martedì 15 gennaio 2019

15 gennaio 2014 - 2019: cinque anni senza Maria Marcone


Solo quattro anni fa, a distanza di circa un anno dalla morte di Maria Marcone, così scrivevo:
    “… Insomma, a distanza di quasi un decennio, eccomi qui a scrivere di Lei. Quasi un impulso. Quasi un richiamo, un comando. Quasi un desiderio. O una necessità.
Io credo nella invisibile ma reale comunicazione tra chi continua a vivere e ad amarci in un’altra dimensione e chi continua a vivere e ad amare in questa difficile tormentata esistenza. All’invisibile richiamo tra terra e cielo io ci credo. Non siamo fatti noi, come ci ha insegnato Shakespeare, “della stessa materia delle stelle”? Niente può andare perduto e dimenticato finché rimane la foscoliana “corrispondenza di amorosi sensi”, anche oltre la materia e la vita”.
Purtroppo, ad oggi non ho potuto realizzare il mio e Suo desiderio di pubblicare la raccolta di poesie inedite “Tempo naufragato… tempo ritrovato” né l’ultimo, inedito, romanzo “L’urlo”, affidatomi per la pubblicazione da Antonio Ricci, suo devoto e sempre attento compagno di vita fino alla fine, per via del silenzio dei figli. Silenzio per me incomprensibile che, però, rispetto.
Il mio intento era, appunto, restituire a Maria la totalità della sua esperienza artistica, culturale, letteraria, poetica, umana.
     E Antonio, allora, fu prodigo di aiuto e disponibile, oltre ogni mia previsione, a cooperare con me per la buona riuscita dell’opera.
A lui va, dunque, ancora oggi che non c’è più, il mio grazie sentito e profondo per la gioia che mi procurò nell’inviarmi altre poesie e fotografie di Maria, articoli e recensioni su di lei. Non fece in tempo, purtroppo, a firmare il contratto che era già nelle sue mani.
     E, così, le poesie di Maria e il suo ultimo romanzo sono rimasti sconosciuti ai suoi tanti lettori ed estimatori.
Per questo, a distanza di cinque anni dalla sua morte, sono qui a parlare ancora di Lei e della sua scrittura. Per il grande amore che le porto ancora.
“Anche nelle poesie, del resto, scopriamo nella nostra Autrice il senso fortissimo della ribellione alle regole che imbrigliano la sua libertà di persona e, nello stesso tempo, il suo accettare, senza piegarsi mai, con grande sofferenza e dignità, le leggi dell’Amore che la rendono capace di “infinita indulgenza” verso gli errori umani e di “estrema disponibilità” ad accettare l’altro e ad affrontare la realtà esterna con il coraggio che le proviene dalle sue certezze/incertezze e dalla sua crescente, anche se estremamente sofferta, fiducia in Dio. (…)
     Strane poesie, quelle di Maria Marcone. Anarchiche come lei. Non seguono i canoni “canonici” del poetare, non hanno una metrica o una rima. Non si possono collocare in una corrente letteraria. Non sono ermetiche o sperimentali. Non appartengono ad una scuola né fanno uso, se non in alcune occasioni, di figure retoriche. Sono, appunto, racconti di sé in versi. Sono pezzi di diario in righe che vanno spesso a capo, come direbbe Erri De Luca.
Esse, infatti, hanno un loro innegabile ritmo proprio per via di quegli spazi occupati dalle parole sul foglio in modo, solo in apparenza però, arbitrario. Versi spezzettati, che si dilatano ad occupare visivamente la scena per dare senso e significato alle parole, già di per sé chiare, lapidarie, forti. Senza ambiguità e senza simboliche elucubrazioni mentali. Sembrano lanciate nello spazio della pagina come lapilli incandescenti a ferire, percuotere, bruciare, oppure pietre impetuose e impietose, massacranti, che colpiscono duramente le coscienze. Ma sono parole che sanno anche lambire, accarezzare, levigare, quando si trasformano in onde che avvolgono, in ali che volano e che abbracciano e proteggono. E sempre senti che seguono il ritmo interiore dei pensieri di Maria, una loro particolare musicalità. Fascinosa. Trascinante. (…)
     Ad un’attenta lettura dei suoi versi che, zigzaganti, ricamano il foglio, si ha l’impressione che Maria Marcone abbia inventato un nuovo modo di fare e scrivere poesia. Un modo tutto suo, originale e catturante.
     Giuseppe Lagrasta definisce la scrittura di Maria “errante” e di “memoria partecipata”. Ebbene, ritengo che queste splendide definizioni, risalenti ad Italo Calvino, si possano riferire molto bene e molto di più ai suoi versi.
E sono erranti non solo perché “camminano” sulla pagina bianca, dimentichi di punti e di virgole, dimentichi di regole e di freni, dimentichi di “dimenticanze”, ma anche perché fanno un lungo viaggio all’interno e all’esterno del mondo di Maria, che va continuamente alla ricerca di sé e degli altri, in maniera spasmodica e accorata, altera e umile, semplice e complessa”.
     Molto tenera, come raggomitolata su sé stessa e in sé conchiusa è, per esempio, la poesia “Natale” che apre la raccolta.
Molto significativi gli ultimi versi.
È buio fuori è freddo/ e non ce ne stiamo dentro le case/ in mezzo alle luci ai colori alle grida/    E non sentiamo Gesù che passa
Quanto poetico e accorato rammarico per una festa che si ripropone ogni anno in famiglia e nelle case, con tante “luci”, tanti “colori” e tante “grida”, mentre ci sfugge proprio l’ospite atteso, Colui che passa inascoltato!    
