“C’è qualcosa di
peggio che avere un’anima malvagia. È avere un’anima assuefatta” (Charles
Pegùy).
È una delle due
citazioni che costituiscono l’esergo della poesia “IO” di Raoul Follereau, in
cui l’Autore scrive, facendo riferimento agli “indifferenti”: “Non domando
nulla a nessuno/ e non mi occupo degli altri”.
È il classico
esempio di chi vive la propria vita senza mai pensare agli altri, senza mai
partecipare, condividere, coinvolgersi per intervenire. Dante li definisce “ignavi”
e li condanna a correre, punti dalle vespe, dietro un’insegna.
Quanta indifferenza
e ignavia, soprattutto oggi, anche in un mondo “contro”!
Da una parte, tutti
sono nemici da cui bisogna guardarsi e difendersi. Anche se l’altro è inerme,
povero, senza fissa dimora e senza mezzi per fare minimamente paura, ma è la
sua stessa esistenza, la sua vista, a dare fastidio, a irritare, perché magari
è un minuscolo campanellino d’allarme della coscienza, individuale e
collettiva, che è meglio soffocare. Si chiudono porti. Si innalzano muri. Si lasciano
morire, nel mare, gli altri che non sono “noi”. Si impedisce agli altri, che
non sono “noi”, di scoprire che esistono cieli più azzurri di libertà e di
speranza…
Dall’altra, oltre il
mio “IO”, che non è mai un “me” perché non riesco neppure ad oggettivarmi tanto
sono pieno del mio IO, non c’è nessuno. Basta non guardare per non vedere,
girando lo sguardo per evitare il disturbo di una realtà che potrebbe
contrastare la mia, invaderla, minarla nella sua beata integrità. L’Io pieno,
infatti, si può solo svuotare. L’io vuoto, invece, ci offre la possibilità di
riempirlo. Perciò, è meglio ignorarlo. L’io pieno sa che potrebbe essere
distrutto dall’io vuoto e, quindi, lo evita, fingendo di ignorarne l’esistenza. L'ipocrisia che finge un'assenza.
Ci troviamo, dunque, nel
campo dell’“assenza”, dove fingo che l’altro non esista.
Ma… “Chi è l’altro?”,
si chiedeva Michel Quoist, un apostolo, come Rauol Follereau, dell’amore, in una poesia che non
ho sotto mano ma che ricordo ancora: “L’altro è colui che incontri per strada e
che… ignori”. Più o meno così, ma il senso è questo. L’altro non ha volto né
identità. È nessuno. E non c’è tempo né voglia di guardarlo per scoprirlo,
conoscerlo, sapere di lui. La sua storia. La sua vita. Le sue radici. I suoi
approdi. La sua gioia. Il suo pianto. I suoi sogni. I suoi progetti di vita.
Quanta
ricchezza ci perdiamo, ignorando l’altro!
Siamo due mondi compresenti e
distanti. Indifferenti l’uno all’altro, se l’altro, come me, ignora il mio
sguardo. L’indifferenza annulla presenze e uomini. Annulla sguardi e storie. Azzera
tutto. Non conserva memoria. Non si tinge di nostalgia. Non ha passi verso il
futuro. Non ride con gli occhi dei bambini.
L’Indifferenza è
figlia di due pessimo genitori: L’Assuefazione e l’Egoismo.
La madre è sempre
presa da una sorta di incantamento scettico e lontano per tutto quello che la
circonda e niente riesce a scuoterla dalla sua sonnolenza distaccata; si scuote
per un attimo quando un fatto grave mina la sua serenità e la sua casa, ma è
cosa già vista, già ascoltata e subito ignorata, manca l’aggravante (il pugno
in più, il morto fatto a pezzi, la donna gettata nel pozzo più profondo della
stessa disperazione, la scia di sangue a strangolare il bambino). E così,
pacificata con sé stessa, ritorna nel suo letargo senza sogni.
Il padre ha un ego
ipertrofico che lo fa sentire al centro del proprio angusto universo, oltre il
quale non sa né vuole andare. Anche quando accadono fatti di sangue e di
violenza, di dolore e di morte degli altri, lui preferisce non vedere, non
sentire, non sentirsi coinvolto. Il suo è uno scuotersi breve sul breve
cicaleccio, inutile e infruttuoso, che ne fanno i media, per esecrare e
stigmatizzare l’accaduto, per prendere le distanze e sentirsi al di sopra delle
parti.
E lei, la figlia, l’Indifferenza
si sente assolta e innocente nel suo intoccato torpore, nella sua estraneità ai
fatti.
E la vita va avanti
senza scossoni e senza noie. Senza vivere. Ma l’Indifferenza è indifferente
anche a questo.
Solo la luna, col
suo volto corrucciato, rimane a guardare, vincendo l’indifferenza delle stelle
che, pure, a differenza degli uomini, hanno periodi di rimorsi, abbandonandosi
al pianto. E, in cuor loro sperano, di farsi perdonare, regalando un sogno a
quelli che riescono a guardare ancora il cielo.
E forse potrebbero
realizzarlo, quel sogno, se solo vincessero l’Indifferenza.
Se solo imparassero
a colmarsi d’amore. L’unica forza in grado di costruire sempre senza
distruggere mai.
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