" Ora sei ricordo.
Alle otto del 1° aprile
mi giunse l’attesa telefonata che mi sparò nell’anima la notizia. Sapevo che
era vera ma pensai ad uno scherzo. Era la mia mente che andava in deviazione
per non arrendersi alla realtà. Non c’eri più. E non c’era neppure il sole. Sin
d’allora mi serpeggiò dentro il rimorso, mai più soffocato, di non aver
compreso fino in fondo il tuo dolore, che t’impediva di godere persino di un raggio
di sole. Parecchi anni dopo, anch’io in una corsia d’ospedale, lottando tra la
vita e la morte con lo stesso dolore, un misto d’ansia e di paura, un tormento
che già mi proiettava oltre la vita, non guardavo il sole che m’invitava a
godere di un autunno mite e buono. Non volevo vederlo.
Oggi, sabato 30 marzo,
ripercorro il tuo calvario e il rimanente giorno con noi. Tornasti di giovedì
sera, dopo un allucinato viaggio lungo quanto lunga l’Italia. E siamo stati
avvolti dal tuo dolore, visibile nel fremito scosso del tuo braccio destro e
nello spropositato gonfiore della gamba sinistra, nel tuo corpo di uccellino
senza ali, nel tuo stanco sorriso a dirci con appena sussurrate e biascicate
parole che ci sapevi là con te, ancora per poco. Ci alternavamo al tuo sguardo,
alle tue mani. Fu proprio di sabato sera quando, fissandomi preoccupata di
vedermi ancora nella tua casa, io che non c’ero stata mai, mi mormorasti a
stento, “vai a casa se no…”. Preoccupata fino alla fine di non crearmi problemi
nella mia casa.
“Non ti preoccupare”,
ti dissi affranta. Poi, andai via. Già. Appunto come da bambina. Ti voltai le
spalle per anticipare il tuo lasciarmi. Sono stata tutta la notte a pregare
perché ti venissero risparmiate altre sofferenze. E, alle otto di quella domenica
senza cielo e senza speranza, il trillo del telefono…
Mi rimane di te feroce
questo tormento e il rimorso di aver per anni rimandato all’infinito i nostri
rari incontri: per un lavoro ingrato/amato che mi attanagliava,
logorando/divorando i miei giorni. Non avevo tempo neppure per te e
sistematicamente deludevo la tua ansia di vedermi. Mi riprende anche oggi lo
sconforto di aver ignorato i tuoi giorni di solitudine. E di attesa dei miei
passi a confortarti di un ritorno. Mi rimangono le carezze alla tua mano,
quando un soffio di tempo e di nostalgia mi riportava da te in una fretta di
minuti che ignoravano le ore.
“Avremo tempo”, ti
dicevo, tra lacrime non piante.
Non c’è stato più il
tempo.
Solo il ricordo.
Presente come la tua
anima ai miei giorni>.
(Ma come si fa a
sopravvivere alla propria madre? Come è possibile ignorare lo sradicamento
feroce di quella parte di te che è ancora il suo prolungamento? Con lei hai
vissuto prima che ti scoprissero gli altri. Prima che ti vedessero nascere e crescere.
Sei stata cullata dal battito del suo cuore. L’hai sentita cantare e ridere e
piangere e le sue parole erano musica, le sue lacrime punte di spilli al tuo
cuoricino, le sue canzoni le ninne nanne che ti avrebbero cullato anche dopo.
Con la morte di tua
madre la parte più vera di te rimane nella sua tomba, la parte più sicura,
quella che non teme il mondo perché c’è lei a proteggerti, a farsi carico dei
tuoi dolori, a sollecitarti alla gioia, ad attendere con te che la strada da
percorrere ti porti alla felicità.
Lei a farti da madre
anche quando tu sei madre e senti che hai bisogno ancora della sua mano, del
suo sorriso, del suo coraggio. E che i tuoi figli hanno bisogno di lei).
<… “pelle di pesca” la chiamavamo, accarezzandole il
viso morbido, liscio, profumato. Il suo profumo la precedeva ovunque, come il
suo passo lieve. Tanto lieve da sembrarci quasi che danzasse, sollevata da
terra, ogni volta che, entrando, illuminava le stanze.
“In punta di piedi” sempre, mia nonna, sembrava fosse
stata baciata dalle Grazie: dalle movenze alle parole al cuore.
Niente in lei era stonato. Nessuna invadenza, nessuna
prepotenza, mai.
Niente che potesse svilirla ai nostri occhi.
Non si poteva non amarla. Non era faticoso farlo, anzi!
Andarle incontro, felici di vederla, era semplice,
naturale, spontaneo per noi nipoti.
Non potevamo fare a meno di abbracciarla: “Ehi, amore
mio”, diceva.
Ci aveva conquistati tutti, dal più estroverso al più
timido, senza inutili smancerie: con lei cadevano le barriere e baciarla, dicendole
“Ti voglio bene”, era più facile che dirlo alle nostre mamme…> (Raffaella)
‘Come si fa a
sopravvivere alla propria madre?’, mi chiesi mentre la portavano via e sapevo
che era per sempre. Il tempo mi ha insegnato che si può. Si diventa
improvvisamente orfani e adulti. Irrimediabilmente. E si diventa orfani dei
miti e degli eroi. Delle voci che non riesci più ad ascoltare o a ricordare,
delle canzoni che non sai più cantare e delle strade che non puoi più
percorrere, degli amici che ti lasci alle spalle per sempre e di quelli che
avrebbero potuto ancora farti compagnia se non ti avessero tradita. Perché, ad
un tratto, scopri che quel sentimento in cui credevi e ti avrebbe visto sulle
barricate sempre in loro difesa non li avrebbe visti neppure su un minuscolo terrapieno
per proclamare la tua innocenza e la tua lealtà.
Altri sfilacciamenti di certezze
deluse. Altre ferite ricevute a bruciapelo alle spalle e in pieno petto da
quelli in cui credevi. Stelle franano senza certezze, senza verità. Ognuno
vanta le proprie ragioni senza ascoltare le ragioni dell’altro, degli altri.
Ognuno evita di accettare le proprie ombre, pago di scoprirle negli altri per
sentirsi innocente.
Come dirlo ai figli senza
spegnere in loro sogni speranze?
Col tempo si impara da soli e non
ci sono più maestri né consiglieri.
Di qui la solitudine di ciascuno, orfano tra la folla..."
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