martedì 30 marzo 2021

Martedì 30 marzo 2021: la settimana santa nel ricordo…

La settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva, quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino, suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una chiesa gremita e penitente (adoramus te christe et benedicimus tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…) mi ero riconciliata anche col latino lingua di Dio… Tu e la nonna seguivate con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e preghiere, che si dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle Litaniae Sanctorum la folla, dopo un po’, cominciava a rispondere non più “ora pro nobis”, ma “nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare… (kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… …). Io mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di tanta sfibrante espiazione. Durante la mattina del giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione del “Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù durante la via crucis. L’accompagnava la banda con le dolcissime nenie funebri di Carelli, Delle Cese, di Pasquale La Rotella, tutti i grandi musicisti del nostro paese; nenie, che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si compisse.

Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano, illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo di guardarmi intorno intimidita e incuriosita, persa nell’ammirazione della bellezza di quei vasi e di quelle luci in una disposizione artistica che differiva da chiesa a chiesa, secondo l’estro del sacerdote, del fioraio e delle bigotte che avevano provveduto all’allestimento. Le donne fuori dalle chiese commentavano: “Madónnə, cə jèjrə béllə cùssə ànnə u səbbùlcrə də sàn Səlvìstrə e pórə cùrə də rə  Vìrgənə”… (“Madonna, quanto era bello, quest’anno, il sepolcro della chiesa di san Silvestro e pure quello delle Vergini…”). “A mè na’ m’è piaciótə pə nnùddə cùrə də sànd’Andre’, asséjə misirìnə chə dùə strìppuə səccàtə scəchìttə”… (“A me non è piaciuto per niente quello di sant’Andrea, così misero con quei due rami secchi soltanto”…).

Dal venerdì, poi, si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale da secoli di medioevo) nelle nostre case. La mia vanità subiva un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio (jìndə au spécchiə stèjə u diàvuə e tu sì scəchìttə ‘na məndòsə ca nàn zàpə pənzà a nnùddə àltə… à dà scè drìttə drìttə au ‘mbìrnə…) (nello specchio c’è il diavolo e tu sei solo una vanitosa che non sa pensare a niente altro… devi andare dritto dritto all’inferno…). Ma mi consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a intervalli da “rə tərròzzuə” (quei particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili) fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo. Le due processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede. L’Addolorata era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo ringraziava per tanta bellezza con le parole: “‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?” (“in Cielo mi hai vista ché in terra mi hai scolpita?”). Eri stato proprio tu a raccontarmi questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La Desolata”. Mi piace anche rivivere con te il racconto tenerissimo, che non conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione popolare o della tua fertile fantasia: sta di fatto che raccontavi come, nella tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un giovane: quello di Giuda, il traditore di suo figlio, e con delicatezza gli si avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano...

Quale perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere suo figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio? Lei, minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio... (Probabilmente è per questo che noi tutti ci rivolgiamo a Lei perché interceda in nostro favore presso il Padre e il Figlio. Lei: Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile ed alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio..., come recitano i primi versi della preghiera di San Bernardo alla Vergine nel Paradiso dantesco).

<Nella mente si affollano ricordi, lacerti d’infanzia, spaccati di vita paesana, parole in vernacolo in disuso, ma straordinariamente colorite e dense di significato, tradizioni da salvare, da valorizzare perché fanno parte di noi, del nostro sangue e della nostra anima, della nostra cultura contadina e della nostra fede. Della nostra stessa vita. Fatta anche di paura. Quella paura che serpeggiava nell’anima di tutti noi bambini quando entravamo nelle chiese con “scarsa luce e poca aria”, ma piene d’incenso, di lumini rossi, di lupini appena in germoglio. (…) la paura del buio delle chiese con le statue dei santi coperte con i panni viola della penitenza spesso era vinta dallo stupore. Meno piacevole, invece, era la sensazione della “bocca amara di digiuno” durante i riti della Settimana Santa.

“Eri bella come rosa...”: richiamo antico, che mi attanaglia il cuore, ancora oggi, al ricordo di quel volto come petalo lacerato che intensamente aspettavamo di guardare con un misto di venerazione, di pena e di curiosità per quella antica leggenda che voleva quel volto bellissimo causa della morte del suo scultore>.

