10 aprile 2019: SUD…ario di Vincenzo Mastropirro e Giuseppe Fioriello
Prima presentazione nella libreria
Secopstore
Ieri sera, nella
nostra libreria, Secopstore (Corato - Bari) c’è stata la prima tappa della
presentazione del libro SUD…ario di
Vincenzo Mastropirro e Giuseppe Fioriello:
una “rivisitazione in
chiave contemporanea” della Via Crucis
di Cristo dal Getsemani fino al Golgota, in dialetto ruvese (con traduzione in
italiano) e immagini che hanno accompagnato graficamente le parole, con momenti
musicali di grande intensità.
Mattatore della serata,
Vincenzo Mastropirro con la magia del suo flauto traverso (in più versioni) e
la lettura in dialetto e in italiano delle quindici poesie che compongono l’opera.
Accanto a lui, a far scorrere sul telo di proiezione le immagini delle sue
opere grafiche, il pittore bitontino Giuseppe Fiorello.
Raffaella ha
introdotto splendidamente la serata parlando di un’opera paragonabile ad un
albo illustrato, in cui si fondono mirabilmente parole e immagini, riguardanti
la passione di Cristo e quella dell’uomo in un Sud di ieri e di oggi, che è
emblema di tutti i Sud del mondo, dove i colori della natura sono accesi e
molteplici, ma l’uomo non riesce più a trovare neppure il proprio colore e meno
che mai quello della speranza. Il dialetto duro e aspro, usato da Vincenzo - ha
continuato Raffaella - non fa sconti a nessuno, non tiene conto neppure del
lettore, rivela soltanto la profonda solitudine in un mondo sempre più indifferente,
violento, nemico.
Poi, ha dato la parola
all’“illustratore”, che ha chiarito meglio la tecnica delle sue opere,
soffermandosi sull’importante percorso artistico che lo ha condotto dalla
grafica tradizionale alle sorprendenti innovazioni dovute allo sviluppo
tecnologico dei nostri tempi.
A conclusione di una
serata ricca di emozioni, la mia commossa “lettura” del titolo e dell’immagine
di copertina, dove in quel Sud macchiato di sangue ho ravvisato la scritta per
esteso di “Siamo Uomini Diversi”: una diversità, che è dannazione e soffocato
desiderio di riscatto della gente che vive in questo inferno, legato ad ogni
miseria della terra, nonostante i colori accesi dei nostri cieli, che si
riverberano di rosso persino sulla calce bianca delle nostre case (Bodini nei
dintorni, con la sua rabbia e il suo amore per la nostra terra…).
Un dialetto ruvido e
imperioso, accusatorio, quello di Vincenzo Mastropirro, che schiaffeggia la
nostra indifferenza per spingerla alla ribellione e alla denuncia dei mali, che
sono i nuovi peccati dell’uomo del nostro tempo sotto un cielo capovolto ormai;
mali, che affliggono un uomo sempre più solo e disperato.
Ma ritengo
opportuno, per comprendere meglio il valore letterario, artistico e umano di
questo libro, riportare qui in sintesi la mia Prefazione.
PREFAZIONE A
SUD…ario di Vincenzo Mastropirro
(tavole grafiche di Giuseppe Fiorello)
SUD…ario
è la nuova, intensa, urlata raccolta di poesie
in dialetto ruvese di Vincenzo Mastropirro. Quasi un poema di quindici nenie
funebri che si snoda lungo le 14 stazioni della Via Crucis dal Getsemani al Golgota in una riproposizione in chiave
contemporanea delle terribili tribolazioni di Cristo prima di morire sulla
croce.
Ma il titolo ci prende per mano e ci
fa percorrere le strade del nostro Sud, che oggi più che mai è una sorta di
sudario appunto, panno che copre il volto di tanti conterranei, intriso di
sangue, lacrime e sudore, come il velo della Veronica a detergere il volto di
Cristo distrutto verso la Croce.
E l’immagine di copertina, opera del
grande pittore bitontino Giuseppe Fiorello, ne definisce, con nocche al
fazzoletto per non dimenticare, il triste accadimento del nostro tradimento
alla enorme rinuncia di Dio alla sua Onnipotenza per amore dell’umanità. E
gocce di sangue da raccogliere perché non se ne disperda il senso e il
significato fino ai nostri giorni e oltre.
