Solo quattro anni fa, a distanza
di circa un anno dalla morte di Maria Marcone, così scrivevo:
“… Insomma, a distanza di quasi un decennio, eccomi qui a scrivere di
Lei. Quasi un impulso. Quasi un richiamo, un comando. Quasi un desiderio. O una
necessità.
Io credo nella invisibile ma reale
comunicazione tra chi continua a vivere e ad amarci in un’altra dimensione e
chi continua a vivere e ad amare in questa difficile tormentata esistenza.
All’invisibile richiamo tra terra e cielo io ci credo. Non siamo fatti noi,
come ci ha insegnato Shakespeare, “della stessa materia delle stelle”? Niente
può andare perduto e dimenticato finché rimane la foscoliana “corrispondenza di
amorosi sensi”, anche oltre la materia e la vita”.
Purtroppo, ad oggi non ho potuto
realizzare il mio e Suo desiderio di pubblicare la raccolta di poesie inedite
“Tempo naufragato… tempo ritrovato” né l’ultimo, inedito, romanzo “L’urlo”,
affidatomi per la pubblicazione da Antonio Ricci, suo devoto e sempre attento
compagno di vita fino alla fine, per via del silenzio dei figli. Silenzio per
me incomprensibile che, però, rispetto.
Il mio intento era, appunto,
restituire a Maria la totalità della sua esperienza artistica, culturale,
letteraria, poetica, umana.
E Antonio, allora, fu prodigo di aiuto e
disponibile, oltre ogni mia previsione, a cooperare con me per la buona
riuscita dell’opera.
A lui va, dunque, ancora oggi che
non c’è più, il mio grazie sentito e profondo per la gioia che mi procurò nell’inviarmi
altre poesie e fotografie di Maria, articoli e recensioni su di lei. Non fece
in tempo, purtroppo, a firmare il contratto che era già nelle sue mani.
E, così, le poesie di Maria e il suo
ultimo romanzo sono rimasti sconosciuti ai suoi tanti lettori ed estimatori.
Per questo, a distanza di cinque
anni dalla sua morte, sono qui a parlare ancora di Lei e della sua scrittura. Per
il grande amore che le porto ancora.
“Anche nelle poesie, del resto,
scopriamo nella nostra Autrice il senso fortissimo della ribellione alle regole
che imbrigliano la sua libertà di persona e, nello stesso tempo, il suo
accettare, senza piegarsi mai, con grande sofferenza e dignità, le leggi
dell’Amore che la rendono capace di “infinita indulgenza” verso gli errori
umani e di “estrema disponibilità” ad accettare l’altro e ad affrontare la
realtà esterna con il coraggio che le proviene dalle sue certezze/incertezze e
dalla sua crescente, anche se estremamente sofferta, fiducia in Dio. (…)
Strane poesie, quelle di Maria Marcone.
Anarchiche come lei. Non seguono i canoni “canonici” del poetare, non hanno una
metrica o una rima. Non si possono collocare in una corrente letteraria. Non
sono ermetiche o sperimentali. Non appartengono ad una scuola né fanno uso, se
non in alcune occasioni, di figure retoriche. Sono, appunto, racconti di sé in
versi. Sono pezzi di diario in righe che vanno spesso a capo, come direbbe Erri
De Luca.
Esse, infatti, hanno un loro
innegabile ritmo proprio per via di quegli spazi occupati dalle parole sul
foglio in modo, solo in apparenza però, arbitrario. Versi spezzettati, che si
dilatano ad occupare visivamente la scena per dare senso e significato alle
parole, già di per sé chiare, lapidarie, forti. Senza ambiguità e senza
simboliche elucubrazioni mentali. Sembrano lanciate nello spazio della pagina
come lapilli incandescenti a ferire, percuotere, bruciare, oppure pietre
impetuose e impietose, massacranti, che colpiscono duramente le coscienze. Ma sono
parole che sanno anche lambire, accarezzare, levigare, quando si trasformano in
onde che avvolgono, in ali che volano e che abbracciano e proteggono. E sempre
senti che seguono il ritmo interiore dei pensieri di Maria, una loro
particolare musicalità. Fascinosa. Trascinante. (…)
Ad un’attenta lettura dei suoi versi che,
zigzaganti, ricamano il foglio, si ha l’impressione che Maria Marcone abbia
inventato un nuovo modo di fare e scrivere poesia. Un modo tutto suo, originale
e catturante.