(eri bella come roosa,/ là di Gerico sul praato./ Or sì mesta, sì pietoosa,/ dal sembiante scolorato/ sembri al suol reciso fioore,/ ricoperto di pallore! …). E Vitino, ormai diventato il prof Pasculli, da tutti amato e apprezzato, ne era diventato il direttore musicale, ma io non ero più riuscita ad incontrarlo dopo i nostri anni in via Maggiore angolo via De Rossi. A mezzanotte, infine, c’era la processione “du VenerdìaSàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə” (“del Venerdì Santo con culla dorata di Gesù morto”), “də l’Addóloràtə” (“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio, e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”), tutto luci e fiori. La piazza alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie. Anche io e Lizia portavamo le sedie per tempo perché tu e la nonna poteste stare comodi fino alla fine della lunghissima processione. Qualche volta anche al riparo dal vento freddo, intabarrati in cappotti e sciarpe per l’atteso inevitabile gelo (dicevate) di ogni venerdì santo, difficilmente riscaldato dal sole (u vənərdìa Sàndə fàcə sémbə brùttə tìmbə, da quànnə ‘mbrè crìstə sòpə a la cròcə…) (ad ogni venerdì santo, da quando è morto cristo sulla croce, è sempre brutto tempo…).

Lacrime commozione preghiere incanto tradizione.

(continua il racconto tratto dal primo volume de Le piogge e i ciliegi)

Ma mi giungono sul nostro blog bellissimi messaggi che vale la pena riportare. Ci aiutano a vivere insieme tormenti, paure, preoccupazioni, sofferenze fisiche e spirituali, ma anche gioie e sorprendenti raggi di sole a regalarci una incipiente quanto attesa primavera… Ecco il primo da parte di Caterina De Fusco con la sua consueta “penna ardente e traboccante amore”: Cara Angela, grazie per aver pubblicato un mio scritto ancora caldo perché nato il 21/03/2012. Probabilmente proprio l'amore incondizionato di Giovanni Gastel, elargito a piene mani a coloro che si sono trovati sul suo percorso è stato segno nel permettere la pubblicazione, con mia somma meraviglia, del mio scritto “Napoli-Venezia”. Sorpresa, stupore ed incanto (mi avete letteralmente "sorpresa") è il sapore di questo dono che mi avete elargito così, naturalmente. Ve ne sarò grata per sempre. È proprio un per sempre, "forever", che lega due anime appena incontrate, eppure sorelle da sempre, così io "sento" la tua anima, mia fraterna amica Angela. Una fratellanza che appartiene alla Volta Celeste così che mi sento a voi collegata. Un meraviglioso dono del Cielo a cui sarò per sempre grata... ed ecco "la gratitudine" del Retino delle parole della sensibilissima Angela De Leo. Con amore. Caterina (Riflessioni circa lo stupore nel leggere il mio testo pubblicato sul tuo blog). Poi, ancora di Caterina una intensa testimonianza: Angela fai riaffiorare tanti ricordi specie rispetto al tuo esordio... mia madre Rosita per Pasqua faceva il pane bucellato (pan dolce) a forma di bambolina, che teneva in grembo l'uovo, o a forma di papera che recava... nel dietro l'uovo, come lo covasse… una volta tirate fuori dal forno, ma ancor prima, la casa s'inebriava di un soave profumo e, appena fuori, la mamma le spennellava con il tuorlo d'uovo, per renderle lucide... erano una meraviglia ed erano ottime sia a colazione sia per accompagnare salumi, il cui sapore forte ben si coniugava con il dolce del pan buccellato. Bei tempi, mia madre, con i suoi sorrisi e lavori in cucina, inondava la casa che si riempiva di profumi. Io però non ho memoria di giaculatorie e astinenze. Proprio no per fortuna e, ho, poca memoria di uova pasquali; la memoria fa capolino invece a proposito della bontà di un coniglio, proveniente da Milano che la nostra famiglia ricevette in dono e che giunse nella nostra casa già tutto maciullato pronto solo ad esser mangiato. Nella memoria giacciono ancora i tailleur di mia madre costituiti da abito attillato e giacchettino o il morbido chiffon in seta specie di un abito di mamma che, da sopra il seno e nelle maniche, lasciava vedere la sua tremula trasparenza. Fattami più grande ricordo giornate di Pasqua a mangiare in zona flegrea, da me molto amata, sul mare o di quando ci raggiunsero miei allievi per sorseggiare un caffè insieme a tutti i miei familiari. Era bello che la primavera scaldasse le nostre spalle e con esse i nostri cuori. Caterina De Fusco

Come non dirti grazie, Caterina? Bellissimi e teneri ricordi dei nostri anni verdi come la speranza. E l’amatissima Rita Vecchi mi conforta e gratifica col suo grande cuore e con la modestia che la caratterizza: Come sempre leggerti è un Dono immenso! Grazie! r.v.

