L’altro
ieri ho parlato del cielo che ci offre pur sempre uno squarcio d’azzurro anche
quanto nuvole, pesanti come piombo, s’addensano sul nostro capo. Ed è già un
respiro di speranza.
Oggi,
che quelle nuvole sono diventate scure come nella “Tempesta” di Giorgione, oggi
quel cielo mi è piovuto addosso, franando con le lacrime dei rifugiati del
Centro di Accoglienza “Cara”, fatto sgomberare dalla Polizia di Stato. E la
memoria mi riporta ad altri periodi bui della nostra Storia. Noi, esseri umani
alla deriva. Si ha un bel dire: non è la stessa cosa. I tempi sono cambiati e
non si può tornare indietro. Vico ci ha insegnato un’altra teoria. Quella dei
“corsi e dei ricorsi storici”, in cui non sono i casi storici a ripetersi, ma
l’uomo che è, purtroppo, sempre uguale a sé stesso.
Dove,
in questo caso, il cielo?
Ancora
luci ed ombre nel cielo, certo, proprio come stamattina. E ancora sagome scure
di nubi ad attraversarlo. E, ad un tratto, mi accorgo che è un cielo solo
intuito perché è, ancora una volta, coperto e lontano. Troppo lontano per
poterlo afferrare ed offrire agli occhi grandi e innocenti di un bambino. E il
bambino ha diritto al suo cielo azzurro con voli d’aquiloni ad assecondarne la
necessità di spazi e di giochi. Anche i ragazzi hanno diritto ai loro spazi di
libertà. E ancor più i giovani perché hanno più sogni da inseguire, più progetti
da realizzare.
Già
un Campo di Accoglienza ha dei recinti che ostacolano la libertà, impediscono
ai sogni di percorrere un cammino possibile perché possano realizzarsi. E i
bambini, i ragazzi e i giovani, di cui è fatta questa comunità di profughi,
provenienti dalle parti più diseredate del mondo, sognano soprattutto quella
libertà qui negata, che pure appartiene di diritto a ciascun essere umano.
Domani saranno uomini che spezzeranno catene perché un uomo non può essere
profugo a vita. Dovrà pur integrarsi e riconoscersi nella sua dignità di uomo
libero, che appartiene ad una comunità e ad una terra. In cui sentirsi a casa. La
casa: nostro primo bisogno e nostro rifugio per la protezione che ci offre, la
libertà che ci concede. Ma, quando persino questa comunità viene smembrata e
dispersa in nome di una legge, scritta dagli uomini che non conoscono le leggi del
cuore, ma solo quelle dell’utile personale, contrabbandato per bene collettivo,
allora anche quel minimo di libertà viene calpestata e i profughi tornano ad
essere senza volto, senza nome, senza identità.
Si
distruggono sogni e illusioni. Si frantuma il cielo.
Due
giorni fa, parlavo anche di fondali marini dove si inabissa quotidianamente il
cielo, sconfitto ormai dai bambini che giacciono in fondo al mare, come la
nostra vergogna di uomini che fingono di non vedere, di non sapere, di non
essere colpevoli mai, perché i colpevoli sono sempre gli altri, i nemici sono
gli altri.
Ci
sono mille modi per assolversi, ma l’umanità è solo una ed è legata al nostro
comune destino di esseri mortali, che hanno bisogno esclusivamente di
solidarietà e d’amore per attraversare il mare/male della vita, e andare
avanti, facendosi coraggio vicendevolmente e dandosi la mano per non cadere. Un
po’ come la poesia di Rodari insegna: “se tutti i bambini si dessero la mano
farebbero un girotondo intorno al mondo”.
E,
invece, come possiamo vedere dai terribili fatti che stiamo registrando in
questi giorni, a quanti bambini oggi è dato di stringersi la mano per fare un
girotondo intorno al mondo? Persino la voce di un’educatore poeta è stata
oscurata. E non esiste più neppure il cielo per i tanti bambini incolpevoli dei
misfatti degli adulti. Non sempre un bambino è “il luogo della speranza”.
Sempre più spesso è un “non luogo”: un luogo senza.
Sempre
più spesso circolano sui social fotografie della disperazione, vestita con la carne
di un bambino; della tristezza, con il volto triste di un bambino;
dell’impotenza, con le braccia impotenti di un bimbo che non può più giocare.
Alcuni bambini vengono fotografati contro un muro o su un gommone che fa acqua,
dietro un recinto di ferro quasi fossero animaletti o, peggio, belve feroci.
