L’Artista ha, come
si sa, una sensibilità particolare che lo porta spesso, inconsapevolmente, a
guardare le cose, le persone, gli accadimenti non come sono nella realtà,
visibile agli occhi di tutti, ma come potrebbero essere se solo venissero
guardate con gli occhi bambini che lui ha conservato e ancora possiede, a
dispetto di ogni possibile razionalità ad indicargli la via della
consequenzialità, della coerenza e della congruenza tra le cose, le operazioni,
le dimostrazioni filosofiche, matematiche e geometriche o scientifiche. L’Artista
conserva, per esempio, a mio parere, il “fenomeno della trasparenza”, tipico del bambino
quando disegna la casa con il tetto spiovente, il fumaiolo, la porta e le
finestre (l’archetipo ancestrale della casetta che va oltre l’esperienza di ogni
altro tipo di casa: dal grattacielo al palazzo, alla villa), in cui compaiono
anche il tavolo, il vaso con i fiori, la lampadina, quasi i muri fossero
trasparenti, appunto. Sì, l’Artista vede il mondo “in trasparenza” e moltiplica
anche all’infinito le caratteristiche degli oggetti animati e inanimati, come
afferma appunto Erich Fromm, il quale sostiene che la creatività, connotazione specifica
dell’Artista, non ama il “deja vu” o i modelli. Sollecita a “non copiare mai”,
ad innovare, a trasformare, a ricreare il già dato, il già espresso, quanto già
costruito e definito. La creatività è infinita e va oltre i limiti posti della
natura, da ciò che è. Perché è il “non è” che può diventare ed andare oltre. È
l’oltre e l’altrove. Per questo sfiora il divino. Ed è bello pensarlo.
Non ricordo chi abbia detto:
“nasciamo dèi, i limiti ci rendono uomini”. Ma è bello pensare che ciò possa
avere una radice di verità.
La creatività rompe questi limiti e
“ci fa rinascere infinite volte” (sempre Erich Fromm). Perché ogni volta alla
stasi della mente subentra l’“illuminazione” di una idea, una intuizione
folgorante, imprevista e imprevedibile. Che rigenera chi la possiede in
notevole misura e ridà vigore ed energia. Tutti, infatti, siamo dotati di
creatività: anche scegliere quotidianamente cosa fare e cosa evitare è un atto
creativo. Ma poi bisogna fare i conti con il grado di creatività e l’ambito in
cui meglio questa si esercita (vedi la teoria delle “intelligenze multiple” di
Gardner che rende estremamente democratica questa facoltà della mente umana). Ecco
perché l’intelligenza divergente deve soprattutto essere umile, appassionata,
onesta, rispondendo ad un principio teleologico e mai utilitaristico. Anche per
essa va vissuta non solo come personale “espressione”, ma come “comunicazione” per
essere in sintonia con gli altri. Solo così non si è mai soli. Ma questo non
avviene quasi mai con l’Artista puro. L’albatro di baudeleriana memoria ci
parla appunto della solitudine delle persone geniali. Più vicino a noi, il
romanzo di Paolo Giordano La solitudine
dei numeri primi.
La genialità è anche dannazione e
perdizione.
Non a caso, per Erich Fromm, la
creatività è la capacità di “vedere” e di “rispondere”. Ma “vedere” qui
significa non solo prendere visione di una cosa e averne coscienza, ma
significa penetrare nel significato e nel senso di quella cosa e “vederla”
oltre, in una miriade di sensi e di significati altri (il creativo vede una
margherita in tutte le sue possibilità di essere fiore nei diversi suoi stadi
naturali, attraverso le quattro stagioni e oltre, con i molteplici suoi
significati estetici, scientifici, filosofici, etici, metaforici, e così via).
Il poeta, per esempio, guarda la
natura come se fosse la prima volta. Con stupore. Di qui l’importanza di
“essere perplessi” perché niente deve apparire ai nostri occhi vecchio,
scontato, immutabile.
Uno spirito acuto dei nostri giorni
ha affermato che “il genio di Einstein consisteva parzialmente nella incapacità
di comprendere le cose ovvie”. Non a caso, a scuola e persino all’Università pare sia stato
ripetutamente bocciato.
“Vedere” significa comprendere la
realtà completa di una cosa, di una persona, di una situazione. E ciò
paradossalmente significa andare ben oltre quello che normalmente si vede con
gli occhi. Significa “sentire”, “percepire”, “intuire”. “Capire” talmente
profondamente da penetrare nell’inconscio per riportare il significato nascosto
della realtà alla coscienza ed esprimerla e comunicarla “ri-creata”. È la
stessa realtà, ma è anche un’altra e un’altra ancora.
“Vedere”, allora, significa guardare
con gli occhi, pensare con la testa, cioè “prestare attenzione”, sentire con il
cuore ossia “concentrarsi” (entrare nel centro delle cose “con”: insieme agli
altri, insieme al tutto. E ciò viene definito da alcuni studiosi della creatività:
“l’affettività del divino” (la vicinanza amorosa al sacro e, per alcuni, a Dio).
Significa “capire con l’anima” che, essendo universale, ci mette in grado di
espanderci all’infinito nell’infinito. E smettiamo di essere spettatori e
giudici per essere soltanto “essenza vibrante nell’armonia dell’universo” (così
avverto e definisco io l’ineffabile sensazione che offre alla nostra
sensibilità la creatività).