Ma il Retino ha catturato altri testi che riguardano la domenica delle Palme e la settimana santa:

“Domenica delle Palme 2021” di Lizia De Leo: Arrivasti all’ora di pranzo./ Fresca di parrucchiera./ Di buonumore.// Mi abbracciasti dicendo:/ “Noi staremo sempre in pace./ Nulla potrà dividerci.”// Invece è arrivata la morte/ a tessere i suoi fili tragici/ di separazione.// Ma oggi è Domenica delle Palme!/ E io ti abbraccio/ come l’anno scorso/ sicura della tua presenza.// La felicità è sempre altrove…

E non ci sono commenti. Ritengo che l’amore superi persino i confini del Cielo.

E, a questo punto, mi sembra doveroso proporre il libro particolarissimo di Vincenzo Mastropirro con le poesie in dialetto ruvese-italiano, e di Giuseppe Fiorello con le opere di grafica abbinate ai testi poetici: SUD…ario – Passio Christi-Passio hominis (SECOP edizioni, 2017). E vorrei proporvi la mia prefazione al libro. Mi sembra che rispecchi le meravigliose quanto amare pagine del libro, ma anche l’atmosfera di questa nostra difficile e… “distanziata” Settimana Santa: SUD…ario è la nuova, intensa, urlata raccolta di poesie in dialetto ruvese (con traduzionein italiano) di Vincenzo Mastropirro. Quasi un poema di quindici nenie funebri che si snoda lungo le 14 stazioni della Via Crucis, dal Getsemani al Golgota, in una riproposizione in chiave contemporanea delle terribili tribolazioni di Cristo prima di morire sulla Croce. Ma il titolo ci prende per mano e ci fa percorrere le strade del nostro Sud, che oggi più che mai è una sorta di sudario, panno che copre il volto di tanti conterranei, intriso di sangue, lacrime e sudore, come il velo della Veronica percorso di dolore. E l’immagine di copertina, opera del grande incisore bitontino Giuseppe Fioriello, ne definisce, con nocche al fazzoletto per non dimenticare, la triste verità del nostro tradimento verso l’enorme rinuncia di Dio alla sua Onnipotenza per Amore dell’umanità. E con gocce di sangue da raccogliere, perché non se ne disperda il senso e il significato fino ai nostri giorni e oltre. Con rapidi e densi tratti di inchiostro di china, l’Artista ci offre tavole grafiche che accompagnano i versi in tutta la loro drammaticità. E la parola si fa immagine e l’immagine s’incarna nella parola in un processo osmotico sorprendente, che ci coinvolge, ci turba, ci commuove. I tratti neri sul foglio bianco raccontano un mistero di luci e di ombre, checi affascinano e ci sconvolgono per la veridicità, plastica e dolente, della loro consistenza umana e divina. E ritroviamo paradossalmente le nostre radici in una tessitura grafica e poetica essenzialmente contemporanea. In qualche tavola ho ritrovato la ricchezza frantumata e polisemica di “Guernica” di Picasso, ma anche l’essenzialità del segno e del senso di alcuni pittori contemporanei, come Antonio Sanfilippo o Pepita Simon in alcune loro vibranti opere in china, essenziali e raffinate. Le tavole del nostro pittore sono, pertanto, ricche di suggestivi chiaroscuri, ora trasparenti come acqua di fonte, ora cupi e profondi come il peccato che c’imprigiona. L’esergo è un capolavoro di denuncia sociale e umana, un grido di dolore e di rabbia che squarcia il silenzio dell’omertà e dell’indifferenza:

… ci nasce au Sud se zezzàisce de passiàune

e cunnànne l’àneme all’ètérnetò.

… chi nasce al Sud s’insudicia di passione

e condanna l’anima all’eternità.

