mercoledì 23 gennaio 2019

23 gennaio: Castelnuovo di Porto presso Roma


L’altro ieri ho parlato del cielo che ci offre pur sempre uno squarcio d’azzurro anche quanto nuvole, pesanti come piombo, s’addensano sul nostro capo. Ed è già un respiro di speranza.
Oggi, che quelle nuvole sono diventate scure come nella “Tempesta” di Giorgione, oggi quel cielo mi è piovuto addosso, franando con le lacrime dei rifugiati del Centro di Accoglienza “Cara”, fatto sgomberare dalla Polizia di Stato. E la memoria mi riporta ad altri periodi bui della nostra Storia. Noi, esseri umani alla deriva. Si ha un bel dire: non è la stessa cosa. I tempi sono cambiati e non si può tornare indietro. Vico ci ha insegnato un’altra teoria. Quella dei “corsi e dei ricorsi storici”, in cui non sono i casi storici a ripetersi, ma l’uomo che è, purtroppo, sempre uguale a sé stesso.
Dove, in questo caso, il cielo?
Ancora luci ed ombre nel cielo, certo, proprio come stamattina. E ancora sagome scure di nubi ad attraversarlo. E, ad un tratto, mi accorgo che è un cielo solo intuito perché è, ancora una volta, coperto e lontano. Troppo lontano per poterlo afferrare ed offrire agli occhi grandi e innocenti di un bambino. E il bambino ha diritto al suo cielo azzurro con voli d’aquiloni ad assecondarne la necessità di spazi e di giochi. Anche i ragazzi hanno diritto ai loro spazi di libertà. E ancor più i giovani perché hanno più sogni da inseguire, più progetti da realizzare.
Già un Campo di Accoglienza ha dei recinti che ostacolano la libertà, impediscono ai sogni di percorrere un cammino possibile perché possano realizzarsi. E i bambini, i ragazzi e i giovani, di cui è fatta questa comunità di profughi, provenienti dalle parti più diseredate del mondo, sognano soprattutto quella libertà qui negata, che pure appartiene di diritto a ciascun essere umano. Domani saranno uomini che spezzeranno catene perché un uomo non può essere profugo a vita. Dovrà pur integrarsi e riconoscersi nella sua dignità di uomo libero, che appartiene ad una comunità e ad una terra. In cui sentirsi a casa. La casa: nostro primo bisogno e nostro rifugio per la protezione che ci offre, la libertà che ci concede. Ma, quando persino questa comunità viene smembrata e dispersa in nome di una legge, scritta dagli uomini che non conoscono le leggi del cuore, ma solo quelle dell’utile personale, contrabbandato per bene collettivo, allora anche quel minimo di libertà viene calpestata e i profughi tornano ad essere senza volto, senza nome, senza identità.
Si distruggono sogni e illusioni. Si frantuma il cielo. 
Due giorni fa, parlavo anche di fondali marini dove si inabissa quotidianamente il cielo, sconfitto ormai dai bambini che giacciono in fondo al mare, come la nostra vergogna di uomini che fingono di non vedere, di non sapere, di non essere colpevoli mai, perché i colpevoli sono sempre gli altri, i nemici sono gli altri.
Ci sono mille modi per assolversi, ma l’umanità è solo una ed è legata al nostro comune destino di esseri mortali, che hanno bisogno esclusivamente di solidarietà e d’amore per attraversare il mare/male della vita, e andare avanti, facendosi coraggio vicendevolmente e dandosi la mano per non cadere. Un po’ come la poesia di Rodari insegna: “se tutti i bambini si dessero la mano farebbero un girotondo intorno al mondo”.
E, invece, come possiamo vedere dai terribili fatti che stiamo registrando in questi giorni, a quanti bambini oggi è dato di stringersi la mano per fare un girotondo intorno al mondo? Persino la voce di un’educatore poeta è stata oscurata. E non esiste più neppure il cielo per i tanti bambini incolpevoli dei misfatti degli adulti. Non sempre un bambino è “il luogo della speranza”. Sempre più spesso è un “non luogo”: un luogo senza.
Sempre più spesso circolano sui social fotografie della disperazione, vestita con la carne di un bambino; della tristezza, con il volto triste di un bambino; dell’impotenza, con le braccia impotenti di un bimbo che non può più giocare. Alcuni bambini vengono fotografati contro un muro o su un gommone che fa acqua, dietro un recinto di ferro quasi fossero animaletti o, peggio, belve feroci. Per creare una maggiore distanza tra un bambino e un suo coetaneo.
Oppure tra le braccia di sua madre che non sa più dove andare e a quale santo o diavolo votarsi per sfamare il suo bambino.
Come si può voltare le spalle ad un bambino e dire “non m’interessa”, “non è colpa mia”, “non ci posso fare niente”, ed esibire leggi e decreti “salvapoltrone e prebende” dietro falsi proclami di onestà e scelte coraggiose in favore “del popolo e della gente bisognosa” e mandare allo sbaraglio centinaia di poveri cristi, che finiranno davvero per delinquere pur di trovare di che sfamarsi e sfamare i loro bambini?
Io trovo ingiusto tutto questo e nessuno può convincermi del contrario. Neppure chi mi parla di lotta agli scafisti, che vanno condannati e assicurati alla giustizia. E, se davvero si volesse, oggi i mezzi ci sarebbero. E non devo essere io, profondamente ignorante in materia, ad indicarli. C’è chi potrebbe farlo e non lo fa.
E nessuno mi venga più a dire, con uno slogan, alcuni anni fa, diventato anche di moda: “nessuno tocchi Caino”. Perché, allora, io urlo: “sì, è vero, nessuno tocchi Caino fino a quando nessuno più osi toccare Abele. Quanti Caini e quanti Abeli ci sono in questo nostro mondo desertificato di buoni sentimenti? Quanti sotto lo stesso cielo che ci vede nascere e morire? E perché Caino deve essere difeso con la sua mano armata e assassina, mentre nessuno difende Abele, inerme e fragile e indifeso?
Un bimbo è un bimbo e non un agnello sacrificale. Un bimbo è un progetto di vita e non un rimorso. Un bambino è attesa e non memoria.
Un bambino chiede solo amore.
Restituite ogni bambino all’amore che gli spetta, ed io restituisco ogni Caino alla pietà. E facciamo che nessun bambino si trasformi in Caino solo perché è stato privato dell’amore necessario, e ha conosciuto solo fuga, pericolo, solitudine, abbandono, povertà, soprusi, paura, dolore, lacrime, malattia, morte: Abele, in questa atroce disumanità, può trasformarsi in Caino. E in questo caso io non mi sento più innocente perché non so davvero chi vada salvato per primo.
Ecco perché occorre prevenire. Non in termini voluti da Caino, che non conosce più misericordia, ma in quelli attesi da Abele, che è ancora inerme e innocente.
“Pamoja Tunaweza!!!” (“Insieme possiamo!!!”) era scritto in un campo profughi a Nairobi in Kenia, alcuni anni fa. E, in tanta tristezza e solitudine, anche di bambini, era un respiro di speranza. Quello a cui aneliamo in questi nostri giorni di umanità dimenticata per riscoprire il cielo, con i suoi squarci d’azzurro.     

