L’eco di
“Fiero del Libro” vola ancora alta e sonora nei cieli di Corato, paesi
limitrofi e non solo, perché è giunta a Milano, grazie a Giovanni Gastel, e in
Serbia col sorriso di Mirko Dimic. È stata, questa, un’edizione “brillante”,
come uno dei ragazzi liceali, coinvolti nella manifestazione, ci ha detto nella
sera conclusiva e gli brillavano gli occhi e il cuore. E noi ne siamo felici e
“fieri”. Ma è stata una edizione da ricordare per le nuove idee, che hanno reso
interessante, entusiasmante e coinvolgente il ruolo dei “cercatori di parole”
in una piazza palpitante di voci con lunghe scie di termini, come stelle comete,
a condurci ai luoghi poco praticati dei libri, in cui le lettere si danno la
mano per formare le sillabe e queste le parole che, tra una pagina e l'altra, si presentano (piacere, piacere… no il piacere è tutto mio)
o si riconoscono (ciao, come stai?... è
da parecchio che non c’incontriamo!), s’innamorano (ti amo… io di più), si baciano, fanno l’amore, si moltiplicano
(ridono, danzano, piangono, litigano, fanno la pace, s’intrecciano, ricordano,
sospirano, vanno indietro nel tempo e precorrono il futuro, fanno pazzie e poi
rinsaviscono) e nutrono la speranza che qualcuno apra i libri, scorra le pagine e le legga,
trovandole simpatiche, chiare, godibili, scorrevoli, affascinanti tanto da non
staccarsene più.
Sì, le idee
si trasformano in progetti e anche questi si traducono in parole, prima parlate
e poi scritte perché non scappino via, perché rimangano e si facciano eventi,
momenti d’incontro, declamazioni, esternazioni, opinioni, dibattiti, confronti,
contradditori, intese. E, poi, diventino opere da leggere, da commentare, da
presentare, da applaudire.
Sì,
quest’anno tutto è nato dalle parole.
Dalle opere e dalle opinioni.
Ed io, che
avevo il compito di parlare e di cercare le parole per connotare la creatività,
nel dibattito con “mostri sacri” come il fotografo Gastel, la pittrice
Carabellese, l’economista Fischetti (compito che ho seguito alla lettera!), ho
dovuto poi affrontare brevissimamente (fatica immane per me limitarmi a poche
parole!) la presentazione del romanzo giovanile “Duetto Profano” del grande
Giovanni Gastel nelle vesti di scrittore. In verità, avevo preparato con grande
impegno tutte le parole che potessero raccontarci simpaticamente il complesso e
multiforme romanzo. Anzi. Avevo fatto di più: avevo giocato con le parole,
divertendomi a comporle secondo una sorta di tautogramma, prendendo come
lettere iniziali la “D” di Duetto e la “P” di Profano. Un gran bel lavoro, non
c’è che dire! Soprattutto un divertissement,
di cui andavo “fiera”, anche se forse non ci azzeccasse granché con il romanzo!
Ma grande è stata la mia frustrazione, quando mia figlia ci ha sollecitato ad essere
brevissimi per mancanza di tempo. Il resto è storia che rimarrà negli annali di
“Fiero del Libro”...
Ma io non demordo
e mi prendo la rivincita qui, nel mio blog, dove nessuno mi può sollecitare ad
essere “brevissima”. Ah, i lettori!!! Beh, loro possono sempre fingere di
essere andati fino in fondo. Tanto io non lo so! E, dunque, niente
frustrazioni!