     “È, però,  nella ‘Lettera ai figli’ che Maria Marcone rivela il suo grande senso di giustizia e la pienezza della sua umanità, non disgiunti da una cruda visione della realtà, sempre presente nella sua vita e nelle sue opere,  chiedendo reiteratamente perdono ai suoi due ragazzi per non aver esitato a dare loro il seme della vita in un mondo violento, rabbioso, indifferente, ingiusto, dove vige la legge del più forte, dove mafia e razzismo regnano sovrani, dove la droga è un fiume inarrestabile di dolore e di morte e dove dolore e morte sono presenze quotidiane incancellabili, inevitabili. Ma, al di là del dolente senso di colpa, i genitori sono fieri almeno di averli aiutati a costruirsi le corazze contro ogni male che potrà, malgrado tutto, assalirli e dilaniarli, mentre loro due saranno sempre pronti con braccia di tenerezza ad accoglierli per poterli, dopo ogni battaglia, dopo ogni ritorno, saziarli di quell’amore immenso, di cui essi hanno una sete/ furiosa/ d’amore.
E in questi due ultimi brevissimi versi c’è tutta la profondità poetica di Maria, la sua grandezza come donna, madre, persona, scrittrice. E c’è tutta la giovinezza che esplode nei suoi ragazzi, con la loro carica di incosciente voglia di afferrare la vita e di andare lontano nel fuoco d’artificio dell’assoluta libertà, ma anche con il bisogno altrettanto “furioso” di tornare a casa tra braccia/rifugio, che si protendono e si serrano, sicure e protettive, dove ci sono brandelli di carne da ricucire, sogni sbrindellati da rattoppare, frammenti di ideali da recuperare perché essi possano riprendere a volare, fortificati dall’Amore genitoriale, che oblativamente tutto dona quando si scopre ancora stilla di sangue. E il prendersi cura dei figli sempre è una realtà di quotidiano insaziato reciproco amore. (…)
Ecco, non ci sono metafore che possano adombrare la realtà, ma parole come lame acuminate per dire la verità, nuda e forte e vera”.
Il romanzo inedito, del resto, s’intitola “L’urlo” e si richiama al grido feroce di Maria in difesa della sua libertà, in una dichiarazione d’amore totale nella sua esplosione violenta, esasperata, sincera, quasi gridata a pugnalare e sbrindellare la sua lacerante e lacerata esperienza di vita di donna creativa, libera, “insolita” nelle sue innumerevoli espressioni e reazioni.
Spesso è un urlo d’amore nei riguardi dei suoi cari, preceduto da tutte le feroci proteste contro una madre matriarca, che avrebbe voluto condizionarla ancora con una cultura d’altri tempi che Maria aveva sempre mal sopportato e a cui mai si sarebbe sottoposta, nonostante tutto l’affetto per quella donna che pure aveva avuto una vita difficile e tanti figli da tirare su da sola come “argano” col carico pesante da riportare a riva.
Ciascuno deve vivere il proprio tempo nella maniera più libera e consapevole. Questo è l’assunto primario di Maria Marcone. E lo ha urlato con tutta sé stessa, e nelle sue furibonde ribellioni sia in prosa che in poesia. Sempre. Per quell’ansia continua di Maria di comunicare con gli altri, di protestare contro rapporti che non sono come vorrebbe, di denunciare ogni atto d’ingiustizia, di ipocrisia, di sopraffazione.
Lei, così impetuosa, passionale e appassionata; lei così attenta agli altri, nel rispetto dell’altrui libertà; lei così pronta ad evidenziare malesseri e contraddizioni per recuperare le “tessere” perdute della propria esistenza e rimetterle al posto giusto per salvaguardare la bellezza e l’armonia nel puzzle scompaginato della sua vita, spesso incrinato dai rapporti burrascosi con gli altri, con la società, con il mondo intero.
Lei, trasparente come lieve onda carezzevole alla battigia.
Lei, mare impetuoso con marosi devastanti in tempeste spaventose e uragani di totale distruzione.
Ecco, il mare è l’elemento primordiale, in cui Maria si identifica. Molte sono le poesie che cantano il mare in ogni sua cangiante realtà/verità.
     “Ma la poesia che più la rappresenta e la connota è quella che l’Autrice dedica a sé stessa e in cui si rivolge al suo alter ego, Alice, quasi fosse la protagonista della stupenda fiaba di Lewis Carroll, perché come lei s’inoltra nel Paese delle Meraviglie della creatività e, quindi, per quel che la riguarda, della scrittura, con rinnovato continuo stupore, struggente passione e infinito dolore. In ogni parola scritta Maria è sé stessa ed Alice sempre: viva, vera, palpitante, dolente, umana, divisa.
Sto percorrendo, dunque, le strade in prosa e in versi del cuore di Maria con lo stupore, il senso di mistero e l’angoscia che esse offrono all’esploratore dei meandri più nascosti e scoperti insieme della sua anima lacerata, profonda, tormentata, straordinariamente umana.
     E il mio stupore è grande di fronte all’altezza e all’umiltà, alla complessità e alla semplicità, alla ribellione e alla dedizione, all’intensità dei sentimenti di questa donna straordinaria e straordinaria scrittrice nel dono totale che di sé fa quotidianamente agli altri, alla scrittura e, infine, a Dio.
Per riscoprirsi continuamente nella luminosità della sua anima, per arrendersi e consegnarsi definitivamente a Lui, suo porto sicuro, sua dolce certezza, e non soltanto speranza”.
     La scrittura di Maria, in prosa e in versi, mi ha insegnato tutto questo ed altro ancora, confermando in me la fede, sempre del resto professata, nella libertà di essere sé stessi e nel sentimento che tutti ci unisce e ci salva, l’AMORE.
Ed ancora oggi io voglio ricordarla così: fragile e forte. Autentica sempre.
Come amica. Come donna. Come scrittrice.    

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