Giuseppe Lagrasta definisce la scrittura
di Maria “errante” e di “memoria partecipata”. Ebbene, ritengo che queste
splendide definizioni, risalenti ad Italo Calvino, si possano riferire molto
bene e molto di più ai suoi versi.
E sono erranti non solo perché “camminano”
sulla pagina bianca, dimentichi di punti e di virgole, dimentichi di regole e
di freni, dimentichi di “dimenticanze”, ma anche perché fanno un lungo viaggio
all’interno e all’esterno del mondo di Maria, che va continuamente alla ricerca
di sé e degli altri, in maniera spasmodica e accorata, altera e umile, semplice
e complessa”.
Molto tenera, come raggomitolata su sé
stessa e in sé conchiusa è, per esempio, la poesia “Natale” che apre la
raccolta.
Molto significativi gli ultimi
versi.
È buio fuori è freddo/ e non ce ne stiamo dentro le case/ in mezzo
alle luci ai colori alle grida/ E non
sentiamo Gesù che passa
Quanto poetico e accorato
rammarico per una festa che si ripropone ogni anno in famiglia e nelle case,
con tante “luci”, tanti “colori” e tante “grida”, mentre ci sfugge proprio
l’ospite atteso, Colui che passa inascoltato!
“È, però,
nella ‘Lettera ai figli’ che Maria Marcone rivela il suo grande senso di
giustizia e la pienezza della sua umanità, non disgiunti da una cruda visione
della realtà, sempre presente nella sua vita e nelle sue opere, chiedendo reiteratamente perdono ai suoi due
ragazzi per non aver esitato a dare loro il
seme della vita in un mondo violento, rabbioso, indifferente, ingiusto,
dove vige la legge del più forte, dove mafia e razzismo regnano sovrani, dove
la droga è un fiume inarrestabile di dolore e di morte e dove dolore e morte
sono presenze quotidiane incancellabili, inevitabili. Ma, al di là del dolente
senso di colpa, i genitori sono fieri almeno di averli aiutati a costruirsi le
corazze contro ogni male che potrà, malgrado tutto, assalirli e dilaniarli,
mentre loro due saranno sempre pronti con braccia di tenerezza ad accoglierli
per poterli, dopo ogni battaglia, dopo ogni ritorno, saziarli di quell’amore
immenso, di cui essi hanno una sete/
furiosa/ d’amore.
E in questi due ultimi brevissimi
versi c’è tutta la profondità poetica di Maria, la sua grandezza come donna,
madre, persona, scrittrice. E c’è tutta la giovinezza che esplode nei suoi
ragazzi, con la loro carica di incosciente voglia di afferrare la vita e di
andare lontano nel fuoco d’artificio dell’assoluta libertà, ma anche con il
bisogno altrettanto “furioso” di tornare a casa tra braccia/rifugio, che si
protendono e si serrano, sicure e protettive, dove ci sono brandelli di carne
da ricucire, sogni sbrindellati da rattoppare, frammenti di ideali da
recuperare perché essi possano riprendere a volare, fortificati dall’Amore
genitoriale, che oblativamente tutto dona quando si scopre ancora stilla di sangue. E il prendersi cura
dei figli sempre è una realtà di quotidiano insaziato reciproco amore. (…)
Ecco, non ci sono metafore che
possano adombrare la realtà, ma parole come lame acuminate per dire la verità,
nuda e forte e vera”.