Tutto questo, allora, ci porta
all’“esperienza dell’io” (Fromm): una più ampia e profonda consapevolezza di sé
che comporta una maggiore consapevolezza dell’altro da sé, degli altri. Senza
confondere con nessun altro l’identità dell’“io sono”, ma comprendendo ogni
altro diverso da sé. Perché, come Fromm sostiene, “io sono te senza perdere me
stesso, anzi rafforzandomi nel mio io”. E mi rafforzo nella “capacità di
accettare il conflitto” (e la tensione) che inevitabilmente l’incontro dell’io
con l’altro comporta.
Tutto questo, però, comporta anche una
sofferenza maggiore per il poeta o per qualsiasi altra persona creativa e con
una sensibilità al di sopra della norma, fino a comprendere la follia dei geni.
Di qui l’estasi e il tormento.
L’esaltante volo e l’abisso. L’incomprensione
della gente comune e soprattutto di quanti hanno un pensiero convergente o sono
dei razionali ad oltranza. Per questi ultimi due + due fa sempre quattro. Per l’Artista,
il poeta o il creativo in genere e soprattutto per il genio è impossibile
incasellare la mente in numeri che, a rigor di logica, non possono variare. Di qui
la inevitabile incomprensione e la terribile solitudine di chi viene preso per
un “diverso” e si sente egli stesso un alieno.
Di qui nascono, a volte, conflitti
insolubili con sé stessi e con gli altri
L’accettazione del conflitto è un
atto creativo perché ci pone verso l’altro e la stessa vita, non con il nostro “Io”
che deve vincere, ma con un “Io” che, per il solo fatto di scoprire ed
accettare l’altro diverso da noi o la nostra stessa vita, diversa dalle nostre
aspettative, ci dà la possibilità di sperimentare e accettare l’esistenza di
una realtà sconosciuta fino a che il nostro “Io” non l’abbia guardata con occhi
non più suoi. Ecco perché Fromm dice: “molti muoiono senza essere mai nati,
mentre la creatività ci fa rinascere infinite volte”. Per Fromm, dunque, la
creatività significa “aver portato a termine la propria nascita prima di
morire” attraverso “l’intensa certezza di sé”, pur nella incertezza di sé come
essere immutabile. Abbandonare questa certezza significa avere il coraggio del
dubbio. E scoprire, con grande fede, che tutto è rivedibile, trasformabile,
dilatabile all’infinito. La certezza è la morte della nostra mente. Coraggio e
fede sono alla base del pensiero creativo e, quindi, alla base della vita
stessa. Educare alla creatività è per Fromm educare alla vita. Ecco perché la
creatività è una sfida, non una conquista. E la sfida è perenne tensione, nervi
tesi allo spasimo, illuminazione ed esaltazione, buio e disperazione. Ed è da
questo disadattamento conflittuale con sé e con gli altri che nascono nuove
idee.
L’esplosione dell’idea avviene,
infatti, anche al di là della genetica, dell’ereditarietà
e
dell’ambiente che pure, in qualche modo, condizionano i comportamenti umani. E, nella storia dell’umanità, nulla
sarebbe cambiato dal primo giorno della creazione o dalla comparsa dell’uomo sulla terra, se non
ci fosse stato qualcuno che, provando un grave disagio di fronte alla realtà
vissuta, non fosse stato capace di “immaginare” (non solo di pensare: il che è
diverso) una situazione mai sperimentata in precedenza, “capace di raffigurarsi
mentalmente qualcosa che non aveva mai visto prima” (E. W. Sinnot). E che gli
altri non riescono a vedere.
L’intuizione, infatti, è quasi sempre
o sempre il punto di partenza, a cui spesso seguono gravi conflitti interiori e
molte incomprensioni con i propri simili, incapaci di “vedere” una realtà
diversa dalla propria, e lunghe ore o intere giornate di intensa fatica per
rivedere, riorganizzare, dare forma e completamento a quel “lampo intuitivo
originario”, senza il quale probabilmente non ci sarebbe stato un prodotto nato
da un processo creativo, sia esso opera d’arte o meno.
L’immaginazione creativa, allora,
“agisce soprattutto sul piano mentale dell’inconscio (…) Sembra un discorso
piuttosto vago e misterioso…” (Sinnot).
E, in effetti, lo è. In tutti gli altri
casi, l’immaginazione creativa nella sua forma più semplice è caratteristica
squisitamente umana. Anzi, è indispensabile persino alla ragione in quanto
quasi tutti i processi mentali si poggiano, oltre che sui fatti o fenomeni, su deduzioni
concrete, su supposizioni che sono “costrutti dell’immaginazione”. Non a caso,
il processo immaginativo nacque quando qualcuno afferrò per la prima volta il
concetto del “se”: il dubbio che si trasforma in ipotesi di una alternativa. E il
dubbio è sempre destabilizzante, per sé e per gli altri. Ma, poi, basta una “illuminazione”
per ricreare l’atmosfera sognante dell’estasi…
È questo il prodigio della creatività che,
alla fine, per fortuna, genera sempre bellezza e armonia. Una sorta di completezza
e di pacificazione.
L'Artista e la sua creatività tesa allo spasimo: Dono, dunque, o punizione degli degli dèi?
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