domenica 12 novembre 2017

Sul romanzo "LA VIA DELLE VEDOVE" di Angela De Leo

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Una premessa. Il romanzo si apre con una dedica al Salento, terra di sole, di mare e di vento, sotto la dedica la riproduzione di un quadro, che si dice incompiuto, ma forse non lo è: una Controra dell’indimenticato Nicola Parisi, con le case cubiche ricoperte di un bianco calce che degrada sino a dissolversi, mentre in primo piano sono ritratte in confidenziale conversazione due donne di nero vestite, come inchiostrate da una densa oscurità, dai volti volutamente indefiniti, volti senza volti. Alle loro spalle il tempo sembra dilatarsi per ricercare e comprendere le cose che più stanno a cuore. Insomma il quadro appare come un dramma in atto in quel gioco di contrasto bianco-nero e in quel voler produrre uno stato di malinconica nostalgia. Segue nella pagina successiva una affermazione di Anselm Kiefer, un pittore tedesco che da bambino amava divertirsi a giocare con i mattoni delle case bombardate: da un lato le rovine, dall’altro la convinzione che esse sono un nuovo inizio dopo ogni distruzione. Di qui il sotterraneo convincimento che serpeggerà nel romanzo che la speranza non muore mai, essa è una virtù bambina e traccia sicura un cammino vibrante verso il futuro. E se nei quadri di Kiefer uomini e donne appaiono raramente come se risucchiati dal passato stesso, e tutto si riempie di tinte cupe e terrose, crettature e stratificazioni, per Angela De Leo la lezione di Vittorio Bodini è fondamentale e ci deve essere una ragione se nel campo del prologo essa decide di riportare alcuni versi tratti dalla poesia “Conosco appena le mani” contenuta nella silloge Metamor (1962).
Ma se il poeta cantore del nostro Sud sceglie di andar via dalla sua terra, non sapendosi dare pace, e brucia i suoi ultimi anni in una condizione di morte attesa come liberazione, a me pare che il romanzo di Angela sia una risposta, la sua risposta, agli interrogativi di Bodini, ed è una risposta alla domanda che spesso agita le nostre coscienze: che ne è delle nostre memorie, dei nostri affetti, delle nostre letture, delle nostre emozioni? Che ne è? Che ne è stato? E soprattutto qual è il senso di tutta questa strada percorsa, di tutta questa vita vissuta? No, non possiamo dimenticare, non vogliamo dimenticare. Così tutto ciò che sembra essere infinitamente lontano, può tornare ad essere sentito come vicino in quanto parte del proprio vissuto, che non può raggrumarsi nel terribile vuoto della dimenticanza, ma occorre risvegliarsi dal sonno della noncuranza e della indifferenza, occorre saper ricercare il riscatto e non scoprirsi solo esseri che sentono freddo. E come la mitica via de Angelis per il poeta Bodini è stata una sorta di microcosmo, una sineddoche del mondo, un antro della memoria, una dimensione di spazio e condizione di sé e in essa si viene a determinare il miracolo della scoperta della realtà e della sua esperienza, così la casa di nonna Sabella diventa per Angela un miscuglio di oggetto e di mito, di realtà e di fantasia, di presente e di memoria, un insieme che sa di mistero e di favola, di profonda partecipazione e di disincantata ironia, di tristi condizioni umane e sociali, di volontà di riscatto e di sogni perduti in una irredimibile infanzia. Anche se quella casa non esiste più, essa vive nella nostalgica memoria: è scomparso “il giardino retrostante che un tempo respirava il giorno con alberi di limoni, fichi, melograni e vasi di fiori, gerani, begonie, belle di notte, donne in camicia, gigli rossi e bianchi. Sono rimasti rari cespugli di rose selvatiche a boccioli piccoli di un rosso vivo a formare macchie di sangue sul bianco di calce dei brandelli di muro. E col giardino spento è sparito anche l’orto rigoglioso un tempo di piante aromatiche, basilico, prezzemolo, salvia, rosmarino, alloro e diavulicchi di tutti i tipi, lunghi, rotondi, a campanella”. Ma questo luogo descritto nel romanzo a me ricorda quello della casa dei nonni della scrittrice. Come a voler dire che la cifra stilistica del romanzo non escluderà la dimensione autobiografica e ancor più la dimensione lirica.
Il romanzo di Angela De Leo, oltre che per l’originalità della struttura narrativa e per l’abilità di scandagliare a fondo nella psiche umana, difatti s’impone anche per la densità di uno stile fortemente elaborato e carico di accenti lirici.
“Era la prima a respirare il mare, a farlo entrare col suo rumore, col suo odore, col suo colore nel giardino e, dalle finestre spalancate, nelle stanze e negli occhi, nelle orecchie, nelle narici, nel cuore. E lei aveva imparato ad amare il mare da quelle finestre spalancate sul mare, da quell’azzurro che si riverberava sul suo letto, da quella nenia tenera o spaventosa che riecheggiava nel giardino, mescolandosi al lamento del vento, alla danza dei rami e delle foglie nelle albe ancora prive di sole o nelle notti ancora colme di stelle”.
