martedì 14 novembre 2017

ANCORA SUL ROMANZO "LA VIA DELLE VEDOVE"

In attesa di pubblicare il mio nuovo libro, Le Piogge e i ciliegi, ormai solo da rivedere, mi piace riportare qui alcune note critiche sul precedente romanzo La via delle vedove, che ha riscosso positivi apprezzamenti dagli “addetti ai lavori” e dai tanti lettori, che mi hanno gratificata anche con il loro passa-parola.
Dopo la pregevole recensione del professor Nicola Pice, ecco quella non meno attenta e dettagliata della docente Valeria Rossini. A entrambi va il mio grazie.


Il romanzo “La via delle vedove”, pubblicato dalla Casa editrice Secop, è stato presentato in diversi circuiti culturali con riscontri assolutamente positivi.
Nel cominciare il racconto l’autrice evoca la metafora della demolizione, attraverso la citazione di un pittore tedesco che dà abbrivio al romanzo: «Io adoro le rovine: quando ci si trova davanti alle macerie significa che si è anche davanti a un nuovo inizio» (p. 5). Da qui parte un viaggio a ritroso nella nostra Puglia come un pretesto, fenomenologicamente inteso come possibilità di tratteggiare un’interpretazione della nostra vita, delle relazioni significative, dei momenti di felicità e dolore che hanno attraversato i nostri giorni e che in questa condivisione rendono universale l’esperienza umana, indipendentemente da chi siamo.
«Ed ecco una storia di tante storie, il cui inizio è un cumulo di macerie» (p. 5). Una storia di una donna anagraficamente entrata nella terza età, che in realtà è la sua seconda vita, in cui il passato non appare più sfocato e le immagini delle persone che ha amato diventano finalmente nitide, anche nel loro non amore. Eva (prima donna) sta tornando all’inferno dei suoi venti anni, uguali e diversi dai vostri venti anni, per riaprire ferite mai rimarginate e abitare la stanza segreta dei suoi fantasmi, delle colpe proprie e altrui.
Leggendo questo romanzo, può nascere il dubbio che l’educazione al perdono che la nostra cultura – soprattutto religiosa – ha sempre considerato la via maestra della convivenza pacifica tra le persone, non sia sempre praticabile… Il perdono è forse l’alibi dei vigliacchi, e il vestibolo della rassegnazione. Il nostro Sud è stato ed è ancora srotolato sulle porte della verità come una tenda omertosa «che tutto nega e tutto accoglie con bocche cucite oltre il bianco abbagliante delle case» (p. 24). Case di donne, dominanti in quanto serve più che padrone, rimpicciolite anche nell’identità, attraverso l’usanza orribile di sostituire con diminutivi orribili anche nomi bellissimi.
Donne con un unico irrinunciabile dovere: rispettare il proprio marito ed essergli fedele fino alla morte. Si badi: rispettarlo, non amarlo.
Le regole implicite che da tempo immemorabile si tramandavano in silenzio le donne, di madre in figlia, recitavano infatti: «giaci a letto con tuo marito, fatti montare, sfornagli figli, ma non amarlo perché è il padrone del tuo corpo, ma del tuo cuore mai» (p. 39). E poi i bambini, che «andavano puniti sempre e comunque, per farli crescere santi, avvezzi alle rinunce e ai sacrifici. Dovevano imparare a non chiedere mai; e i maschietti dovevano trattenere le lacrime ed evitare ogni manifestazione d’affetto, ritenuta debolezza» (p.57).
Tutto questo in evidente contrasto con le teorie psicopedagogiche a cui si fa accenno nel testo, che rendono ancora più inaccettabile la rozza ignoranza di quelle donne, atavicamente infelici, «mummificate nel loro pseudo dolore e nel loro comportamento sempre uguale, sempre cupo, quasi obbedissero ad una legge interna di rinuncia alla vita. Alla sua bellezza. Alla sua armonia. Alla sua leggerezza» (p. 57).
 Non meno infelice era l’atmosfera che caratterizzava l’altro fondamentale ambiente educativo: la scuola, infestata da un’elevatissima mortalità scolastica. I figli dei meno abbienti erano ancora esclusi o si autoescludevano perché era convinzione comune che la scuola fosse una perdita di tempo che sottraeva braccia lavoro alla famiglia.
Non c’era attenzione né giustizia pedagogica per i bambini di allora, discriminati a scuola come bene ha denunciato Don Milani, invisibili in famiglia e indegni perfino di essere pianti da morti. Per i bambini piccoli strappati alla vita nella prima infanzia non era previsto il periodo di lutto di cui erano prova le vesti nere. Sembrava quasi che questi figli non avessero diritto di cittadinanza nel cuore della madre. «Eva si chiede ancora come facessero quelle mamme a ingoiare reiteratamente un dolore così grande. Come potessero mettere al mondo figli in continuazione anche in sostituzione di quelli che dal mondo sparivano come palloncini  persi nelle profondità del cielo. Come si poteva sostituire un figlio?» (p. 95). Niente passava attraverso il cuore, altrimenti non si spiegherebbero i tanti aborti procurati, taciuti e subito dimenticati.
Per fortuna vennero poi il sessantotto e la rivoluzione studentesca, «che avrebbero di lì a poco spazzato via tradizione, pregiudizi e soprattutto la cultura del mazziniano/kantiano “dovere” per inaugurare l’era della rivendicazione dei “diritti”: della donna, del bambino, degli studenti, dell’anziano, degli handicappati, di tutti quelli che, in pratica, non avevano mai avuto diritto di parola fino a quel momento» (p. 106).
Una bella rivincita, tracimata tuttavia poco dopo negli anni di piombo, di cui Eva ricorda la morte dell’innocenza collettiva e della ragione individuale, «perché nessuno seppe più chi fosse veramente con la perdita dell’identità e dell’appartenenza» (p. 109). Restava la vita privata a farle da specchio.
Restano i segreti inconfessabili delle donne della sua famiglia, con i loro indecifrabili lati oscuri e il loro «morire senza essere mai vissute» (p. 183).
C’è un’unica possibilità per Eva. Tornare indietro per andare avanti, ripercorrendo strade battute e sentieri inesplorati. Ecco allora che la riconciliazione passa attraverso la riappropriazione nel presente di ciò che abbiamo tentato di archiviare. Noi siamo il prolungamento della storia della nostra famiglia e della nostra terra, sia pure con inevitabili trasformazioni, ripensamenti e ribellioni. Noi siamo il tentativo di fuga da un groviglio di sentimenti inammissibili sempre in agguato, con cui bisogna prima o poi fare i conti.
Imparando a restare, e a restituire.
Difficile sapere se la protagonista è Angela De Leo, l’autrice, ma in ogni caso Eva resta la testimonianza viva e autentica di come si possa essere fino in fondo maestri di parole e vita, nonostante tutto.

Valeria Rossini


Nessun commento:

Posta un commento