Prima di passare ai poeti italiani contemporanei e a quelli del prossimo futuro, ritengo opportuno approfondire brevemente la struttura, le forme e gli elementi propri del “codice poetico” per comprendere meglio il passaggio dal “vecchio” al “nuovo” modo di scrivere poesia. Il codice poetico dunque:
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È un discorso in versi: “le parole sono disposte secondo
segmenti di diversa misura”, che possono raggrupparsi in differenti modi. I
versi si alternano agli spazi bianchi, che Paul Eluard definisce “margini di
silenzio”, molto significativi per comprendere la struttura di una poesia e
molto altro (le parole non dette, il senso oltre le parole dette, lo slargarsi
dell’ultima parola, il ritmo proprio di una poesia, la sua musicalità…).
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La stessa denominazione
(canzone, sonetto, ballata ecc.) dipende dalla struttura dei versi. Per esempio,
una poesia molto musicale, definita poesia lirica,
deriva dallo strumento musicale a corde con cui gli antichi cantori si
accompagnavano recitando i loro versi perlopiù in endecasillabi (origini orali
della poesia).
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In un testo poetico nulla è casuale: il gioco linguistico della
disposizione delle parole per dare loro un ritmo, una musicalità, una sorta di
melodia è strettamente legato al significato che si vuol dare al componimento
poetico e al suo significante. Dall’insieme dell’uno e dell’altro, compresi gli
spazi bianchi, scaturisce il senso che non è mai definito, regolare, dato una
volta per tutte. Di qui le difficoltà di tradurre le poesie in altre lingue: il
testo originario, dovendo sottostare al mutamento delle parole, viene sempre
falsato e tradito nel ritmo, nel suono e, quindi, nel senso
(traduttore-traditore). Bisogna essere poeti per tradurre il testo originario
delle poesie “straniere” alla propria lingua.
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La
poesia è, pertanto, una esperienza intima e profonda,
legata all’immaginario del poeta che spesso nasce da una emozione, una
folgorazione, una intuizione, per cui necessita proprio di quelle parole, di
quelle immagini tradotte con quelle parole e non con altre e non in altro modo.
L’emozione può nascere da una situazione presente, dal ricordo o dalla
proiezione in una situazione futura, per cui spesso si ha nei versi il processo di attualizzazione. Questo
è uno dei modi di procedere del “fare poesia”.
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Nella
poesia, infatti, si concentrano le immagini, le sensazioni, le emozioni del
poeta. Di qui la sua essenzialità.
Condensazione e simbolizzazione sono procedimenti frequenti anche se non
obbligatori di fare poesia. Niente è obbligatorio nel linguaggio poetico, che è
espressione di totale libertà nel rispetto della forma specifica della poesia
che è determinata dalla bellezza del
verso. Tale bellezza, il più delle volte, scaturisce da una “fulminea
illuminazione” o da una ricerca sulla polisemia (o polivalenza del significato)
della parola. Spesso, poi, in un poeta sono ricorrenti alcune parole a lui
particolarmente care che vengono definite stilemi
o parole-chiave di quel determinato
poeta, connotanti la sua poesia. Ma importanti sono anche i “campi semantici”,
cioè quelle espressioni che sono tipicamente legate ai temi che quel poeta
tratta più frequentemente di altri o che connotano quella particolare raccolta:
la memoria, la vita e la morte, la guerra, i problemi sociali filtrati dalla
propria sensibilità poetica, ecc.
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Prosa e poesia, però, non sono antitetiche così come sembrerebbe perché ci sono poesie
che volutamente hanno un tono discorsivo e di ampio respiro e prose altamente liriche:
tutto dipende dalla scelta delle parole e dalla loro composizione e
disposizione, proprio come fossero uno spartito musicale. Oggi si parla di
“intenzione comunicativa”, dopo tanta incomunicabilità sia in prosa che in
poesia, come in tutte le altre arti, compreso il cinema, ossia la “decima musa”,
la stessa televisione. Ma nei poeti di ultima generazione pare ci sia una sorta
di ritorno al “trobar clus” della poesia trobadorica ed ermetica dei poeti
provenzali del XII-XIII secolo; poesia rivisitata in chiave contemporanea
contro il “trobar leu” della poesia chiara, semplice, scorrevole, che pure ha
una sua ragione d’essere dopo tanto sperimentalismo novecentesco, rivolto a
dare massimo risalto al significante a discapito del significato. Oggi prevale,
come sappiamo, la significazione. Inoltre,
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la poesia
è in grado di “potenziare” ogni attimo che passa, le
realtà e gli eventi più umili e più semplici della vita e del nostro
quotidiano, facendoci discernere ciò che rimane da ciò che ci attraversa.
