sabato 25 novembre 2017

LE DONNE DELLA MIA INFANZIA

Nel giorno in cui si parla della violenza contro le donne, mi piace ricordare le donne della mia infanzia, che mi sono rimaste nel cuore.
Le ricordo, quasi tutte, molto pratiche e molto sole. Ma anche molto ingenue. Ignoranti. Analfabete quasi tutte. Non sapevano. E si accontentavano di non sapere. Quasi fosse normale, giusto così. Erano brave massaie. Semplici. Tristi o ciarliere e tutte timorate di Dio. Attribuivano a Lui ogni calamità, ogni malattia, ogni dispiacere. E si rassegnavano alla loro sorte e alla Sua volontà. Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano la vita così come veniva ed anche la loro fede era così come veniva. Senza ribellioni. Senza ripensamenti.
Ho molto amato quelle donne semplici, rassegnate, forse anche scontente, forse anche rancorose, ignare della problematicità dell'esistenza, ma sempre pronte a portare sulle loro fragili (in apparenza) spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio per sé e soprattutto per gli altri, per scongiurare un pericolo, una malattia, la morte. Sempre pronte a darsi una mano.
Donne senza tempo. Senza età. Senza storia. Forse. O, molto più probabilmente, ero io che non sapevo dare loro un'età, che ignoravo il loro tempo, che fantasticavo sulle loro per me inesistenti o inconsistenti storie, che sicuramente erano, invece, storie di lutti, di dolore, di rinunce, sacrifici, silenzi.
Le loro storie. In realtà, solo apparentemente uguali, ma quanto diverse?
Probabilmente erano giovani o quantomeno non molto anziane, ma per me erano tutte irrimediabilmente vecchissime. Nelle loro case vecchissime con i vecchissimi pavimenti di cemento raramente lavati e travi a vista sotto i soffitti, da cui pendevano le carte moschicide (non avevano neppure il tempo di scacciare le mosche) accanto al piatto di vetro plissettato, come una vezzosa gonna, a coprire la smilza lampadina con fioca luce.
E sedie impagliate e madie infarinate e santi e morti sul comò e sui comodini con lampade votive e lumini. E voci di preghiera nella sera.
Andavano in giro coperte alla bell’e meglio con vecchie sciarpe, sferruzzate con lana grezza, che ricordavano vecchi corpi e vecchie stagioni di velli di pecore tosati e di fusi e conocchie tra mani rugose e stanche
(la bella addormentata con il principe a salvarla era una fiaba da loro ignorata).
E quasi tutte quelle donne, ricche o povere, giovani o vecchie, erano vestite di nero per un lutto che non riuscivano mai a dismettere nel cuore e nelle vesti. Tre anni per la madre o il marito, due per il padre, l’intera vita per un figlio…
Erano queste le donne della mia infanzia: molte poverissime e analfabete, pochissime le ricche e istruite. E nessuna proprio nessuna che cantasse mai. Le sentivo cantare solo in chiesa e dietro le processioni e mai mai in casa o per la strada. Troppa miseria e troppo dolore per lasciarsi andare al canto.
Le ho descritte e cantate tutte, sempre, le donne di quel lontano passato.
In mille modi. In prosa. In poesia.
Le tante donne della mia infanzia sono ancora qui, in me. Donne che non fanno storia, che pure hanno vissuto, amato, odiato, riso, pianto, chiacchierato, ubbidito, ricordato, sperato, pregato. Donne lontanissime nel tempo e a cui tento di dare una storia perché non si perdano del tutto nel loro tempo.
(Potere della memoria e della parola scritta. Ma potere anche della fantasia che a quella memoria aggiunge parole mai dette e vite mai vissute.
La narrazione fa rivivere il passato e appaga la mia gioia di raccontare…).
Scrivere vuol dire farsi eco di ciò che non può cessare di parlare…” (Maurice Blanchot)
Oggi, è vero, di loro non rimane che un labile ricordo. Diafano. Trasparente. Vago. Lontano. Incerto.
Rimane in chi, come me, ha anni addossati agli anni e vive e rivive anche il passato cercando di riattualizzarlo nella memoria perché non muoia del tutto. 
Ma neppure il ricordo serve a riportarle ai nostri giorni. Sono anacronistiche. Sono distanti anni-luce dai modelli che le ragazze amano, seguono, contestano. Sembrano vissute invano e, quindi, non vissute. Si perdono in quella caligine oscura che il passato trasmette alla mente di chi c’era. Erano solo croci su croci: una croce, il marito; una croce, i tanti figli nati e altri da mettere al mondo “come conigli”; una croce, ogni dolore muto, ogni ribellione repressa, ogni parola ingoiata. Una croce, l’unica identità come firma da apporre sui rari documenti che affermavano civicamente il loro essere al mondo.
                                                   Spreco di vite
Davvero inutili? Non voglio crederlo. Non posso crederlo. Distruggerei quella gòmena d'amore e di rapporti che ha legato e lega le generazioni al femminile perché non si perda la storia dell'umanità.
Per questo io amo ricordare e raccontare lacerti di storie che la mente mi restituisce a tratti, e volti e nomi e parole, sottraendoli alla dimenticanza.
Rimpasto quelle donne per farle rivivere…

(sono brevissimi stralci dei tanti che riguardano quelle donne tradite dalla storia e vinte da una cultura che le voleva serve, mentre erano padrone di sé e dei loro giorni per la forza titanica dimostrata nelle loro case, prive degli uomini andati in guerra, e affollate di bocche da sfamare per sopravvivere…  brevissimi stralci, dicevo, tratti dal mio libro di prossima pubblicazione Le piogge e i ciliegi). 

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