Con rapidi e densi tratti, l’Artista
ci offre immagini che accompagnano i versi in tutta la loro drammaticità. E la
parola si fa immagine e l’immagine s’incarna nella parola in un processo
osmotico sorprendente, che ci coinvolge, ci turba, ci commuove. I tratti neri
sul foglio bianco raccontano un mistero di luci e di ombre, che ci affascinano
e ci sconvolgono tanta è la veridicità della loro consistenza umana e divina. E
ritroviamo paradossalmente le nostre radici in un tessuto grafico e poetico
essenzialmente contemporaneo. Le tavole del nostro pittore sono, pertanto, ricche
di suggestivi chiaroscuri, ora trasparenti come acqua di fonte, ora cupi e
profondi come il peccato che c’imprigiona.
L’esergo è un capolavoro di denuncia
sociale e umana, un grido di dolore e di rabbia che squarcia il silenzio
dell’omertà e dell’indifferenza:
… ci
nasce au Sud se zezzàisce de passiàune/
e cunnànne l’àneme all’ètérnetò.
… chi nasce al Sud s’insudicia di
passione/ e condanna l’anima all’eternità.
vm
si tratta di due versi che racchiudono
parole di grande forza e veemenza che s’innalzano fino al cielo non con un
senso di liberazione, ma con il macigno di una condanna all’eternità in una
condizione di atavica rozza passione, che non riesce a vincere per non morire
alla grandezza e alla libertà come la nostra gente meriterebbe. E i termini nel
dialetto antico sono una scudisciata in pieno viso: zezzàisce, passiàune, cunnànne. Ed è un dialetto aspro, sanguigno,
che mal si addice alla bellezza incantata della poesia e che pure è Poesia.
E, del resto, il dialetto è la nostra
lingua dell’anima. Non può che essere poesia.
È la lingua che abbiamo ascoltato sin
da quando siamo venuti al mondo, sussurrata con amore da nostra madre quando ci
teneva al seno. È quella della ninnananna con cui nostra nonna cercava di farci
addormentare. È la lingua dei primi giochi. Delle prime tenerezze. La lingua
del cuore. Quella che riscopriamo nell'anima ogni volta che una emozione ci
sorprende, un dolore ci opprime, una gioia ci fa mettere le ali.
È la nostra rabbia. Il nostro rancore.
È il nostro ricordo. La nostra nostalgia.
Una sorta di contenitore rustico,
fatto di sarmenti intrecciati come le “sporte” che un tempo i contadini
portavano in campagna per colmarle di tutto quanto la terra produceva e sapeva
di buono: il profumo inebriante dei frutti delle nostre campagne mescolato con
quello più aspro e forte dell’olio dei nostri ulivi. E da quel contenitore,
simile al cilindro di un mago, noi tiriamo fuori, improvvisamente, la nostra
antica storia che sa di terra, di alberi e di germogli, di fiori e di foglie,
di fatica e di sudore, di magri raccolti e di fiducia nella bontà divina o
nella buona sorte.
Basta un richiamo. Una parola. Un
gesto. Uno sguardo. Una ruga in più su un volto che ci sembra millenario e il
mondo di oggi cede i suoi scenari vorticosi e spesso disumani a quelli più
sofferti, ma forse anche più rassicuranti di un tempo solo apparentemente
perduto, ma radicato nell’anima, scritto nei nostri comportamenti atavici di
cui, se siamo molto giovani o appena adulti, non conserviamo memoria. Eppure ci
appartengono. Sono la storia dei nonni e dei bisnonni. Sono le loro voci, i
loro proverbi (rә dәttériә), con
cui si semplificavano la vita.
Solo il loro recupero potrà restituire
alle nostre parole nuove il senso profondo delle cose, quella matericità che
abbiamo perduto con l'astrazione dei nostri discorsi fondati sui concetti e non
più sulle esperienze, perché solo esse racchiudono significati antichi da
ripercorrere a ritroso fino a ritrovare, intatta e vera, la storia
dell’umanità.
Vincenzo Mastropirro ha fatto del suo
dialetto un fascio di nervi e di sangue per mettere a nudo le piaghe del
passato e quelle del nostro tempo, i suoi dolori e le sue passioni, i suoi
ricordi e le sue emozioni, con un linguaggio ardito, ricco di metafore e, in alcuni
casi, sentenzioso, ironico, esasperato e mai rassegnato.
