mercoledì 13 gennaio 2021

Mercoledì 13 gennaio 2021: nel Retino si sono impigliate due parole: vita-morte

È stato un anno molto difficile e doloroso in tutti i sensi. I tantissimi morti per il Covid a livello planetario ci ha quotidianamente devastati e messi di fronte alla morte, al dolore, al silenzio, alla solitudine, alla fragilità della vita umana. Poi, i tanti personaggi famosi nel mondo artistico, letterario, sportivo hanno segnato un vuoto inimmaginabile. Infine la perdita di persone più vicine a noi, le più care, le più amate sono partite per il lungo viaggio senza ritorno. Un anno bisestile da dimenticare con tutto l’insopportabile dolore che si è uncinato dentro e sanguina di ferite irrimarginabili. E che dire di Ebru Timtik, eroina turca, sfinita dai tanti scioperi della fame, morta di inedia e “di ingiustizia” proprio due giorni fa? Tutto il nostro coraggio e la nostra resistenza sono messi a dura prova. E molti sono i crolli psicofisici di tantissimi di noi. Nello sconforto generale.
Nel Retino abbiamo analizzato parecchie parole, ma abbiamo ignorato la parola morte, pur nominandola spesso in questi ultimi tempi, soprattutto abbinandola con la vita e con il dolore. Penso che sia giunto il momento di parlarne apertamente. Come si fa con le cose inevitabili e vere. Spesso si affrontano a muso duro per difenderci dalla nostra stessa fragilità prima ancora che dalla paura. Il mio primo incontro/scontro con la morte, consapevole e traumatico ma per fortuna indiretto, è avvenuto quando ero appena adolescente, tenendomi lontana per un’intera vita da visite ai defunti, cimiteri e persino dal solo parlarne. Stavo male. Avevo attacchi di panico e di rifiuto al solo pensiero. Mi conciliai con la pallida Signora grazie alla morte straziante di mia madre. Ma ancora oggi vado con molta riluttanza al cimitero o a visitare a casa i defunti. Spesso non ci vado affatto. Dentro di me, però, c’è ormai una continua vicinanza alla morte. Anche per via dell’età e delle tante morti che inevitabilmente hanno costellato la mia vita e, col punteruolo del dolore, segnato l’anima. E oggi ne parlo come se fosse un’amica con cui è rasserenante confrontarsi tanto è saggia e dà buoni consigli.
E desidero cominciare a parlarne con una pagina commossa e commovente, catturata su fb due giorni fa. Eccola: I funerali ai tempi del Coronavirus sono un triste inno alla solitudine. Si resta così, persino durante la cerimonia funebre: distanziati, mascherinati, desolati. Eppure, anche prima che il subdolo nemico iniziasse a serpeggiare invisibile tra noi, c’era un momento della veglia in cui la chiesa rimaneva deserta, i banchi vuoti. Di solito, nel primo pomeriggio. È ancora scolpito nel mio cuore, quello torrido di tanti anni fa. Non c’era più nessuno accanto a me. Accoccolato accanto alla bara, carezzavo la trina leggera che ne orlava il rivestimento. Pensavo che la statua dell’Addolorata stesse lacrimando per la medesima mia ragione, Gesù al centro dell’abside era crocifisso come me. Cercai le mani di papà, fra le quali un addetto alle onoranze aveva sistemato pietoso una sberluccicante croce, riassumendo con efficacia, tanto inconsapevole quanto inoppugnabile, l’essenza della vita di quel gigante lì disteso. Ad un certo punto, le sue dita si irrigidirono e strinsero forte forte le mie. Lo chiamano “rigor mortis”, ma forse è soltanto amore. Sembrava che fosse lui a non voler partire e, invece, ero io che non volevo lasciarlo andar via… (Mario Sicolo)
