Venerdì scorso davanti al Teatro comunale della nostra Corato l’AMORE ha trionfato in tutta la verità e la sua fallibilità nelle nostre vite di viandanti in cerca di desideri da realizzare e di sogni da afferrare per continuare a vivere e a sperare che si faccia luce nei nostri cuori, attanagliati dalle tenebre delle ore buie di una pandemia che continua a frenare abbracci, sorrisi e lacrime. Imperativo categorico cui sottostare se non vogliamo rischiare nuovi contagi, nuove quarantene. Ma “amor omnia vincit” ed è stato bello cantarlo in tutte le sfumature che si vestono di mille colori escluso il grigio che è terra di nessuno. E “tante sfumature di grigio” non tendono a rischiarare il senso e il significato dell’amore né ad annullarlo in virtù delle sue molteplici perversioni. L’AMORE È. In tutta la sua luce, le sue ombre. Ma deve essere AMORE e non una sua supposizione o finzione. Perché, se “capita” (ne ha parlato Federico Lotito con convinzione e tenerezza a Luciana De Palma, la sua donna per la vita) e quando capita non lo si può nascondere tanto è luminoso e bello. Si espande tra la terra e il cielo, accarezza il mare, attraversa gli oceani, impazzisce di gioia, si rifugia sulla luna, sicuro di superarla nel suo splendore, di contagiarla di follia o menzogna e forse di verità. Peccato che io non possa trasferire su questa pagina la magnifica serata di venerdì scorso perché in tanti (relatori, lettrici, figure istituzionali, coordinatrice di serata e soprattutto uno stratosferico, illuminato, illuminante Mario Sicolo, il nostro amato giornalista, direttore del DaBitonto) hanno “magnificato” questo sentimento che “move il sole e l’altre stelle”, schiudendoci le porte del Paradiso. Certo, attraversa molte fasi e la prima, quella assolutamente magica, è la fase dell’innamoramento in cui albe e tramonti si accendono di rosso e contaminano l’universo. Ma l’amore non è solo questa follia irrazionale e bruciante, è anche molto di più e, purtroppo, a volte o spesso, molto di meno. Dipende. Dipende dagli incontri, dal DNA, dalla cultura familiare e sociale, dal tempo e dallo spazio, dalla capacità o possibilità di prendersi cura dell’altro/a, dalla sofferenza che comporta e dal dolore o dalla gioia che si riesce a condividere senza mai identificarsi con l’altro/a, ma rimanendo liberi di essere sé stessi. Dipende dalle convergenze che si sedimentano e si fanno abitudini e forse anche catene restie al cambiamento o dalle divergenze e dalla possibilità di perdersi per sempre o anche di ritrovarsi se questo sentimento è forte, tenace, persistente. Innumerevoli sono le modalità di amare e di essere Amore. Innumerevoli le sue espansioni ed espressioni. Nessuno può farne a meno. Meno che mai i poeti che si nutrono d’amore in tutte le sue sfaccettature. Ed è stato proprio il monologo/capolavoro di Mario Sicolo, degno del miglior Benigni e oltre… a darmi la stura per ripercorrere insieme a voi, mie amiche e miei amici carissimi, la storia poetica (che ne è testimonianza) da lui magnificamene declamata (egli stesso romanticissimo poeta) con insuperabile estro autoironico, brioso e mordace insieme. Da Saffo ai nostri giorni (e mi limito con tutti i miei limiti, e per inevitabili “sommissimi capi”, alla storia letteraria che conosco. E menomale, altrimenti mi ci sarebbero voluti trattati su trattati, non confacenti al mio tempo sempre più breve e alla ricerca/studio che avrei dovuto necessariamente fare). Dunque, confortata dalla vostra quasi certa benevolenza, oso.
Saffo:
Eros ha scosso la mia mente/ come vento
che giù dal monte/ batte sulle querce.// Sei giunta, ti bramavo,/ hai dato
ristori alla mia anima/ bruciante di desiderio. Catullo: Viviamo, mia Lesbia, e amiamo/ e ogni
mormorio perfido dei vecchi/ valga per noi la più vile moneta./ Il giorno può
morire e poi risorgere,/ ma quando muore il nostro breve giorno,/ una notte
infinita dormiremo./ Tu dammi mille baci, e quindi cento,/ poi
dammene altri mille, e quindi cento,/ quindi continui mille, e quindi cento./ E
quando poi saranno mille e mille/ nasconderemo il loro vero numero/ che non
getti il malocchio l’invidioso/ per un numero di baci così alto. E Paolo
Silenziario: Nascondiamo, mia Ròdope, i
baci/ e le dolci battaglie di Cipride./ È bello sfuggire a uno sguardo che
tutto vede e sospetta:/ l’amore furtivo ha più miele di quello esibito. E salto
a Dante, il Sommo Poeta: Ne li occhi
porta la mia donna Amore,/ per che si fa gentile ciò ch’ella mira;/ ov’ella
passa, ogn’om ver lei si gira,/ e cui saluta fa tremar lo core,// sì che,
bassando il viso, tutto smore,/ e d’ogni suo difetto allor sospira:/ fugge
dinanzi a lei superbia ed ira./
Aiutatemi, donne, farle onore.// Ogne dolcezza, ogne pensero umile/ nasce nel
cor a chi parlar la sente,/ ond’è laudato chi prima la vide.// Quel ch’ella par
quando un poco sorride,/ non si po' dicer né tenere a mente,/ sì è novo