Notevoli le sue raccolte di poesie in
dialetto che hanno portato la sua e la nostra anima in giro per l’Italia,
mietendo allori dappertutto, e portando con sé anche i suoi inseparabili
strumenti a fiato, il flauto traverso in particolar modo, altra passione
incoercibile della sua vita.
Questa volta, però, ha preso a
pretesto la settimana santa che, nei nostri paesi del Sud, si veste ancora di
riti e di preghiere e chiede al cielo clemenza per i vivi e per i morti.
La prima poesia è quasi una
introduzione amara a tutta la raccolta perché canta tristemente di un mondo
rovesciato, quello dei nostri giorni, che egli guarda dalla cima delle scale di
una chiesa deserta, in cui resistono al tempo solo statue “de criste e madunne”, che
si sono stancate anch’esse di attendere che qualcosa cambi in meglio. E si
nascondono per la vana attesa “jnde a re
nicchje aschiure”. Scuro è anche il cuore del poeta nel vedere il cuore
della sua gente “sbiadire” sempre più.
Pensieri disperati si agitano nella
sua mente. Ed ecco il miracolo improvviso e inatteso: le statue, anch’esse
addolorate per tanta indifferenza e desertificazione dei sentimenti di umana
pietà, escono dai loro nascondigli e dalla stessa chiesa per sedersi accanto a
lui sul sagrato per insegnargli a pregare. Tenerissima conclusione.
È da questo nuovo monte degli Ulivi
che parte, dunque, la Via Crucis di Vincenzo. E la prima stazione è “la pregissiàune”: un rito antico, mai
spento, nonostante il buio del nostro tempo. Il ritmo lento del suo passare per
le strade del paese è reso vivo e vero dalla cera che si scioglie, mentre anche
la banda suona nenie funebri che commuovono fino al pianto. La gente alza il
volto verso il volto martoriato di Cristo. C’è quasi un fondersi e confondersi della
gente di oggi con quella di ieri, in una mescolanza di ricordo e realtà che
rende il salire ogni anno di Gesù sulla croce lungo quanto la lunga storia del
peccato dell’uomo che solo Lui può redimere col suo estremo sacrificio. E ci
pervade una tristezza senza fine di fronte ad un Dio che si è fatto carne per
essere riconosciuto dagli uomini, invano. Vanificando, così, il suo sacrificio
e il suo amore.
Anche nella terza poesia assistiamo al
miracolo dello storpio che, al comando di Dio di alzarsi e camminare, lo fece
“col coraggio addosso” e a lungo camminò. Strabilianti versi che ripercorrono
il dolore antico “sulle strade impolverate del Sud”, dove “le case si accendono
addosso”. Verso superbo, che è una
fiammata viva a ridare colore e calore alla nostra mediterraneità che sa del
profumo in cui ogni “suono affonda” (“e il naufragar m’è dolce in questo mare”,
ci pare di sentire Leopardi e l’infinito che la sua anima si prefigura e
contiene).
Non così è la stazione del “dolore”.
Qui non c’è miracolo che tenga. La perdita di un figlio è il dolore più
straziante e inarrestabile nella sua infinita durata di tempo. E i poveri
genitori, morti con il figlio, si riconoscono per lo sguardo spento nel
“niente” che è meno di un vuoto. Solo le lacrime, il sangue e le bestemmie sono
vivi per sempre. Il dolore si fa spine, si fa solitudine, si fa sangue che
scorre. E non c’è partecipazione, non c’è comprensione, non c’è pietà nel cuore
impietrito degli uomini del nostro tempo: pollastri privi di sentimenti. Pensieri
vuoti, dove non alberga alcun senso profondo della vita, dove non si scorge lo
scorcio azzurro di un cielo rabberciato di pietà e di fratellanza.
Così i giorni della Passione scorrono
lenti, Cristi e Madonne si alzano, scuotendosi di dosso la polvere del tempo e
mischiandosi alla folla che ama ricordare più per tradizione che per fede.
Accompagna il Cristo sofferente la
Madre, emblema di tutte le madri con lo strazio nella carne e un accenno di
speranza negli occhi. Per un mondo migliore per tutti i piccoli che vengono al
mondo e hanno diritto di vivere una vita serena. Di Pace.