Grandi poeti del secolo scorso, come Szymborska e Titos Patrikios hanno saputo
esaltare questo potenziamento dell’attimo, o lo stesso Shakespeare. Scelgo come
esempio la poesia “Metrò” di Titos Patrikios: Gli anni
poi passeranno/ masse di monti e pietra si frapporranno/ tutto sarà
dimenticato/ come si dimentica il cibo quotidiano/ che ci tiene in piedi./ Tutto,
tranne quell’istante/
in cui sul metrò affollato/ ti
aggrappasti al mio braccio.
L’attimo
della emozione intensa che si fa perenne memoria. Tutto il resto, sia pure
vitale ma quotidiano, rimane senza storia e senza memoria. “Molto sarà
dimenticato, (…) escluso ciò che ci ha indirizzato (o costretto) a una predisposizione
attiva nei confronti della vita (M. B. Tolusso). Devo questo
bellissimo riferimento al colto e prezioso amico Vito Di Chio. Il sonetto di
Shakespeare, invece, è giocato tutto sul filo dell’ironia, che potenzia e
dilata il senso del gioco linguistico e ne amplifica il significato. “Tu dici”
è il titolo: Tu dici che ami la pioggia,/
ma quando piove,/ apri l’ombrello…/ tu dici che ami il sole,/ ma quando splende
cerchi l’ombra…/ tu dici che ami il vento,/ ma quando tira chiudi la porta…/
per questo ho paura quando dici/ che mi ami.
Anche
oggi, come è facile notare, spazio e tempo sono i miei tiranni. E
soprattutto la mia incapacità di sintesi. Tutto si dilata sotto la lente
d’ingrandimento delle mie elucubrazioni analitiche. Purtroppo per chi mi legge.
Né ho fatto ancora cenno ai versi che parlano d’AMORE, tema di questi ultimi
incontri sul nostro blog. Vado, perciò, a fare degli esempi specifici nei versi
di alcuni grandi poeti italiani contemporanei, prima di parlare anche di noi.
Comincio
con Saba: Quand’eri/ giovinetta pungevi/
come una mora di macchia. Anche il piede/ t’era un’arma, o selvaggia.// Eri
difficile a prendere./ Ancora/
giovane, ancora/ sei bella. I segni/ quelli del dolore, legano/ l’anime nostre,
una ne fanno. E dietro/ i capelli nerissimi che avvolgo/ alle mie dita, più non
temo il piccolo/ bianco puntuto orecchio demoniaco. Betocchi: I fior d’oscurità, densi, che odorano/ dove
tu sei, s’aggirano nell’ombra,/ un’altra luce sento che m’inonda/ queste
pupille che l’ombra violano.// Quale tu sei, non so; forse t’adorano le cose
antiche in me, tutto circonda/ te in un giardino dove i sensi all’ombra/
tornano ad uno ad uno che ti sfiorano.// L’esser più soli, e l’aggirarsi dove/
tu non sei più, od in remota stanza/ dentro il mio petto, quando lento piove//
l’amor di te che oltre di te s’avanza/ forse sarà per questo il dir d’amore/
più dolce dell’amore che ci stanca. Magrelli, ironico, dissacrante,
originale: Tu dormi accanto a me così io
mi inchini/ e accostato al tuo viso prendo sonno/ come fa lo stoppino/ da uno
stoppino che gli passa il fuoco./ E i due lumini stanno/ mentre la fiamma passa
e il sonno fila./ Ma mentre fila vibra/ la caldaia nelle cantine./ Laggiù si
brucia una natura fossile/ là in fondo arde la Preistoria, morte/ torbe
sommerse, fermentate,/ avvampano nel mio termosifone./ In una buia aureola di
petrolio/ la cameretta è un nido riscaldato/ da depositi organici, da roghi, da
liquami./ E noi, stoppini, siamo le due lingue/ di quell’unica torcia
paleozoica. Cardarelli, tra scorrere del tempo e attese amorose deluse: Oggi che t’aspettavo/ non sei venuta./ E la
tua assenza so quel che mi dice,/ la tua assenza che tumultuava,/ nel vuoto che hai lasciato,/ come una stella./
Dice che non vuoi amarmi./ Quale un estivo temporale/ s’annuncia e poi s’allontana,/
