venerdì 1 febbraio 2019

1 febbraio 2019: estasi e tormento dell'Artista

L’Artista ha, come si sa, una sensibilità particolare che lo porta spesso, inconsapevolmente, a guardare le cose, le persone, gli accadimenti non come sono nella realtà, visibile agli occhi di tutti, ma come potrebbero essere se solo venissero guardate con gli occhi bambini che lui ha conservato e ancora possiede, a dispetto di ogni possibile razionalità ad indicargli la via della consequenzialità, della coerenza e della congruenza tra le cose, le operazioni, le dimostrazioni filosofiche, matematiche e geometriche o scientifiche. L’Artista conserva, per esempio, a mio parere, il “fenomeno della trasparenza”, tipico del bambino quando disegna la casa con il tetto spiovente, il fumaiolo, la porta e le finestre (l’archetipo ancestrale della casetta che va oltre l’esperienza di ogni altro tipo di casa: dal grattacielo al palazzo, alla villa), in cui compaiono anche il tavolo, il vaso con i fiori, la lampadina, quasi i muri fossero trasparenti, appunto. Sì, l’Artista vede il mondo “in trasparenza” e moltiplica anche all’infinito le caratteristiche degli oggetti animati e inanimati, come afferma appunto Erich Fromm, il quale sostiene che la creatività, connotazione specifica dell’Artista, non ama il “deja vu” o i modelli. Sollecita a “non copiare mai”, ad innovare, a trasformare, a ricreare il già dato, il già espresso, quanto già costruito e definito. La creatività è infinita e va oltre i limiti posti della natura, da ciò che è. Perché è il “non è” che può diventare ed andare oltre. È l’oltre e l’altrove. Per questo sfiora il divino. Ed è bello pensarlo.
Non ricordo chi abbia detto: “nasciamo dèi, i limiti ci rendono uomini”. Ma è bello pensare che ciò possa avere una radice di verità.
La creatività rompe questi limiti e “ci fa rinascere infinite volte” (sempre Erich Fromm). Perché ogni volta alla stasi della mente subentra l’“illuminazione” di una idea, una intuizione folgorante, imprevista e imprevedibile. Che rigenera chi la possiede in notevole misura e ridà vigore ed energia. Tutti, infatti, siamo dotati di creatività: anche scegliere quotidianamente cosa fare e cosa evitare è un atto creativo. Ma poi bisogna fare i conti con il grado di creatività e l’ambito in cui meglio questa si esercita (vedi la teoria delle “intelligenze multiple” di Gardner che rende estremamente democratica questa facoltà della mente umana). Ecco perché l’intelligenza divergente deve soprattutto essere umile, appassionata, onesta, rispondendo ad un principio teleologico e mai utilitaristico. Anche per essa va vissuta non solo come personale “espressione”, ma come “comunicazione” per essere in sintonia con gli altri. Solo così non si è mai soli. Ma questo non avviene quasi mai con l’Artista puro. L’albatro di baudeleriana memoria ci parla appunto della solitudine delle persone geniali. Più vicino a noi, il romanzo di Paolo Giordano La solitudine dei numeri primi.
La genialità è anche dannazione e perdizione.
Non a caso, per Erich Fromm, la creatività è la capacità di “vedere” e di “rispondere”. Ma “vedere” qui significa non solo prendere visione di una cosa e averne coscienza, ma significa penetrare nel significato e nel senso di quella cosa e “vederla” oltre, in una miriade di sensi e di significati altri (il creativo vede una margherita in tutte le sue possibilità di essere fiore nei diversi suoi stadi naturali, attraverso le quattro stagioni e oltre, con i molteplici suoi significati estetici, scientifici, filosofici, etici, metaforici, e così via).
Il poeta, per esempio, guarda la natura come se fosse la prima volta. Con stupore. Di qui l’importanza di “essere perplessi” perché niente deve apparire ai nostri occhi vecchio, scontato, immutabile.
Uno spirito acuto dei nostri giorni ha affermato che “il genio di Einstein consisteva parzialmente nella incapacità di comprendere le cose ovvie”. Non a caso, a scuola e persino all’Università pare sia stato ripetutamente bocciato.
“Vedere” significa comprendere la realtà completa di una cosa, di una persona, di una situazione. E ciò paradossalmente significa andare ben oltre quello che normalmente si vede con gli occhi. Significa “sentire”, “percepire”, “intuire”. “Capire” talmente profondamente da penetrare nell’inconscio per riportare il significato nascosto della realtà alla coscienza ed esprimerla e comunicarla “ri-creata”. È la stessa realtà, ma è anche un’altra e un’altra ancora.
“Vedere”, allora, significa guardare con gli occhi, pensare con la testa, cioè “prestare attenzione”, sentire con il cuore ossia “concentrarsi” (entrare nel centro delle cose “con”: insieme agli altri, insieme al tutto. E ciò viene definito da alcuni studiosi della creatività: “l’affettività del divino” (la vicinanza amorosa al sacro e, per alcuni, a Dio). Significa “capire con l’anima” che, essendo universale, ci mette in grado di espanderci all’infinito nell’infinito. E smettiamo di essere spettatori e giudici per essere soltanto “essenza vibrante nell’armonia dell’universo” (così avverto e definisco io l’ineffabile sensazione che offre alla nostra sensibilità la creatività).