Ed io credo che vada sottolineata la dimensione lirica che attraversa l’insieme delle tante storie di cui si compone e in cui si collocano ricordi, legami, emozioni, pensieri, che la memoria riordina per andare in cerca della propria identità. È così che la vicenda narrata, benché non rifugga da analisi sociologica e comprenda risvolti psicologici interessanti, di particolare rilevanza e spessore, da autobiografia si fa biografia collettiva, da racconto di una vita, che è quella della protagonista, si apre verso lidi più lontani e ingloba conoscenze più profonde. Il filo rosso, che collega immagini e volti, emozioni e suoni, stati d’animo sospesi e inafferrabili, è tenuto sempre sospeso dalla scrittrice, se pur essa sembra voglia utilizzare la tecnica della Ringkomposition, ovvero la struttura ad anello, e una volta avvenuto lo spostamento del piano temporale, dal presente al passato, la mente dell’io-narrante si “perde” nella narrazione del viaggio della vita alla ricerca di un tempo disperso nella memoria, spesso evocato attraverso i flussi della coscienza, per un avvertito bisogno di dare senso alla propria esistenza, magari in cerca di risolvere il suo enigma che poi si rivelerà foriero di conoscenze e di verità: il segreto aguzzino, che la tiene in ostaggio “all’inferno dei suoi vent’anni”, diventerà il punto di partenza da cui ripartire per costruire una nuova strada di libertà di pensiero, di azione, di sentimenti, emozioni e desideri non solo per se stessa, ma anche per tutte le donne tenute in ostaggio dai condizionamenti ambientali, familiari, culturali, religiosi, storici. Insomma “un sogno di luce che nella luce muore”. Una storia di una donna, dunque, che scorre lungo spazi e tempi differenti, e si riannoda alla storia delle altre, quelle altre donne a cui spesso la libertà era stata negata e la forza della marginalità era diventata la sponda della loro esistenza tutta espansa tra squilibri e ingiustizie, rimorsi e nostalgie. Sono le donne che affollano la via delle vedove, “donne con abiti neri lunghi fino alle caviglie, coperte da pesanti calze nere, come tanti corvi neri con labbra concave su bocche sdentate e parole di pianto e di lamenti, lugubri come quello degli uccelli nei cimiteri”, “donne che restano impassibili e mute al funerale dei loro uomini, donne alleate in un unico segreto e nemiche per quell’unico segreto, donne capaci di tutto perché tutto alimentavano con l’odio crescente verso uomini ignari e colpevoli; per il loro inconsapevole maschilismo, perché figli di una cultura retriva e priva di orizzonti più ampi, per la loro incapacità di guardare negli occhi le loro donne, accontentandosi di saziarsi dei loro seni e delle loro cosce (…) come innocenti, vittime più che assassine, si ritenevano dopo ogni aborto vissuto nella complicità estranea e silenziosa della mammana, che buttava giù le tante gravidanze indesiderate con il chinino in abbondanza e i ferri per lavorare le calze di lana piantati nei loro ventri”: sembra una pagina del famoso Ernesto De Martino, l’antropologo che vedeva la miseria culturale della società meridionale come specchio di una miseria psicologica determinata a sua volta da condizioni storico-sociali imposte all’intero Mezzogiorno da un regime di subalternità plurisecolare. E la conferma che nel romanzo ci sia un’eco evidente del grande studioso è in questa citazione che sembra voler evocare il titolo dell’opera sua più nota: “Ed è nel mosaico di un sud baciapile e asfittico, inconsapevole e rassegnato, che vanno a collocarsi le tessere delle storie consumate nella “via delle vedove” per poter meglio comprendere il loro senso e significato. Storie di vesti nere come lutto eterno, soprattutto nei paesi dell’eterno rimorso”. Sul filo della memoria riaffiorano così i sussulti di orgoglio e il tenace attaccamento alle tradizioni, la volontà e l’ansia di progettare un futuro diverso, senza mai smarrirsi. Questo trascorrere del passato si fa misura dell’anima, e della pioggia battente che diventa metafora di nuovo giorno: “un giorno di pioggia che lava tutto e tutto rinnova. Fa nascere l’erba e fa fiorire i prati”, il segno del passaggio dal vecchio al nuovo mondo, “dalla inconsapevolezza delle vesti nere alla coscienza di sé come donna finalmente libera da tutti gli oscurantismi e da tutti i pregiudizi”. Il buio dei vicoli stretti e tortuosi dell’umano esistere può colmarsi di nuovo sole e riempirsi di nuove speranze e di nuovi sorrisi.
Questa narrazione per frammenti di memoria, che grazie alla fluidità dei vari pensieri si dispongono ora secondo un ritmo lento, ora secondo un ritmo più andante se pur sempre lineare, si risolve in un viaggio dentro un tempo che non c’è più e continuamente si arricchisce di finissime sensazioni che sono fondamentalmente fuse come note che si giustappongono in una partitura musicale per creare un’armonia, sia attraverso la evocazione del paesaggio del Salento con la sua luce, i suoi suoni e respiri, indistinti e confusi; sia con l’impiego di locuzioni e frasi dialettali che danno una coloritura più veristica a cose e persone al fine di meglio penetrare nella loro più intima dimensione.
Un’ultima considerazione. La ricchezza della lingua, che ha un suo indubbio fascino e si fa luogo in cui avvengono esperienze significative di conoscenze o di emozioni, la lingua ricca, appunto, spiega ulteriormente il pregio di questo romanzo. Angela conosce e ama la letteratura, e ci invita ad amarla. Per noi amare la letteratura significa credere che i personaggi del libro che stai leggendo sono lì, vivi e parlanti vicino a te, col loro mondo e i loro problemi, e a me sembra proprio che i personaggi di questo romanzo siano vividi appunto come vivido è lo stile della scrittrice.
                                                                                                   Nicola Pice

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