così ti sei negata alla mia sete./ L’amore, sul nascere,/ ha di quest’improvvisi
pentimenti./ Silenziosamente/ ci siamo intesi.// Amore, amore, come sempre,/
vorrei coprirti di fiori e d’insulti. M. L. Spaziani, conosciuta a Bari negli anni Ottanta-Novanta dello
scorso secolo e ritrovata a Roma un po’ di anni dopo in un Convegno a lei
dedicato. L’eterna “amica amorosa” di Montale. “Sono venuta a Parigi per
dimenticarti” è una delle tante poesie d’amore a lui dedicate: Sono venuta a Parigi per dimenticarti/ ma tu
ostinato me ne intridi ogni spazio./ Sei la chimera orrida delle gronde di
Notre-Dame,/ sei l’angelo che invincibilr sorride.// Veniamo a patti (il
contadino e il diavolo): lasciami il giorno per guardare, leggere,/ sprecare il
tempo, divertirmi, escluderti./ Notti e sogni, d’accordo, sono tuoi. Altra poetessa
straordinaria da noi tutti molto amata è Alda Merini e la sua “folle” ansia di
amare: Amai teneramente dei dolcissimi
amanti/ senza che essi sapessero mai nulla./ E su questi intessei tele di
ragno/ e fui preda della mia stessa materia./ In me l’anima della meretrice/
della santa della sanguinaria e dell’ipocrita./ Molti diedero al mio modo di
vivere un nome/ e fui soltanto l’isterica (“La ragazza ladra”). Giuseppe Conte (non parlo dell’uomo
politico, ma del poeta) scrive: Sei così
bella questa sera/ così assurdamente felice// che dovrei osare ora, subito/
farti scivolare giù la camicia// larga e bianca attraverso/ cui intravedo il
tuo seno// e prenderti qui nel giardino/ prenderti sino al primo mattino.//
Invece ci siamo appena baciati/ e adesso già fuggiamo via// dicendoci solo: ci
rivedremo./ Ma quando? Dove? Chi ci assicura// che tanta brama domani dura?
Versi sensuali, lirici (i distici), raffinati, nella forma e nel contenuto. Il carpe
diem oraziano ha nuova veste e senso antico. E Raboni, dapprima guerriero d’amore
ed essenziale nei suoi “tanti registri linguistici”, nella seconda parte della
sua vita si converte a una tensione etica che ha per temi la precarietà dell’esistenza
e della morte: Dio sì pietoso che Longino
il cieco/ di tante malefatte mandò assolto/ voglia che insieme in stanza/ con
lei mi giaccia, e per mantenimento/ d’un’antica promessa al dolce lume/ con
baci e risa il bel corpo discopra. E con lui, inevitabile, Patrizia
Valduga, sua ultima compagna di vita e di passione ardente. Con una cifra
erotica tutta sua e con versi che ripropongono la metrica tradizionale in una
insolita rivisitazione, ma propria nostri giorni: Vieni, entra e coglimi, saggiami provami…/ comprimimi discioglimi
tormentami…/ infiammami programmami rinnovami./ Accelera… rallenta…
disorientami.// Cuocimi bollimi addentami… covami./ Poi fondimi e confondimi…
spaventami…/ nuocimi, perdimi e trovami, giovami./ Scovami… ardimi bruciami
arroventami.// Stringimi e allentami, calmami e aumentami./ Domami, sgominami
poi sgomentami…/ dissociami divorami… comprovami.// Legami annegami e infine
annientami./ Addormentami e ancora entra… riprovami./ Incoronami. Eternami. Inargentami.
L’ultimo verso è sublime.
E
mi fermo qui. Ora dovrebbe essere più facile, credo, tracciare un percorso di
trasformazione del linguaggio poetico a cavallo tra gli ultimi due secoli,
anche sullo stesso tema: la passione amorosa, declinata in tutte le sue
innumerevoli accezioni. E potremmo essere pronti a parlare anche degli epigoni
da protagonisti. La prossima puntata sarà tutta di noi e per noi!
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