venerdì 28 marzo 2025

Venerdì 28 marzo 2025: LUIGI LAFRANCESCHINA e le sue poesie tra pensieri e ricordi...

È da parecchi mesi che il libro DOPPE LA VENNEGNE: PENZIIRE E ARRECURDE - DOPO LA VENDEMMIA: PENSIERI E RICORDI - del mio carissimo amico “dei migliori anni della nostra vita” (Renato Zero) è sulla mia scrivania in attesa. Io l’ho letto più volte, fino a farmelo amico, anche perché spesso ho ritrovato me stessa, i tanti ricordi del passato, quando, avendo vissuto la stessa infanzia e adolescenza negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, avevamo più o meno accumulato le stesse esperienze di vita. All’ombra anche della vendemmia e della sua fatica che si trasformava in festa, come festa dell’allegria, che sostituiva i nostri pensieri, non sempre chiari e luminosi, come capita appunto durante l’infanzia per una sorta di ignoranza del mondo, e l’adolescenza, l’età della “crisi di identità”. E di ogni altra crisi, non sempre certificata, ma comunque vissuta con malumore, ribellioni ai genitori e agli insegnanti, al mondo adulto in genere, persino ai primi inconsueti palpiti del cuore. E dubbi e incertezze, e ostinati silenzi, per una pace mai fatta tra un corpo che cresce e una mente che non lo accetta, perché non riesce a prendere la giusta misura della distanza tra sé e gli oggetti, le cose, gli altri, il mondo… Crisi soprattutto della “identità sessuale” con il “complesso di Edipo” e di “Elettra” sempre in agguato. Fino all’identificazione con il genitore del proprio sesso, nel più semplice dei casi.

A quegli anni, dunque, risalgono i nostri ricordi tra un pizzico di nostalgia e un senso di maggiore appagamento per la scoperta di una realtà più completa e veritiera di noi. E così in Luigi si sovrappongono e si distendono i pensieri per ricordare, con i suoi versi: il padre, la madre, e poi la Murgia, con le piante, gli arbusti, gli animali, la natura a dargli il sapore di una realtà altra, che non era la propria casa ma sinfonia murgiana, dove si trascorrevano i giorni non nell’ammirazione di ferule e lumache d’alabastro, ma nella disperazione delle “toppe al sedere”, “dello stomaco sazio di fame”, delle piogge e del sole, del desiderio inappagato di andare al mare, salvo a scoprirlo nella distesa di campi in fiore, Un mare verde di vigne/ solcato da barche di ulivi e di mandorli/ E mi sembrava un mare più bello/ Del mare delle vele e dei pesci!

E i ricordi abbracciano anche le cose della vecchia casa: ci sopravvivono le cose, certo, ma giunge il tempo, se si sopravvive al tempo, della “consolle tarlata”, delle “sedie di Vienna” azzoppate dagli anni e dai malanni dovuti alla muffa, che non perdona. Il tempo di quando neppure noi riusciamo a perdonarci, perché il pendolo  

 ha voce arrochita per il dolore di registrare continue assenze, che mai più ritornano.

Pure rimane intatto il “baule dei ricordi” da consegnare al figlio, “Perché non dimentichi!”.

E, così, il tempo dei rimpianti si veste di altri ricordi non sempre piacevoli da ricordare: il tempo delle piogge e delle bestemmie del padre, uomo infaticabile fino a sentire il sonno piegargli le ginocchia e rimanere sveglio per lavorare ancora per via dello scarso cibo da portare a casa e la moglie brontolona per un bucato che stenta ad asciugare; la lotta quotidiana ai pidocchi che scorribandavano nelle case di tutti, ricchi e poveri, nonostante i drastici rimedi, che potevano risultare più pericolosi dei pidocchi stessi; e lungo la via stenti, errori, inciampi… distacco doloroso dalle radici/ E dal mio paese natio/ Preghiere e bestemmie in proporzione/ Tristezze improvvise… Risate col contagocce

Ma alla fine la gioia di tre nipotini… E, tra crediti e debiti/ È stato difficile tenere/ Il bilancio alla pari!/ Perciò quando vado dal Padreterno/ Mi rimetterò alla sua benevolenza.

Sono le ultime poesie dei ricordi, poi ecco quelle che mettono a fuoco le caratteristiche connotanti le quattro stagioni da lui vissute a seconda del tempo, della giornata e dell’umore, per giungere a quella presente che tutte le ingloba. E ci regala le poesie che lo accompagnano oggi e che gli danno ormai una nuova dimensione di sé, nel ricordo di ciò che non è passato del tutto e ancora si riverbera nei giorni presenti, familiarizzando con gli attimi vissuti con maggiore gioia e pienezza di sé, anche perché ha accanto il dono di una donna meravigliosa che lo fa sentire vivo e grato (vedi U PRIISCE, ossia LA FELICITA’).

Incontriamo anche con tenerezza un meraviglioso inno alle scarpe (alla stregua di Neruda e i suoi Inni a tutto ciò che nella quotidianità sembra trascurabile, ma trascurabile non è); attimi d’incanto e di preghiera, alternati a momenti più cupi nel ricordo di passate stagioni e del buio di quelle presenti, delle lunghe notti da vivere nella pece senza pace, onestà, dignità: valori praticati per un’intera vita, oggi senza difese. Ignorati, calpestati, derisi. Mummificati.

Per fortuna, gli corre in soccorso, sempre, la Poesia che gli permette ancora di volare…

Il libro si chiude qui, ma non la scrittura poetica di Luigi Lafranceschina, che in questi ultimi anni l’ha rinnovata in un dialetto-italianizzato, ossia “mescidato”, in cui è facile incontrare nella lingua dei padri un linguaggio più attuale e nella traduzione dei figli le parole vecchie-nuove che si mescolano in un intreccio quanto mai insolito, interessante, sorprendente. Eccone un esempio. Titolo “QUANDO MENO TE L’ASPETTI”: La guerra era nei libri di storia/ E di botto te la ritrovi in casa/ Quando meno te l’aspetti!/ Un mattone che ti cade sulla testa/ Una notizia che ti intossica le ndrame/ Un chiappo che t’affoga/ Un chiancone che ti pesta l’alluce/ Un cazzotto in un occhio/ Una pugnalata al cuore/ Un dente cavato senza addubbio/ Una lancinante colica renale/ Lo scatascio di un ponte sotto i piedi/ Un tramoto che ti scoffola la casa./ E tutto di botto/ Quando meno te l’aspetti!/ Una carogna infame la guerra/ E forse e senza forse qualcosa di più/ Di una sciagura di un cataclisma/ Di vetri in frantumi di pareti sfraganate/ Di un inferno di corpi su corpi ammucchiati…/ E allora apri gli occhi e le orecchie figlio/ Nelle tue mani il tuo domani/ Che la guerra è un diluvio universale/ E manco un’arca di legno a salvarti/ La guerra oggi è la fine del mondo/ E manco un’anima ad accenderti un cero!

E non è soltanto un fatto di lingua e di linguaggio, ma è soprattutto un groppo in gola per la sorte del figlio in un mondo violento e ottuso ad ogni richiamo al buon senso, e per la tragedia della guerra in sé per sé. Nella consapevolezza della inevitabile distruzione del nostro pianeta e della umanità tutta.

Ma, per fortuna, di generazione in generazione, tutto è nuovo e tutto si ripropone.

E Tutto ricomincia anche per Luigi Lafranceschina, con una creatività della mente e del cuore che non conosce stagioni…

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