Il romanzo inedito, del resto, s’intitola
“L’urlo” e si richiama al grido feroce di Maria in difesa della sua libertà, in
una dichiarazione d’amore totale nella sua esplosione violenta, esasperata,
sincera, quasi gridata a pugnalare e sbrindellare la sua lacerante e lacerata
esperienza di vita di donna creativa, libera, “insolita” nelle sue innumerevoli
espressioni e reazioni.
Spesso è un urlo d’amore nei
riguardi dei suoi cari, preceduto da tutte le feroci proteste contro una madre
matriarca, che avrebbe voluto condizionarla ancora con una cultura d’altri
tempi che Maria aveva sempre mal sopportato e a cui mai si sarebbe sottoposta,
nonostante tutto l’affetto per quella donna che pure aveva avuto una vita
difficile e tanti figli da tirare su da sola come “argano” col carico pesante
da riportare a riva.
Ciascuno deve vivere il proprio
tempo nella maniera più libera e consapevole. Questo è l’assunto primario di
Maria Marcone. E lo ha urlato con tutta sé stessa, e nelle sue furibonde
ribellioni sia in prosa che in poesia. Sempre. Per quell’ansia continua di Maria
di comunicare con gli altri, di protestare contro rapporti che non sono come
vorrebbe, di denunciare ogni atto d’ingiustizia, di ipocrisia, di
sopraffazione.
Lei, così impetuosa, passionale e
appassionata; lei così attenta agli altri, nel rispetto dell’altrui libertà;
lei così pronta ad evidenziare malesseri e contraddizioni per recuperare le
“tessere” perdute della propria esistenza e rimetterle al posto giusto per
salvaguardare la bellezza e l’armonia nel puzzle
scompaginato della sua vita, spesso incrinato dai rapporti burrascosi con gli
altri, con la società, con il mondo intero.
Lei, trasparente come lieve onda
carezzevole alla battigia.
Lei, mare impetuoso con marosi
devastanti in tempeste spaventose e uragani di totale distruzione.
Ecco, il mare è l’elemento
primordiale, in cui Maria si identifica. Molte sono le poesie che cantano il
mare in ogni sua cangiante realtà/verità.
“Ma la poesia che più la rappresenta e la
connota è quella che l’Autrice dedica a sé stessa e in cui si rivolge al suo alter
ego, Alice, quasi fosse la protagonista della stupenda fiaba di Lewis Carroll,
perché come lei s’inoltra nel Paese delle
Meraviglie della creatività e, quindi, per quel che la riguarda, della
scrittura, con rinnovato continuo stupore, struggente passione e infinito
dolore. In ogni parola scritta Maria è sé stessa ed Alice sempre: viva, vera,
palpitante, dolente, umana, divisa.
Sto percorrendo, dunque, le strade
in prosa e in versi del cuore di Maria con lo stupore, il senso di mistero e
l’angoscia che esse offrono all’esploratore dei meandri più nascosti e scoperti
insieme della sua anima lacerata, profonda, tormentata, straordinariamente
umana.
E il mio stupore è grande di fronte
all’altezza e all’umiltà, alla complessità e alla semplicità, alla ribellione e
alla dedizione, all’intensità dei sentimenti di questa donna straordinaria e
straordinaria scrittrice nel dono totale che di sé fa quotidianamente agli
altri, alla scrittura e, infine, a Dio.
Per riscoprirsi continuamente
nella luminosità della sua anima, per arrendersi e consegnarsi definitivamente
a Lui, suo porto sicuro, sua dolce certezza, e non soltanto speranza”.
La scrittura di Maria, in prosa e in
versi, mi ha insegnato tutto questo ed altro ancora, confermando in me la fede,
sempre del resto professata, nella libertà di essere sé stessi e nel sentimento
che tutti ci unisce e ci salva, l’AMORE.
Ed ancora oggi io voglio
ricordarla così: fragile e forte. Autentica sempre.
Come amica. Come donna.
Come scrittrice.
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