vm

Si tratta di due versi che racchiudono parole di grande forza e veemenza, che s’innalzano fino al cielo non come un senso di liberazione, ma come il macigno di una condanna all’eternità in una condizione di atavica rozza passione, che non si riesce a vincere per restituire alla nostra gente, come meriterebbe, dignità e libertà. E i termini nel dialetto antico sono una scudisciata in pieno viso: zezzàisce, passiàune, cunnànne. Ed è un dialetto duro, imperioso, sanguigno, che mal si addice alla bellezza incantata della poesia, e che pure è Poesia.dell’anima. Non può che essere poesia. È la lingua che abbiamo ascoltato sin da quando siamo venuti al mondo, sussurrata con amore da nostra madre quando ci teneva al seno. È quella della ninnananna con cui nostra nonna cercava di farci addormentare. È la lingua dei primi giochi. Delle prime tenerezze. La lingua del cuore. Quella che riscopriamo dentro di noi ogni volta che una emozione ci sorprende, un dolore ci opprime, una gioia ci fa mettere le ali. È la nostra rabbia. Il nostro rancore. È il nostro ricordo. La nostra nostalgia. È il mondo sotterraneo che ci portiamo dentro e che affiora nei momenti difficili della nostra vita quando, senza maschere o convenevoli sociali, ci consegniamo agli altri nella nostra autenticità, nel nostro stupore di essere paradossalmente nudi eppure non riconosciuti nella nostra pelle, nella parte più scoperta e più vera, che è comunque, a ben vedere, anche la parte più intima e più oscura di noi. Quella che affonda le radici nell’humus fecondo dei nostri antenati, del loro modo di vivere, di esprimersi, di manifestare o contenere sentimenti, emozioni, pensieri. Una sorta di contenitore rustico, fatto di sarmenti intrecciati come le “sporte” che un tempo i contadini portavano in campagna per colmarle di tutto quanto la terra produceva e sapeva di buono: il profumo inebriante dei frutti delle nostre campagne mescolato con quello più aspro e forte dell’olio dei nostri ulivi. E da quel contenitore, simile al cilindro di un mago, noi tiriamo fuori, improvvisamente, la nostra antica storia che sa di zolle, di alberi e di germogli, di fiori e di foglie, di fatica e di sudore, di magri raccolti e di fiducia nella bontà divina o nella buona sorte. La nostra storia di neve mescolata la vincotto, mangiata intorno al braciere acceso nelle lunghe sere d’inverno. E, con i rosoli di diversi colori, u grattamariànne all’angolo della strada negli assolati pomeriggi estivi. Basta un richiamo. Una parola. Un gesto. Uno sguardo. Una ruga in più su un volto che ci sembra millenario e il mondo di oggi cede i suoi scenari vorticosi e spesso disumani a quelli più sofferti, ma forse anche più rassicuranti di un tempo solo apparentemente perduto, ma radicato nell’anima, scritto nei nostri comportamenti atavici, di cui, se siamo molto giovani o appena adulti, non conserviamo memoria. Eppure ci appartengono. Sono la storia dei nonni e dei bisnonni. Sono le loro voci, i loro proverbi (rә dәttériә), con cui si semplificavano la vita, da percorrere lungo carreggiate già segnate, e da indicare alle nuove generazioni per impedire loro di perdere la via maestra o il battuto sentiero e magari di imboccare scorciatoie a volte pericolose e fuorvianti. Le loro parole in dialetto sono la meta certa e il sicuro ritorno. Sono la casa, il focolare, il paiolo, le fave e le cicorie, la cena frugale e il ragù della domenica. Le strade col pietrisco e i carri con muli o cavalli e il cane che abbaiava al primo chiarore dell’alba. Sono la preghiera del mattino e il requiem per i morti recitato di sera, quando più acuto era il ricordo e più intenso il dolore, in un latino biascicato e incomprensibile che non era latino e neppure volgare o italiano, ma era una strana lingua, che oggi può farci anche sorridere, divertiti per tanta ingenua fiducia nelle parole apprese di bocca in bocca e ritenute intoccabili e sagge, degne di un miracolo o della benevolenza del Creatore. Il dialetto è la lingua che racconta la fede e l’affidarsi a Dio dei nostri vecchi. Ci è stata trasmessa con le parole imparate nella culla e cucite nel cuore per poterle ritrovare lì, dove l’amore le ha conservate e nascoste per ricordare a noi, che le abbiamo apparentemente dimenticate, chi realmente siamo. Solo il loro recupero potrà restituire alle nostre parole nuove il senso profondo delle cose, quella matericità che abbiamo perduto con l’astrazione dei nostri discorsi, fondati sui concetti e non più sulle esperienze, perché solo queste racchiudono significati antichi da ripercorrere a ritroso fino a ritrovare, intatta e vera, la storia dell’umanità…

Continuerò nei prossimi giorni. Vi abbraccio. E a più tardi con il nostro Retino e la diretta de Il Sentimento della Scrittura. A dopo. Ciao.

1 commento:

  1. Angela quant'è dolce naufragio nel mare dei ricordi... che sanno di "cialledda" nelle sere d'estate e taralli di massa nelle vacanze pasquali. O di ninnananne in vernacolo intonate dalla mia cara nonna. Grazie sempre Angela, per il tuo immenso dono!

    RispondiElimina