giovedì 4 aprile 2019

4 aprile 2019: Dylan, il nostro canenuvolabianca, avrebbe compiuto 25 anni


Il 4 aprile del 1994 Dylan, un incrocio tra volpino e pastore maremmano, il nostro cane nuvola bianca, irruppe nella nostra casa e nacque a noi. Aveva ancora gli occhietti semichiusi e si reggeva maldestramente sulle zampine, tremava e aveva paura di tutto e di tutti. Decidemmo di chiamarlo Dylan. Da Dylan Dog, personaggio forte e coraggioso; l’intelligentissimo investigatore di casi truci, tra il noir e l’horror, tratti dell’omonimo fumetto creato da Tiziano Sclavi e disegnato da Claudio Villa. Pubblicato in Italia dalla Sergio Benelli Editore dal 1986, fu il mensile più letto negli anni Novanta. E non mancava mai nella nostra casa.
Ebbene, il nostro Dylan, a dispetto del suo nome, che gli avevamo dato proprio per sollecitarlo a rendersi emulo dell’eroe del fumetto, fu a lungo un cucciolo tremebondo. Persino il guinzaglio per portarlo fuori veniva da lui guardato con sospetto a tal punto che andava a rifugiarsi tutto tremante sotto il letto o dietro al divano per la paura che glielo infilassimo. E ci volle del bello e del buono per convincerlo che il guinzaglio serviva solo per portarlo fuori e riportarlo a casa incolume. Aveva imparato il suono della parola guinzaglio e, appena la sentiva pronunciare, correva a nascondersi. Tenerezza infinita!
Dylan era tutto bianco con le orecchie (due conchiglie trasparenti e leggere) di una rosa-sabbia delicatissimo ed era tutto sbilenco: aveva un orecchio teso e l’altro sempre piegato, due occhioni languidi e un po’ strabici, le zampine sottili e divaricanti. E non ebbe quasi mai vita facile, pur essendo amato con alterne vicende da tutti noi. Io ero la sua mamma. E, sempre con alterne vicende, mi presi cura di lui, come potevo, fino alla fine.
Fu anche un cane, suo malgrado, viaggiatore. Per un po’ di anni stette nella nostra casa, ma era destinato a rimanere per ore chiuso nella camera di Giuliano, mio figlio, per molteplici ragioni che non è facile spiegare in poche righe. Poi, proprio Giuliano lo portò con sé a Roma, sperando di fargli fare vita migliore. Invano. Ancora una volta la sua vita si svolse in una sorta di clausura nelle diverse case abitate dal suo padrone, che riusciva a portarlo fuori solo di notte, quando tornava a casa.
Alla fine, sia il cane che il padrone rischiarono la depressione perché in perenne attesa, il primo, in perenne ansia di evitargli quella solitudine così triste, il secondo.
Decidemmo di farlo tornare a casa. E qui ricominciò la sua prigionia da appartamento. Nessuno che potesse portarlo fuori e potesse prendersi cura di lui. Fu così che lo portai in una pensione per cani. Era un luogo ameno con gestione affidabile. Io andavo a trovarlo più o meno ogni quindici giorni, sottoponendomi allo strazio di sentirlo abbaiare di felicità ogni volta che mi veniva incontro per il nostro affettuosissimo abbraccio, ma guaire disperatamente ad ogni mio allontanarmi tra lacrime irrefrenabili per il dolore che gli procuravo. Così per due anni. Poi, si profilò l’ipotesi di vendere la nostra casa per una villa dove anche Dylan potesse vivere in libertà. E riuscimmo nel nostro intento. Ci spostammo di un po’ di chilometri dal nostro paese per una casa con ampio giardino, dove Dylan trovò la sua cuccia il 6 dicembre del 2001, giorno dell’onomastico di Nicola, mio adorato nipotino, a cui fu portato in dono. Giorni di felicità per tutti. Dylan era una nuvola saltellante e gioiosa tra tanto verde di alberi e di siepi ora spoglie, che sarebbero fiorite di rose a primavera. Ma anche qui non ebbe vita facile. Ben presto fu azzannato dagli altri cani della zona. Armatisi contro l’intruso per difendere il loro territorio e le loro femmine. Fu salvato a stento da un bravo veterinario che ricucì il suo ventre lacerato. Io ero in vacanza e al mio ritorno lo vidi ancora sofferente, con un enorme collare che gli impediva di leccarsi le ferite.
Si alzò a stento per venirmi incontro e lo vidi piangere. Sì, io vidi piangere per la prima volta in vita mia un cane, il mio cane, il mio amatissimo Dylan.
E quel suo addome lacerato divenne una profonda ferita nel mio cuore.
Dylan sopravvisse e per altri cinque anni è stato libero nel nostro giardino, con quotidiani scambi di sguardi d’amore tra me e lui.
Poi… non voglio ricordare. Il ricordo della sua morte è ancora una ferita aperta…
A lui ho dedicato subito dopo questa poesia:

E la notte si fa silenzio
                            (per Dylan)
Mai più mi accadrà
di sentire il tuo respiro
in attesa del mio ritorno
dietro il cancello di casa.
Tua libertà senza confini
il cancello che si apriva
al tuo correre leggero
lungo la tortuosa strada
che a me ti riportava.
E temevo ansia di pericoli
per te che ignaro ignoravi
 ogni mio richiamo.
E le tue residue energie
misuravo da quel correre
festoso e impertinente
incurante degli anni
e di improvvisi agguati.
Alla tua gioia di vivere
mi allunavo ogni volta
in un’allegria di capriole
a dirmi il tuo stare bene
e il tuo volermi bene.
Nuvola bianca occhi teneri
morbido Dylan Dylan
sbilenco e bizzarro
tutto sbagliato tutto
come dovevi essere.
Affamato d’amore
eri tu a darmi amore
Eri tutte le bestiole
da me amate e perdute
e piante e mai più ritrovate
Eri la mia infanzia tenera
il mio cortile di rose
e Lola e Nerina e Fiorello
e Piccina e gatto Ciccio
         Neve  Luna
Il mio mondo la mia nostalgia
il mio candore di canti e lacrime
per ogni disperso richiamo.
Eri il cucciolo appena nato
occhi chiusi cuore tremante
alla vista d’un guinzaglio.
Zampine storte sguardo strabico
mi fecero di te innamorare
e giurare tenerezza e dolce cura
quasi fossi il bimbo ultimo nato
            al mio amore.
Delicato faccino bianco
pennellato di sabbia sulla
rosa conchiglia delle orecchie
attenta l’una ripiegata l’altra.
Eri cartolina illustrata e fumetto
Eri il tuo corrermi incontro
con salti di gioia per saluto.
Eri la tua tristezza
per una solitudine da giardino
che non avrei voluto regalarti
e ti accompagnò fino alla fine.
Ti giunga ora la carezza
che allora non ti ho dato
mentre ti portavano via.
Mi guardasti con pena d’addio
Forse sapesti del mio pianto
e di un dolore tuo quanto il mio…

Sei passato così come il tempo
l’infanzia la nostalgia il dolore
la giovinezza il sogno la speranza.
Senza accorgertene spero
attento a non ferirmi con le tue ferite.

(resta una voglia di pianto
 e un altro vuoto
da non potersi più colmare
perché il giorno muore
           e la notte si fa silenzio)




Nessun commento:

Posta un commento