E vado a
incominciare:
D (uetto)
due: due potrebbero essere i protagonisti, ma lo saranno davvero? duetto: le voci (della realtà e del
romanzo); dovrebbero essere una voce sola, ma sono disgiunte: non
vanno all’unisono perché devono rispettare il copione che parla del doppio: strategia, fascino o necessità
del “doppio” da Plauto a Goldoni, da Stevenson ad Oscar Wilde, fino ai nostri
giorni. Qui, però, il doppio è duplice: nel
senso di doppia estrazione familiare e sociale con duplice direzione nel dimidiato rapporto con la realtà. Il
protagonista, dunque, è diviso tra il
lasciarsi andare a una sorta di fatalità e l’esplodere deciso in una salutare ribellione al proprio ambiente, per cui si
crea un divario: tra essere sé
stesso e essere un altro, e inventa così il suo alter ego nella trama di un romanzo come riscatto agli occhi di suo
padre. I protagonisti, perciò, diventano due e sono completamente diversi: l’uno disgustato, ribelle, con progetti di rivincita attraverso la scrittura
del romanzo, che si fa desiderio e
necessità. Desiderio perché, attraverso la lettura di tanti libri ora
abbandonati, scopre la possibilità di desiderare
qualcosa di diverso dalla propria
vita, che gli procura dolore: per la
pochezza della sua esistenza e di quella di suo padre che pure, a modo suo,
coltiva un sogno e si accontenta, tanto sa che nulla potrà cambiare, mentre
lui, suo figlio, insofferente a quanto lo circonda, sente serpeggiare dentro di sé disgusto e dannazione perché,
pur avendo voglia di cambiare, gli manca la determinazione a realizzare il romanzo, che gli permetterebbe di
vivere una vita diversa, dove
sarebbe lui l’artefice di ogni esperienza, di ogni incontro, di ogni scelta di
vita. Ma in realtà preferisce dormire, come Endimione, per non vedere la
triste realtà e non sentirsi responsabile delle proprie scelte e della propria
vita. Ciò significa non voler crescere e, quindi, voler dimenticare momenti
di stasi e di indifferenza per non prendere in mano la propria maturazione che
potrà fare di lui un uomo, completamente diverso da suo padre e forse realmente
felice, realizzato. Anche per questo non ha un nome. Non avendo una sua precisa
identità (e il nome è la prima voce identitaria, il primo segno), può sempre
rifugiarsi nel sogno o nel romanzo e prendere un’altra identità. Ma anche il
protagonista del romanzo rimane senza nome perché possa ritornare a rivestire i
panni originari, qualora come autore dovesse fallire. E, così, tutti i
coprotagonisti hanno un nome e una decisa personalità e, in alcuni casi, anche
una professione, lui e il suo doppio sono senza nome. Eppure quanto importante
la nominazione. Denominare fu
l’attività primaria di Adamo per mettere ordine dove c’era disordine, dando un nome a tutte le cose. Sorprende, pertanto, data
la complessità del duplice romanzo (il romanzo nel romanzo), che l’autore
avesse solo diciassette anni quando
cominciò a scriverlo, rivelando una maturità contenutistica e stilistica
straordinaria. Molti, infatti, sono i
demoni che ostacolano il processo di maturazione sia del protagonista,
nella realtà, sia del suo doppio di fantasia. Per vincerli, non a caso c’è una
ricerca sofferta e dolorosa di Dio, che è “più facile negare” che
accettare nella propria esistenza. Se fossimo perfetti non cercheremmo Dio,
paghi della nostra perfezione. È la imperfezione a darci la necessità di
inventarci o credere in un dio o nell’unico Dio.
P (rofano)
Protagonisti. E qui non sarebbe il caso di ripetermi. Solo
una puntualizzazione: si differenziano notevolmente nel linguaggio (due
scritture diverse anche nel carattere tipografico, proprio per differenziare
quella del romanzo da quella della realtà; nonché due frasari diversi per tono
e parole usati: morbido, elegante,
raffinato, il primo; rozzo, scurrile, volgare, il secondo) e in alcuni
comportamenti, tra ricchezza da una parte e quotidiana pochezza dall’altra, ma in
entrambi i casi i due protagonisti hanno in fondo un’unica radice, un unico
sentire, un unico bisogno di crescere e di affermarsi, anche ribellandosi o
confrontandosi con gli altri personaggi:
con i rispettivi genitori, per
esempio, completamente diversi in apparenza, ma in sostanza con le stesse
aspettative nei riguardi dei figli: la loro realizzazione, conforme alle regole
della famiglia. Di qui la ribellione dei due protagonisti, con modi e intenti
del tutto personali, anche se i due, non avendo un nome e neppure, per questo,
una identità, come già detto, possono continuamente fondersi, confondersi,
scomporsi e ricomporsi, ritrovarsi, riconoscersi. Di qui la loro personalità: per alcuni tratti identica
e, per altri, completamente diversa. Anche la personalità degli adulti, spesso
apparente nella veste di saggezza e serenità, è in realtà fortemente legata al
senso di sconfitta che serpeggia in profondità:
tutti, profondamente, adulti ma
anche ragazzi, sono in fondo dei perdenti,
persino Guido, l’amico mentore, che fa da guida al protagonista nel romanzo (la nominazione, dunque, non è casuale)
non salva né l’amico né sé stesso. E Renato, che sogna di diventare scrittore,
finisce col fare il cameriere in Svizzera, vivendo di rassegnata frustrazione.