Questa è, invece, per tanti di noi, la
Via Crucis di tutti i giorni.
Sono versi, questi di Vincenzo
Mastropirro, davvero di una drammaticità straziante, se pensiamo ai nostri
emigranti di ieri (partene e bastimènte
pe tèrre assài luntàne…) e alla triste realtà degli immigrati di oggi in
arrivo da altre terre martoriate su barconi di fortuna per andare spesso
incontro non a una nuova vita, ma alla morte perlopiù in mare. Nel “nostro”
mare Mediterraneo.
E l’indifferenza domina sovrana. La diffidenza
anche. E l’egoismo, padre di tutti i mali. Ma il padrone assoluto è il dio
denaro, che si affianca continuamente al dio potere e quest’ultimo al dio-sopruso-odio-violenza.
Violenza di un popolo contro l’altro, di un popolo sull’altro. Una sorta di
trinità del Male, che domina il nostro tempo, come ogni altro tempo. Ma oggi ci
sono “casse di risonanza” a livello mondiale, sconosciute fino a soli
cinquant’anni fa. Moltiplicano l’informazione come moltiplicano il male
dandogli quasi legittimità. Ma il peccato più grave è sicuramente la tenerezza
che troppo spesso viene negata persino ai bambini. Tra tanta indifferenza e
discriminazione. Che inconsciamente o volutamente ignoriamo.
Poesie, queste ultime, che sono
“stazioni” dolorose di “visioni” terribili su quanto male possa fare il
rifiuto, la separazione, il divieto.
A che servono le genuflessioni di chi
va in chiesa a battersi il petto senza pregare?
È il grido di Vincenzo di fronte a
tanto strazio, a tanta inveterata ingiustizia che sembra ormai normalità. Il
poeta non può tacere l’orrore di tutti i Calvari del mondo. Lo urla con il
linguaggio dell’anima. Quello che non tradisce mai.
Il poeta, però, non sollecita lacrime,
commozione, preghiere, incanto. Si ferma al Calvario perché, per il momento
almeno, non vede spiragli di salvezza.
E non possiamo dargli torto. Ma un
miracolo Cristo continua a farlo: si immola ancora perché la Via Crucis sia uno spiraglio di luce per
quanti credono nella Resurrezione, almeno come anelito dell’anima. Come un
ritorno alla tenerezza. E noi, compreso l’Autore, siamo fra quelli.
Angela De Leo
Serata densa di musica, dunque, di
poesia, di immagini. Densa di tanta umanità ritrovata…
Ci ha accomunato “un senso di
appartenenza… con trame che si intrecciano e si raccontano” (Giuseppe
Fioriello)
… Stasera, le bellissime parole di
Raffaella Leone e l’analisi emozionale di Angela De Leo, i disegni evocativi di
Peppino Fioriello e le lacrime di alcune persone presenti (mentre
recitavo/suonavo) mi hanno convinto di aver scavato nell’animo umano troppo in
profondità… (Vincenzo Mastropirro)
Tenerezza inconfutabile le note del
flauto, intrecciate alle parole sferzanti di una realtà sottaciuta hanno dato
la misura di Sud…ario, dei tanti Sudari
segnati dai segni della solitudine umana.
Grazie mille e “sciom nanz”, come dice
l’autore! (Angela Strippoli)
Una serata emozionante con un commento
ad ogni poesia eseguito da un’Angela De Leo emozionata e coinvolta. BELLA la
commistione di poesia, grafica e musica. Bravo Vincenzo Mastropirro con il suo
dialetto ruvese, carico di ruvida musicalità! (Anna Maria De Leo)
Hanno fatto torto a sé stessi quelli
che non hanno sentito il desiderio di essere presenti, nonostante il nostro
richiamo. Peccato! Per quelli che non hanno potuto, peccato ugualmente. Ci saranno
altre possibilità di incontro a Molfetta, Bitonto, Bisceglie, Ruvo di Puglia. Non
mancate. Vi sentirete arricchiti e migliori…
E… “sciom nanz!”, come recita il
mantra di Vincenzo Mastropirro. “Andiamo avanti!”…
Nessun commento:
Posta un commento