Ne ho parlato ieri nel mio Retino, ma la fretta che i dieci minuti scarsi mi impongono non mi dà la possibilità di essere distesa e tranquilla e molte cose vengono dette a metà e male. Poi, l’emozione da non sottovalutare quando le parole, che mi giungono dentro, mi stanno più a cuore…Cerco qui di porre rimedio in qualche modo. Innanzitutto, mi preme precisare che: distanziati, mascherinati, desolati sono parole piane perché, come sappiamo benissimo, hanno l’accento sulla penultima sillaba e ciò determina un suono più pesante, duro, battente rispetto alla leggerezza della parola sdrucciola. Di qui il martellamento di cui parlavo ieri o la goccia fissa sul capo del torturato a rendere immobile e devastante il dolore. Ma non so cosa posso aver farfugliato ieri, col tempo che mi strangola. Poi, accoccolato (con tutti i suoi sinonimi: rannicchiato e accucciato con riferimento a nicchia e cuccia) e carezzavo hanno creato in me un’onda d’urto di tenerezza infinita verso quel ragazzo straziato, solo, lacerato, e avviluppato nel suo stesso dolore, in cerca di un rifugio consolatorio e protettivo per la sua anima in frantumi. Spero di esserci riuscita in qualche modo a comunicarti, mio carissimo Mario, la mia grande commozione che è, come ben sai, molto di più della stessa emozione. Così per tutto il resto: tu stesso crocifisso (fissato con chiodi e martello alla croce del tuo dolore)… Vorrei soltanto riprendere i versi di Tagore perché mi sembrano la giusta conclusione alla tua meravigliosa pagina.
La morte non è/ una luce che si spegne./ È mettere fuori la lampada/ perché è arrivata l’alba.
C’è quella negazione iniziale che già elimina la stessa morte. Non è la vita (luce) che si spegne. È una nuova alba fatta di luce tanto da rendere inutile la lampada accesa per rischiarare il buio della casa e del cuore desolati (lampada votiva?). Dopo la non-morte, l’alba è luce di rinascita. Resurrezione.
E anch’io, dopo la non-morte, mi riscopro eterna “viandante” con l’anima in tumulto verso un possibile “incontro”, scoprendo sempre più il suo “attraversamento” in un viaggio per raggiungere prima o poi il “non luogo” per eccellenza, la morte che morte non è… Sostiene Marc Augé, che ha “inventato” l’espressione “non luogo”, “Quando il pensiero è incapace di pensare la fine del tempo, cerca sempre di rappresentarsela in termini spaziali. Di qui la possibilità di pensare l’aldilà come un non luogo”. Un non luogo, dunque, uno spazio senza identità e senza memoria che l’uomo si finge per non pensare al nulla? Ma il non luogo assoluto non esiste - sostiene ancora Augé - dato che “in qualsiasi spazio c’è sempre, almeno potenzialmente, la possibilità di un incontro”. Anche una chiesa o, meglio, il camposanto, come un tempo lontano più coerentemente con la fede che animava i nostri vecchi, veniva chiamato il cimitero, è un “non luogo” che ha uno spazio delimitato: le navate per una chiesa, il campo per il cimitero. E un campo è sempre possibilità di incontro. A me dà l’idea della battaglia, della lotta, di una sovraesposizione di forza, di vita. Il campo mi suggerisce anche il rosso della violenza e del sangue, simile all’arena spagnola che vede lottare in un corpo a corpo impari fino all’ultimo sangue il toreador e il toro (oggi per fortuna, causa coronavirus, le corride di primavera sono sospese!). Ma anche il verde della distesa di un prato d’erba pacificato. Il giallo generoso e luminoso del grano. Il marrone bruciato delle stoppie. Il campo, a ben ricordare, è anche un “recinto” dove uomini liberi, in quanto uomini, perdono, con la propria terra, la libertà di vivere come uomini. È di soli due giorni fa la notizia della barbarie umana contrapposta al coraggio e alla giustizia dei giusti: la morte per inedia, dovuta ad un ennesimo sciopero della fame, di Ebru Timtik per difendere la giustizia e la sacralità della vita e della libertà di ogni essere umano. Il camposanto, però, con quell’aggettivo “santo” unito a “campo, si fa nome composto a definire la sacralità del luogo