Per creare una maggiore distanza tra un bambino e un suo coetaneo.
Oppure
tra le braccia di sua madre che non sa più dove andare e a quale santo o
diavolo votarsi per sfamare il suo bambino.
Come
si può voltare le spalle ad un bambino e dire “non m’interessa”, “non è colpa
mia”, “non ci posso fare niente”, ed esibire leggi e decreti “salvapoltrone e
prebende” dietro falsi proclami di onestà e scelte coraggiose in favore “del
popolo e della gente bisognosa” e mandare allo sbaraglio centinaia di poveri
cristi, che finiranno davvero per delinquere pur di trovare di che sfamarsi e
sfamare i loro bambini?
Io
trovo ingiusto tutto questo e nessuno può convincermi del contrario. Neppure
chi mi parla di lotta agli scafisti, che vanno condannati e assicurati alla
giustizia. E, se davvero si volesse, oggi i mezzi ci sarebbero. E non devo
essere io, profondamente ignorante in materia, ad indicarli. C’è chi potrebbe
farlo e non lo fa.
E
nessuno mi venga più a dire, con uno slogan, alcuni anni fa, diventato anche di
moda: “nessuno tocchi Caino”. Perché, allora, io urlo: “sì, è vero, nessuno
tocchi Caino fino a quando nessuno più osi toccare Abele. Quanti Caini e quanti
Abeli ci sono in questo nostro mondo desertificato di buoni sentimenti? Quanti
sotto lo stesso cielo che ci vede nascere e morire? E perché Caino deve essere
difeso con la sua mano armata e assassina, mentre nessuno difende Abele, inerme
e fragile e indifeso?
Un
bimbo è un bimbo e non un agnello sacrificale. Un bimbo è un progetto di vita e
non un rimorso. Un bambino è attesa e non memoria.
Un
bambino chiede solo amore.
Restituite
ogni bambino all’amore che gli spetta, ed io restituisco ogni Caino alla pietà.
E facciamo che nessun bambino si trasformi in Caino solo perché è stato privato
dell’amore necessario, e ha conosciuto solo fuga, pericolo, solitudine,
abbandono, povertà, soprusi, paura, dolore, lacrime, malattia, morte: Abele, in
questa atroce disumanità, può trasformarsi in Caino. E in questo caso io non mi
sento più innocente perché non so davvero chi vada salvato per primo.
Ecco
perché occorre prevenire. Non in termini voluti da Caino, che non conosce più
misericordia, ma in quelli attesi da Abele, che è ancora inerme e innocente.
“Pamoja
Tunaweza!!!” (“Insieme possiamo!!!”) era scritto in un campo profughi a Nairobi
in Kenia, alcuni anni fa. E, in tanta tristezza e solitudine, anche di bambini,
era un respiro di speranza. Quello a cui aneliamo in questi nostri giorni di
umanità dimenticata per riscoprire il cielo, con i suoi squarci d’azzurro.
Ci
sarà
Ci sarà mai un’alba giusta,
la legge che sovrasti piccoli
intrighi
o dispiegate ali di falchi
predatori,
e difenda i lenti passi di carni
stracciate
verso il campo di grano
riscoperto,
e la fatica del pane condiviso?
Ci sarà il canto dell’allodola
accanto alla sinfonia
dell’usignolo
a benedire insieme l’universo
dei suoni e delle melodie
dei mattini di sole e l’ombra
delle sere?
Non più la tristezza dei bimbi
falciati
ancora e ancora sulla terra di nessuno
e un solo grido d’orrore levato al
cielo?
Ci sarà un coro di guerrieri
d’amore
a rivendicare, per tutti gli
uomini inermi
e soli e poveri e diversi e mai
estranei e mai
stranieri e mai ignorati umiliati
offesi feriti
calpestati, il nome il tetto il
sogno la dignità?
Su questo suolo livido d’inganni
germoglieranno fiori tra l’erbe
ferite?
Proteggeranno intrecci di mano le
siepi
dischiuse su confini di libertà e
conoscenza?
Oltre le domande e la retorica
d’ogni risposta
ho nell’anima una sola preghiera:
oh Signore di tutte le fedi, solo
Tu puoi,
tra campane a festa e luminarie
diffuse,
ridonare la perduta umanità
all’uomo
e
sorridere al sorriso d’ogni
bambino
fiorito sul cuore rappacificato
del pianeta.
(Ci sarà, ne sono certa, la nostra
prima zolla.
Accenderemo di stelle solchi di
pianto
e trionfo di luce saranno
giustizia e verità).
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