Tutto questo, allora, ci porta all’“esperienza dell’io” (Fromm): una più ampia e profonda consapevolezza di sé che comporta una maggiore consapevolezza dell’altro da sé, degli altri. Senza confondere con nessun altro l’identità dell’“io sono”, ma comprendendo ogni altro diverso da sé. Perché, come Fromm sostiene, “io sono te senza perdere me stesso, anzi rafforzandomi nel mio io”. E mi rafforzo nella “capacità di accettare il conflitto” (e la tensione) che inevitabilmente l’incontro dell’io con l’altro comporta.
Tutto questo, però, comporta anche una sofferenza maggiore per il poeta o per qualsiasi altra persona creativa e con una sensibilità al di sopra della norma, fino a comprendere la follia dei geni.
Di qui l’estasi e il tormento.
L’esaltante volo e l’abisso. L’incomprensione della gente comune e soprattutto di quanti hanno un pensiero convergente o sono dei razionali ad oltranza. Per questi ultimi due + due fa sempre quattro. Per l’Artista, il poeta o il creativo in genere e soprattutto per il genio è impossibile incasellare la mente in numeri che, a rigor di logica, non possono variare. Di qui la inevitabile incomprensione e la terribile solitudine di chi viene preso per un “diverso” e si sente egli stesso un alieno.
Di qui nascono, a volte, conflitti insolubili con sé stessi e con gli altri
L’accettazione del conflitto è un atto creativo perché ci pone verso l’altro e la stessa vita, non con il nostro “Io” che deve vincere, ma con un “Io” che, per il solo fatto di scoprire ed accettare l’altro diverso da noi o la nostra stessa vita, diversa dalle nostre aspettative, ci dà la possibilità di sperimentare e accettare l’esistenza di una realtà sconosciuta fino a che il nostro “Io” non l’abbia guardata con occhi non più suoi. Ecco perché Fromm dice: “molti muoiono senza essere mai nati, mentre la creatività ci fa rinascere infinite volte”. Per Fromm, dunque, la creatività significa “aver portato a termine la propria nascita prima di morire” attraverso “l’intensa certezza di sé”, pur nella incertezza di sé come essere immutabile. Abbandonare questa certezza significa avere il coraggio del dubbio. E scoprire, con grande fede, che tutto è rivedibile, trasformabile, dilatabile all’infinito. La certezza è la morte della nostra mente. Coraggio e fede sono alla base del pensiero creativo e, quindi, alla base della vita stessa. Educare alla creatività è per Fromm educare alla vita. Ecco perché la creatività è una sfida, non una conquista. E la sfida è perenne tensione, nervi tesi allo spasimo, illuminazione ed esaltazione, buio e disperazione. Ed è da questo disadattamento conflittuale con sé e con gli altri che nascono nuove idee.
      L’esplosione dell’idea avviene, infatti, anche al di là della genetica, dell’ereditarietà
      e dell’ambiente che pure, in qualche modo, condizionano i comportamenti umani.     E, nella storia dell’umanità, nulla sarebbe cambiato dal primo giorno della creazione o dalla comparsa dell’uomo sulla terra, se non ci fosse stato qualcuno che, provando un grave disagio di fronte alla realtà vissuta, non fosse stato capace di “immaginare” (non solo di pensare: il che è diverso) una situazione mai sperimentata in precedenza, “capace di raffigurarsi mentalmente qualcosa che non aveva mai visto prima” (E. W. Sinnot). E che gli altri non riescono a vedere.
L’intuizione, infatti, è quasi sempre o sempre il punto di partenza, a cui spesso seguono gravi conflitti interiori e molte incomprensioni con i propri simili, incapaci di “vedere” una realtà diversa dalla propria, e lunghe ore o intere giornate di intensa fatica per rivedere, riorganizzare, dare forma e completamento a quel “lampo intuitivo originario”, senza il quale probabilmente non ci sarebbe stato un prodotto nato da un processo creativo, sia esso opera d’arte o meno.
L’immaginazione creativa, allora, “agisce soprattutto sul piano mentale dell’inconscio (…) Sembra un discorso piuttosto vago e misterioso…” (Sinnot). 
E, in effetti, lo è. In tutti gli altri casi, l’immaginazione creativa nella sua forma più semplice è caratteristica squisitamente umana. Anzi, è indispensabile persino alla ragione in quanto quasi tutti i processi mentali si poggiano, oltre che sui fatti o fenomeni, su deduzioni concrete, su supposizioni che sono “costrutti dell’immaginazione”. Non a caso, il processo immaginativo nacque quando qualcuno afferrò per la prima volta il concetto del “se”: il dubbio che si trasforma in ipotesi di una alternativa. E il dubbio è sempre destabilizzante, per sé e per gli altri. Ma, poi, basta una “illuminazione” per ricreare l’atmosfera sognante dell’estasi…
      È questo il prodigio della creatività che, alla fine, per fortuna, genera sempre bellezza e armonia. Una sorta di completezza e di pacificazione.
L'Artista e la sua creatività tesa allo spasimo: Dono, dunque, o punizione degli degli dèi?

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