Ci sarà

Ci sarà mai un’alba giusta,
la legge che sovrasti piccoli intrighi
o dispiegate ali di falchi predatori,
e difenda i lenti passi di carni stracciate
verso il campo di grano riscoperto,
e la fatica del pane condiviso?
Ci sarà il canto dell’allodola
accanto alla sinfonia dell’usignolo
a benedire insieme l’universo
dei suoni e delle melodie
dei mattini di sole e l’ombra delle sere?
Non più la tristezza dei bimbi falciati
ancora e ancora sulla terra di nessuno
e un solo grido d’orrore levato al cielo?
Ci sarà un coro di guerrieri d’amore
a rivendicare, per tutti gli uomini inermi
e soli e poveri e diversi e mai estranei e mai
stranieri e mai ignorati umiliati offesi feriti
calpestati, il nome il tetto il sogno la dignità?
Su questo suolo livido d’inganni
germoglieranno fiori tra l’erbe ferite?
Proteggeranno intrecci di mano le siepi
dischiuse su confini di libertà e conoscenza?
Oltre le domande e la retorica d’ogni risposta
ho nell’anima una sola preghiera:
oh Signore di tutte le fedi, solo Tu puoi,
tra campane a festa e luminarie diffuse,
ridonare la perduta umanità all’uomo
e
sorridere al sorriso d’ogni bambino
fiorito sul cuore rappacificato del pianeta.

(Ci sarà, ne sono certa, la nostra prima zolla.
Accenderemo di stelle solchi di pianto
e trionfo di luce saranno giustizia e verità).
                                           



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