spazio/tempo, di silenzio e solitudine nel perimetro del suo orizzonte. Silenzio e preghiera. Nel suo spazio limitato e delimitato la sacralità della morte: le tombe bianche, colme di luce, quasi a rendere visibile l’assenza/presenza sotto un nome e un volto. Nome e volto riempiono lo spazio vuoto tra due date: la nascita, la morte. Quel nome e quel volto, fermati nel tempo, sono l’identità di una vita, che non ha più corpo, voce. Le date, invece, dipanano una storia. Che non ha più senso (“sic transit gloria mundi”). Che ha ancora senso. Perché un uomo è un uomo sempre. Lascia una profonda traccia di sé in chi lo ha amato. In chi lo ama. Ombre scure sono ferme nei cimiteri con le spalle contro i vialetti che delimitano le aree delle tombe bianche. Di spalle, l’amore. Di spalle, il dolore. Di spalle l’amore-dolore. Non ha volto né voce l’amore-dolore. Nel cuore il luogo del non luogo. Immobile, il dolore è una sagoma scura e solitaria. Immobile, il dolore seduto. Il dolore “accoccolato”. Il dolore arreso. Il dolore piegato/piagato. Il dolore mai dimenticato, che non dimentica. È paziente il dolore. È la paziente attesa dell’incontro, il dolore. Mai rassegnato. Mai vinto. È la certezza dell’incontro. La Speranza. E, nel silenzio muto che muta il dolore in preghiera, fiorisce la consolazione. Il ricordo è un fiore. La consolazione, visibile nei mille petali/lacrime dei crisantemi (ricordate la favola della bimba?); nel profumo intenso dei lilium, calici assetati di luce, dove la memoria è un rimorso o un inganno di verità. Nel non luogo dell’assenza/presenza si ferma il tempo e si fa storia eterna. Si fa memoria. E i cipressi alti si contendono, con le anime, il cielo. E il viaggio continua in tutto il senso e il non senso della vita e della morte, dell’amore e del dolore. E nel viaggio attraverso l’Amore/Dolore incontriamo l’Alba dopo ogni buio. La Luce, la Rinascita. Una possibilità di Incontro. La Resurrezione oltre…
“Il mistero della vita”: Il mistero della vita/ penetra nel mistero della morte,/ il giorno chiassoso/ tace dinanzi al silenzio delle stelle (ancora Tagore).
Ci sono poesie commoventi e profonde sulla morte. È superfluo ricordare “La morte non è niente” di Henry Scott Holland tanto è nota, ma c’è una poesia di Pessoa che ne approfondisce il tema con una visione più alta e più significativa che mi piace condividere. “La morte è la curva della strada”
La morte è la curva della strada,/ morire non è solo non essere visto./ Se ascolto sento i tuoi passi/esistere come io esisto./ La terra è fatta di cielo./ Non ha nido la menzogna./ Mai nessuno s’è smarrito. Tutto è verità e passaggio.
Perdonatemi se ho scritto ancora tanto. Cercherò di ridurre. Lo prometto. Ci riuscirò. E sarà una sfida personale con il tempo… Vi abbraccio. A venerdì 15 gennaio, ore 19. Ciao.

2 commenti:

  1. Quanto sempre imparo Angela,da queste righe tanto attese. Ogni giorno. Oggi poi hai toccato le corde più intime del mio cuore...

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  2. Come fiorisce una fine

    L'ultimo anelito assiste informe
    al suo principio che è fine.
    Chiassosa come il mare
    spettinato dal vento
    come il tumulto di un cuore
    che ripudia l'inverno
    come un calcio al vuoto
    che inscatola luoghi e non luoghi.
    Fiorire cui sempre la sera assiste.

    Come il morire

    Si gioca al risparmio
    arginando i prati verdi
    del cielo. Morsi di fiele
    a svezzare il mare appena nato
    in culle di miele.

    Sul fondo
    di sguardi prosciugati
    strizzo ciottoli cerei di vita.

    In punta di piedi varco la soglia di una parola che non oso. Per me è ancora, nel varcarla, sfiorare l'abisso. Un abbraccio, Angela!

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