un pesce d’aprile, uno sberleffo atroce sul
nostro pianto a lasciarla andare. Capii allora il perché del tuo ostinato
silenzio. Era il tuo modo di dirmi “non posso farci niente, questa volta non
posso aiutarti”.
Anche Teresa, la vedova di Filippo, quella notte aveva sognato suo
marito che le diceva che era passato a salutarla perché era venuto a prendere
comare Melina, la sorella che non aveva mai avuto e che aveva tanto amato. Per
portarla da te e da tutti gli altri che con te erano in attesa di
riabbracciarla. Si affrettò a raccontarcelo tra le lacrime mentre stava lì con
noi a darle l’ultimo bacio.
E finalmente
la sentimmo al sicuro tra le tue braccia
E solo dopo, solo dopo ho capito molte più cose di lei. Della sua
sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei tanti rosari dei comportamenti
sbagliati con lei, anche con lei. I lunghi silenzi. I rarissimi incontri. La
solitudine dolente che le procuravo
(ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai le cose che devi fare…
vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora…)
Ed ora che mi manca come il respiro, lei non c’è nella sua casa per
andarla a cercare e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con
i baci mai più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue
guance di pesca chiara.
Mi conforta a malapena il ricordo dei rari incontri
nella sua casa e del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi
leggeri con le labbra e i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in
uno sguardo di illimitato perdono…".
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