miracolo e gentile. Inevitabile è Petrarca: Erano i capei d’oro a l’aura sparsi/ che ‘n mille dolci nodi gli
avolgea,/ e ‘l vago lume oltre misura ardea/ di quei begli occhi ch’or ne son
sì scarsi;// e ‘l viso di pietosi color’ farsi,/ non so se vero o falso, mi
parea:/ i’ che l’esca amorosa al petto avea,/ qual meraviglia se di sùbito
arsi?// Non era l’andar suo cosa mortale,/ ma d’angelica forma et le parole/
sonavan altro che pur voce humana:// uno spirto celeste, un vivo sole/ fu quel
ch’i’ vidi, e se non fosse or tale,/ piagha per allentar d’arco non sana. Segue
a ruota Boccaccio con la sua imprudente pruderie nel “casto” (si fa per dire) Trecento: Iscinta
e scalza, con trezze avvolte,/ e d’un scoglio in altro trapassando,/ conche
marine da quelli spiccando,/ giva la donna mia con altre molte.// E l’onde,
quasi in sé tutte raccolte,/ con picciol moto i bianchi piè bagnando,/ innanzi
si spingevano mormorando/ e ritraènsi iterando le volte.// E se tal volta,
forse di bagnarsi/ temendo, i vestimenti in su tirava,/ sì ch’io vedeo più
della gamba schiuso,// oh, quali avria veduto allora farsi,/ chi rimirato
avesse dov’io stava,/ gli occhi mia vaghi di mirar più suso! E poi Ariosto:
Lasso, che bramo ancor, che più vogl’io,/
se nulla cosa da voler mi resta,/ e son, senza disio, pien di disio?// Amor mi
tien pur sempre in gioia e ‘n festa;/ che brami adunque, disiosa voglia?/ che
nova cosa è quel che mi molesta?// Io voglio, ma io non so quel ch’io mi
voglia;/ e volendo mi doglio; ah duro fato,/ che senza alcun dolor sempre mi
doglia!// So purch’io son più lieto e più beato/ di quanti amanti fur felici
mai,/ e sopra modo alla mia donna grato.// So ch’ella m’ama e che m’ha caro
assai,/ e meco è d’una voglia e d’uno amore,/ e possedo quel bench’io
desiai./ma nova voglia ancor resta nel core,/ e senza mai provar, provo
tormento/ con certo non so che lieto dolore.// E benché sia tra li altri il più contento,/ più bramo
ancor, bench’io non sappia dire,/ e così, più felice e discontento,// s’altro
bramar non so, bramo morire. Naturalmente Tasso: Non sono in queste rive/ fiori così vermigli/ come le labra de la donna
mia,/ né ‘l suon de l’aure estive/ tra fonti rose e gigli/ fa del suo canto più
dolce armonia./ Canto che m’ardi e piaci,/ t’interrompano solo i nostri baci. Michelangelo
Buonarroti a Vittoria Colonna: Un uomo in
una donna, anzi uno dio,/ per la sua bocca parla,/ ond’io per ascoltarla/ son
fatto tal/ che ma’ più sarò mio./ I’ credo ben po’ ch’io/ a me da lei fu’
tolto,/ fuor di me stesso aver di me pietade;/ sì sopra ‘l van desio/ mi sprona
il suo bel volto,/ ch’i’ veggo morte in ogni altra beltade./ O Donna, che
passate/ per acqua e foco l’alme a’ lieti giorni,/ deh, fate, c’a me stesso più
non torni! Sulla stessa falsariga qualche secolo dopo ecco Pietro Metastasio:
Perché, se mia tu sei,/ perché, se tuo
son io,/ perché, temer, ben mio,/ ch’io manchi mai di fe’?/ Per chi cangiar
potrei,/ per chi cangiar desio,/ mio ben, se tuo son io,/ se il cor più mio non
è? Con
un balzo raggiungo Foscolo, imperdibile nel suo dolore per amore: Perché taccia il rumor di mia catena/ di
lagrime, di speme, e di amor vivi,/ e di silenzio; ché pietà mi affrena,/ se
con lei parlo, o di lei penso e scrivo.// Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,/
ove ogni notte Amor seco mi mena,/ qui affido il pianto e i miei danni
descrivo,/ qui tutta verso del dolor la piena.//E narro come i grandi occhi
ridenti/ arsero d’immortal raggio il mio core,/ come la rosea bocca, e i
rilucenti// odorati capelli, ed il candore/ delle divine membra, e i cari
accenti/ m’insegnarono alfin pianger d’amore.
E per oggi mi fermo qui. L’Ottocento e il Novecento meritano uno spazio maggiore perché cambia il linguaggio poetico, soprattutto nell’Ottocento, grazie a Giacomo Leopardi e alla sua canzone libera dai legacci dell’endecasillabo, a cui spesso affianca il settenario, affrancandola anche dalla metrica e dalla rima. E nel Novecento, grazie al Futurismo e all’Ermetismo della prima metà del secolo e alle neo avanguardie del secondo Novecento, allo Sperimentalismo con le varie correnti, e al post- Ermetismo di fine secolo. Ne parlerò tra domani e dopodomani per poter giungere alla poetica del terzo millennio e alle sue prospettive per il futuro prossimo. Tante le poesie dei tanti miei amici poeti di ieri, di oggi, di domani. Lo so che sono cose che si sanno, ma rispolverarle fa sempre bene per riscoprirle ancora piene di luce… e continuare. Ciao
Alla fine della lettura mi sale alle labbra un "Brava!!! grandissimo. Riconosco che la tua sensibilità e la cultura che traspare da quello che scrivi sono tanto grandi da spaventare.
RispondiEliminaEd io aspetto con ansia il proseguo di questo tuo viaggio, nella grandezza di versi immortali, incisi sulla nostra pelle, nei nostri occhi, nei nostri cuori! Un caro e grato abbraccio!
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