(Non afferma Thoreau che tutti gli uomini “vivono una vita di rassegnata
disperazione”?). E neppure il padre, sia
che appartenga alla realtà o al romanzo, ha possibilità di salvezza. Perché deve
fare i conti con le passioni: quelle
personali ormai spente e quelle dell’uno o dell’altro figlio accese. Nel romanzo
è Paola che diventa il pensiero fisso del protagonista; nella
realtà, invece, è l’alcol o la droga o una notte d’amore mercenario. Ma ognuno
vuole misurarsi con una possibilità: innamorarsi
veramente o continuare a vivere senza amore. Nella realtà, invece, è Anna la
compagna, di cui il protagonista non ricorda neppure più gli occhi o la faccia,
pur avendola quotidianamente accanto. Esiste, dunque, una qualche possibilità
di perfezione o di inventarsela per
inventarsi la pienezza di sé e,
quindi, la felicità?
Importante
è, comunque, il viaggio per tentare un passaggio
da un modo di essere e l’altro, l’evoluzione di sé, quasi un
attraversamento delle diverse tappe adolescenziali con la perdita della propria identità, attraverso la iniziale partenza: che determina l’andare e la perdita: di sé o di chi va via e l'avvertire la propria pochezza o
quella dell’altro/a o dello stesso sentimento ritenuto amore (“Credevo fosse
amore e invece era un calesse”, il famoso film del bravissimo e compianto Massimo
Troisi). E avvertire dentro di sé una nuova
paura, diversa da tutte quelle precedenti, che quest’ultima cancella: la
paura della solitudine o del tempo che passa e non concede tregua all’assalto
dei dubbi e delle delusioni. E nasce il bisogno della parola: per imparare ad esprimersi e a comunicare per non sentirsi
mai soli, inadeguati, abbandonati (il complesso di Pollicino sempre in agguato a qualsiasi età).
E la parola
per eccellenza è poesia: catartica,
salvifica, rigenerante e sempre in bilico tra realtà e fantasia, tra il “qui e
ora” e “l’altro” e “l’altrove” in senso diacronico e sincronico. Ma davvero la
poesia sarà l’ancora di salvezza per tutti i mari e per tutti i mali? Auguriamoci di sì. Bello è pensarlo. Ci
aiuta sicuramente a stare meglio.
Puntualizzazione: Mi piace puntualizzare, infine, che anche
la personalità dell’autore è complessa, dimidiata, ossimorica. Vive costantemente
in mondi che sono suoi e mai gli appartengono; mondi, dove esistono rigide
regole di bon ton e di altera
fierezza di un’antica e storica nobiltà, che fa da contraltare e da contrasto
stridente con il mondo della Moda, dei vip, dei ricchi dell’ultima ora, dove
esiste la legge dell’apparire, della finzione, della irrealtà.
Il teatro
gasteliano ha profonde verità solo nel profondo dell’anima e tutto è e non è:
la Fotografia, la Scrittura, le Poesie, la Recitazione, il Romanzo, la sua
stessa Vita!
E anche la
conclusione non può che essere ossimorica: vincitori o vinti, il protagonista o
il suo doppio, i tanti personaggi o i coprotagonisti, la realtà o la fantasia?
Ogni lettore
avrà una sua conclusione.
Rimane ancora
nell’aria l’eco di “Fiero del Libro” 2018 a renderci più leggeri e a farci
danzare tra migliaia di parole che volano e cantano e si abbracciano in libertà…
Così come
dovremmo imparare a fare anche noi…
Rimane che
siamo viandanti, nel bene e nel male, lungo il percorso della nostra individuale e comunitaria esperienza
esistenziale. E le parole giuste, dette, lette o scritte al momento giusto, ci
servono come il pane quotidiano, il viatico che ci accompagni, per non essere
dei “perfetti sconosciuti” a noi stessi e agli altri. Per intessere legami di
conoscenza e di riconoscenza, di amicizia, reciprocità, solidarietà. AMORE
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