In attesa di pubblicare il mio nuovo libro,
Le Piogge e i ciliegi, ormai solo da rivedere, mi piace riportare qui alcune
note critiche sul precedente romanzo La via delle vedove, che ha riscosso positivi
apprezzamenti dagli “addetti ai lavori” e dai tanti lettori, che mi hanno
gratificata anche con il loro passa-parola.
Dopo la pregevole recensione del
professor Nicola Pice, ecco quella non meno attenta e dettagliata della docente
Valeria Rossini. A entrambi va il mio grazie.
Il
romanzo “La via delle vedove”, pubblicato dalla Casa editrice Secop, è stato
presentato in diversi circuiti culturali con riscontri assolutamente positivi.
Nel
cominciare il racconto l’autrice evoca la metafora della demolizione,
attraverso la citazione di un pittore tedesco che dà abbrivio al romanzo: «Io
adoro le rovine: quando ci si trova davanti alle macerie significa che si è
anche davanti a un nuovo inizio» (p. 5). Da qui parte un viaggio a ritroso
nella nostra Puglia come un pretesto, fenomenologicamente inteso come
possibilità di tratteggiare un’interpretazione della nostra vita, delle
relazioni significative, dei momenti di felicità e dolore che hanno
attraversato i nostri giorni e che in questa condivisione rendono universale
l’esperienza umana, indipendentemente da chi siamo.
«Ed ecco una storia di tante storie, il cui inizio è un
cumulo di macerie» (p. 5). Una storia di una donna anagraficamente entrata
nella terza età, che in realtà è la sua seconda vita, in cui il passato non
appare più sfocato e le immagini delle persone che ha amato diventano
finalmente nitide, anche nel loro non amore. Eva (prima donna) sta tornando
all’inferno dei suoi venti anni, uguali e diversi dai vostri venti anni, per
riaprire ferite mai rimarginate e abitare la stanza segreta dei suoi fantasmi,
delle colpe proprie e altrui.
Leggendo questo romanzo, può nascere il dubbio che
l’educazione al perdono che la nostra cultura – soprattutto religiosa – ha
sempre considerato la via maestra della convivenza pacifica tra le persone, non
sia sempre praticabile… Il perdono è forse l’alibi dei vigliacchi, e il
vestibolo della rassegnazione. Il nostro Sud è stato ed è ancora srotolato
sulle porte della verità come una tenda omertosa «che tutto nega e tutto
accoglie con bocche cucite oltre il bianco abbagliante delle case» (p. 24).
Case di donne, dominanti in quanto serve più che padrone, rimpicciolite anche
nell’identità, attraverso l’usanza orribile di sostituire con diminutivi
orribili anche nomi bellissimi.
Donne con un unico irrinunciabile dovere: rispettare il
proprio marito ed essergli fedele fino alla morte. Si badi: rispettarlo, non
amarlo.
Le regole implicite che da tempo immemorabile si tramandavano
in silenzio le donne, di madre in figlia, recitavano infatti: «giaci a letto
con tuo marito, fatti montare, sfornagli figli, ma non amarlo perché è il
padrone del tuo corpo, ma del tuo cuore mai» (p. 39). E poi i bambini, che
«andavano puniti sempre e comunque, per farli crescere santi, avvezzi alle
rinunce e ai sacrifici. Dovevano imparare a non chiedere mai; e i maschietti
dovevano trattenere le lacrime ed evitare ogni manifestazione d’affetto,
ritenuta debolezza» (p.57).
Tutto questo in evidente contrasto con le teorie
psicopedagogiche a cui si fa accenno nel testo, che rendono ancora più
inaccettabile la rozza ignoranza di quelle donne, atavicamente infelici,
«mummificate nel loro pseudo dolore e nel loro comportamento sempre uguale,
sempre cupo, quasi obbedissero ad una legge interna di rinuncia alla vita. Alla
sua bellezza. Alla sua armonia. Alla sua leggerezza» (p. 57).
Non meno infelice era l’atmosfera che
caratterizzava l’altro fondamentale ambiente educativo: la scuola, infestata da
un’elevatissima mortalità scolastica. I figli dei meno abbienti erano ancora
esclusi o si autoescludevano perché era convinzione comune che la scuola fosse
una perdita di tempo che sottraeva braccia lavoro alla famiglia.
Non c’era attenzione né giustizia pedagogica per i bambini di
allora, discriminati a scuola come bene ha denunciato Don Milani, invisibili in
famiglia e indegni perfino di essere pianti da morti. Per i bambini piccoli
strappati alla vita nella prima infanzia non era previsto il periodo di lutto
di cui erano prova le vesti nere. Sembrava quasi che questi figli non avessero
diritto di cittadinanza nel cuore della madre. «Eva si chiede ancora come
facessero quelle mamme a ingoiare reiteratamente un dolore così grande. Come
potessero mettere al mondo figli in continuazione anche in sostituzione di
quelli che dal mondo sparivano come palloncini
persi nelle profondità del cielo. Come si poteva sostituire un figlio?»
(p. 95). Niente passava attraverso il cuore, altrimenti non si spiegherebbero i
tanti aborti procurati, taciuti e subito dimenticati.
Per fortuna vennero poi il sessantotto e la rivoluzione
studentesca, «che avrebbero di lì a poco spazzato via tradizione, pregiudizi e
soprattutto la cultura del mazziniano/kantiano “dovere” per inaugurare l’era
della rivendicazione dei “diritti”: della donna, del bambino, degli studenti,
dell’anziano, degli handicappati, di tutti quelli che, in pratica, non avevano
mai avuto diritto di parola fino a quel momento» (p. 106).
Una bella rivincita, tracimata tuttavia poco dopo negli anni
di piombo, di cui Eva ricorda la morte dell’innocenza collettiva e della
ragione individuale, «perché nessuno seppe più chi fosse veramente con la
perdita dell’identità e dell’appartenenza» (p. 109). Restava la vita privata a
farle da specchio.
Restano i segreti inconfessabili delle donne della sua
famiglia, con i loro indecifrabili lati oscuri e il loro «morire senza essere
mai vissute» (p. 183).
C’è un’unica possibilità per Eva. Tornare indietro per andare
avanti, ripercorrendo strade battute e sentieri inesplorati. Ecco allora che la
riconciliazione passa attraverso la riappropriazione nel presente di ciò che
abbiamo tentato di archiviare. Noi siamo il prolungamento della storia della
nostra famiglia e della nostra terra, sia pure con inevitabili trasformazioni,
ripensamenti e ribellioni. Noi siamo il tentativo di fuga da un groviglio di
sentimenti inammissibili sempre in agguato, con cui bisogna prima o poi fare i
conti.
Imparando a restare, e a restituire.
Difficile sapere se la protagonista è Angela De Leo, l’autrice, ma in ogni caso Eva resta la
testimonianza viva e autentica di come si possa essere fino in fondo maestri di parole e vita, nonostante
tutto.
Valeria Rossini
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