Ancora una giornata di pioggia battente, dopo i temporali e il vento a schiaffeggiare i giorni scorsi. Ancora acqua a mescolare ricordi e lacrime. Il 2000 fu per noi l’ultima estate serena. Eravamo, come da anni ormai, in un villaggio chic a pochi chilometri dalla bellissima Otranto, terra di martiri e di mare, terra di riproposti incanti nelle stradine di souvenir e memoria amara di turchi e saraceni. E poi ancora altre rive e tramonti in quella penisola di vento e d’ulivi baciati dal sole, nella più grande penisola dalla caratteristica forma di uno stivale, la nostra bella Italia, che il mondo attraversa, percorre, invade e invidia.
Ma, con le prime piogge d’autunno, il cielo si coprì di nembi e di bui
giorni alla deriva: Anna Maria e la necessità di un intervento a cuore aperto.
E mamma e Gianni e le figlie sempre con lei. A pregare per il suo ritorno a
casa. Io, in un’altra clinica a Roma, dove dovemmo ricoverare Ombretta per il
suo ricorrente problema da malattia autoimmune, a pregare con il suo ragazzo
perché tornasse a casa, dopo mesi di terapia sbagliata e corsa in un altro
centro nel tentativo di salvarla.
Lo stress piegò la delicata
fibra di mamma e si era ormai a dicembre del nuovo millennio.
2001, perciò, segnò il devastante addio che ci vinse solo un anno e
pochi mesi dopo quel Capodanno, che incise a caratteri cubitali nella Storia il
primo anno di un nuovo secolo a regalarci illusori refoli di risorte umane
utopie.
Perdemmo mamma, in un lago di disperata corsa al suo sorriso. La perdemmo
in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e profondi abissi di
nuove speranze e nuove disperazioni. Mamma. E il suo sguardo sempre più dolente
e malinconico. Pensieroso e stanco. E l’ultimo nostro Natale e l’ultimo
Capodanno, ventiquattro anni fa, vissuti insieme in quella che era stata la
nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una villa bellissima al centro
del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui fanno capo Isabella e Nicoletta
con la loro nidiata oggi di adolescenti, nati negli anni, dopo i suoi ultimi
sorrisi. Tutti nella tua casa senza più il gelso e con poche rose ma con tanti
altri alberi e fiori… e voci e lacrime e allegria e tenerezze di giorni e di
anni… Nicole (figlia di Isabella e prima nipotina di Anna Maria), oggi una
dolce e sensibilissima ragazzina che, da bimba, era tutta baci da afferrare con
le dita e depositare nel cuore… e il bellissimo Francesco, silenzioso e
determinato ad essere vincente nello studio e in tutte le sue passioni sportive
e tanto altro. Poi, i figli di Nicoletta: Sofia, splendida adolescente che sin
da bambina aveva mille parole tra le labbra e mille acquerelli tra le dita… E suo
fratello Andrea, che somiglia tanto a mio figlio Giuliano. Stessi occhi grandi
e sornione sorriso. Ma allora allora allora…
Allora, nel tempo perduto nel tempo dei rimpianti, fu tempo di lacrime
per tutti noi, sopravvissuti a tanto strazio; lacrime, nascoste maldestramente
tra ciglia di dolore per un mostro tentacolare che si era ripresentato dopo
anni di quiescenza e di tranquilla certezza di averlo debellato per sempre. Senza
gravi danni per la sua salute. Mamma. E il suo andare, volto preoccupato e passo leggero e il cappellino verde
di morbida lana a incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua
compagna di vita ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un
mago della chirurgia oncologica.
Furono tre mesi altalenanti di notizie mai chiare mai scure.
E la decisione di
raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina in volo sulla
corsia di sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna Maria
impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando
lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E
Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo
compleanno. Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore.
Mamma era lì, inerme e
sperduta, spaurita e gracile, dopo due interventi che ci dissero risolutori,
ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e bianche rose d’ogni
mese ornavano il viale che portava alla sua camera al pianterreno di
quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo vederla prima che
ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e teneramente
aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di riabbracciarci con
mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in segno di saluto ed
erano affaticate farfalle in lento volo. Pioveva anche in quei giorni di ansia
e di paura. Una pioggia né buona né cattiva, una pioggia d’attesa… Poi…
improvvisamente il sole! La sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché
potesse lasciarsi riscaldare dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma
lei rimase con occhi vuoti senza guardarlo. “Mamma, hai visto? C’è il sole! È
finalmente una bella giornata!”. Silenzio e occhi spenti. “Mamma, possibile che
non ti rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”.
Silenzio e occhi
spenti. “Ma come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio
di sole dopo tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si
astenevano. Silenzio e occhi spenti. Silenzio. Laghi di pianto trattenuto negli
occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini, noncurante del sole della
bella giornata delle mie parole a rincuorarla.
(Alcuni anni dopo,
parecchi anni fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza da una finestra
d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono ricordata di lei e del
suo rifiuto inerme.
Non più quel suo
sorriso sempre pronto e generoso nel lenire ferite. Compresi e mi disperai per
quella mia insistenza fuori luogo in un momento così difficile e doloroso per
lei. Le avevano annunciato il terzo intervento nell’arco di appena tre mesi. Ed
era disorientata. Impaurita. Disperata.
Anch’io non ero in
condizione di godere del sole e della sua luce luminosa in quel centro di
riabilitazione in cui mi sentivo debilitata. Anch’io evitavo di guardarlo per
non provare la ferita di dovergli probabilmente dire addio. Come avevo potuto
pretendere che lo guardasse lei che aveva i giorni contati e lo sapeva? Come
poteva sentirsi rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non avevo capito
niente di mia madre e della sua anima prostrata e vinta! Come si può essere
così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche
quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di
chi amiamo? Purtroppo, sì. mi era capitato anche con mio nonno, altro mio
grande amore per la vita ed oltre. Evidentemente, si può! Ma oggi mi chiedo:
sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni
in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale
comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi
di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci
impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente
dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità. La
nostra affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua
costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di
ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso
nella stessa galassia.
Quella strana
inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era
purtroppo accaduta anche tra me e mio nonno, tra me e mia madre. Mio malgrado,
loro malgrado.
E per oggi, chiudo qui. piove ancora, ma più lentamente, più lentamente e i ricordi prendono il sopravvento sulla pioggia, mi stringono il cuore. Ho bisogno di rasserenarmi. Riprenderò domani. Buona domenica, anche se le notizie di oggi non mi rasserenano: soffiano altri terribili venti. Venti di guerra. E io non poso fare a meno di riportare: Ricordati Barbara/ Pioveva senza sosta quel giorno su Brest/ E tu camminavi sorridente/ Serena rapita grondante/ Sotto la pioggia/ Ricordati Barbara/ Come pioveva su Brest/ E io ti ho incontrata a rue de Siam/ Tu sorridevi/ Ed anch'io sorridevo / (…) / Ricordati Barbara/ Non dimenticare/ Questa pioggia buona e felice/ sul tuo volto felice/ Su questa città felice/ (…) / Oh Barbara/ Che coglionata la guerra/ Che ne è di te ora/ Sotto questa pioggia di ferro/ Di fuoco d'acciaio di sangue/ (…) / Oh Barbara/ Piove senza sosta su Brest/ Come pioveva allora/ Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato/ È una pioggia di lutti terribili e desolata… (Jacques Prevert, stralci della poesia “Barbara”, Paroles, 1946)
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