domenica 30 marzo 2025

Domenica 30 marzo 2025: oggi scrivo di te, MAMMA... (prima parte)

Ancora una giornata di pioggia battente, dopo i temporali e il vento a schiaffeggiare i giorni scorsi. Ancora acqua a mescolare ricordi e lacrime. Il 2000 fu per noi l’ultima estate serena. Eravamo, come da anni ormai, in un villaggio chic a pochi chilometri dalla bellissima Otranto, terra di martiri e di mare, terra di riproposti incanti nelle stradine di souvenir e memoria amara di turchi e saraceni. E poi ancora altre rive e tramonti in quella penisola di vento e d’ulivi baciati dal sole, nella più grande penisola dalla caratteristica forma di uno stivale, la nostra bella Italia, che il mondo attraversa, percorre, invade e invidia.

Ma, con le prime piogge d’autunno, il cielo si coprì di nembi e di bui giorni alla deriva: Anna Maria e la necessità di un intervento a cuore aperto. E mamma e Gianni e le figlie sempre con lei. A pregare per il suo ritorno a casa. Io, in un’altra clinica a Roma, dove dovemmo ricoverare Ombretta per il suo ricorrente problema da malattia autoimmune, a pregare con il suo ragazzo perché tornasse a casa, dopo mesi di terapia sbagliata e corsa in un altro centro nel tentativo di salvarla.

Lo stress piegò la delicata fibra di mamma e si era ormai a dicembre del nuovo millennio.

2001, perciò, segnò il devastante addio che ci vinse solo un anno e pochi mesi dopo quel Capodanno, che incise a caratteri cubitali nella Storia il primo anno di un nuovo secolo a regalarci illusori refoli di risorte umane utopie.

Perdemmo mamma, in un lago di disperata corsa al suo sorriso. La perdemmo in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e profondi abissi di nuove speranze e nuove disperazioni. Mamma. E il suo sguardo sempre più dolente e malinconico. Pensieroso e stanco. E l’ultimo nostro Natale e l’ultimo Capodanno, ventiquattro anni fa, vissuti insieme in quella che era stata la nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una villa bellissima al centro del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui fanno capo Isabella e Nicoletta con la loro nidiata oggi di adolescenti, nati negli anni, dopo i suoi ultimi sorrisi. Tutti nella tua casa senza più il gelso e con poche rose ma con tanti altri alberi e fiori… e voci e lacrime e allegria e tenerezze di giorni e di anni… Nicole (figlia di Isabella e prima nipotina di Anna Maria), oggi una dolce e sensibilissima ragazzina che, da bimba, era tutta baci da afferrare con le dita e depositare nel cuore… e il bellissimo Francesco, silenzioso e determinato ad essere vincente nello studio e in tutte le sue passioni sportive e tanto altro. Poi, i figli di Nicoletta: Sofia, splendida adolescente che sin da bambina aveva mille parole tra le labbra e mille acquerelli tra le dita… E suo fratello Andrea, che somiglia tanto a mio figlio Giuliano. Stessi occhi grandi e sornione sorriso. Ma allora allora allora…

Allora, nel tempo perduto nel tempo dei rimpianti, fu tempo di lacrime per tutti noi, sopravvissuti a tanto strazio; lacrime, nascoste maldestramente tra ciglia di dolore per un mostro tentacolare che si era ripresentato dopo anni di quiescenza e di tranquilla certezza di averlo debellato per sempre. Senza gravi danni per la sua salute. Mamma. E il suo andare, volto preoccupato e passo leggero e il cappellino verde di morbida lana a incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua compagna di vita ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un mago della chirurgia oncologica.

Furono tre mesi altalenanti di notizie mai chiare mai scure.

E la decisione di raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina in volo sulla corsia di sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna Maria impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo compleanno. Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore. 

Mamma era lì, inerme e sperduta, spaurita e gracile, dopo due interventi che ci dissero risolutori, ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e bianche rose d’ogni mese ornavano il viale che portava alla sua camera al pianterreno di quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo vederla prima che ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e teneramente aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di riabbracciarci con mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in segno di saluto ed erano affaticate farfalle in lento volo. Pioveva anche in quei giorni di ansia e di paura. Una pioggia né buona né cattiva, una pioggia d’attesa… Poi… improvvisamente il sole! La sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché potesse lasciarsi riscaldare dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma lei rimase con occhi vuoti senza guardarlo. “Mamma, hai visto? C’è il sole! È finalmente una bella giornata!”. Silenzio e occhi spenti. “Mamma, possibile che non ti rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”.

Silenzio e occhi spenti. “Ma come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio di sole dopo tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si astenevano. Silenzio e occhi spenti. Silenzio. Laghi di pianto trattenuto negli occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini, noncurante del sole della bella giornata delle mie parole a rincuorarla.

(Alcuni anni dopo, parecchi anni fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza da una finestra d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono ricordata di lei e del suo rifiuto inerme.

Non più quel suo sorriso sempre pronto e generoso nel lenire ferite. Compresi e mi disperai per quella mia insistenza fuori luogo in un momento così difficile e doloroso per lei. Le avevano annunciato il terzo intervento nell’arco di appena tre mesi. Ed era disorientata. Impaurita. Disperata.

Anch’io non ero in condizione di godere del sole e della sua luce luminosa in quel centro di riabilitazione in cui mi sentivo debilitata. Anch’io evitavo di guardarlo per non provare la ferita di dovergli probabilmente dire addio. Come avevo potuto pretendere che lo guardasse lei che aveva i giorni contati e lo sapeva? Come poteva sentirsi rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non avevo capito niente di mia madre e della sua anima prostrata e vinta! Come si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di chi amiamo? Purtroppo, sì. mi era capitato anche con mio nonno, altro mio grande amore per la vita ed oltre. Evidentemente, si può! Ma oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità. La nostra affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella stessa galassia.

Quella strana inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era purtroppo accaduta anche tra me e mio nonno, tra me e mia madre. Mio malgrado, loro malgrado.

E per oggi, chiudo qui. piove ancora, ma più lentamente, più lentamente e i ricordi prendono il sopravvento sulla pioggia, mi stringono il cuore. Ho bisogno di rasserenarmi. Riprenderò domani. Buona domenica, anche se le notizie di oggi non mi rasserenano: soffiano altri terribili venti. Venti di guerra. E io non poso fare a meno di riportare: Ricordati Barbara/ Pioveva senza sosta quel giorno su Brest/ E tu camminavi sorridente/ Serena rapita grondante/ Sotto la pioggia/ Ricordati Barbara/ Come pioveva su Brest/ E io ti ho incontrata a rue de Siam/ Tu sorridevi/ Ed anch'io sorridevo / (…) / Ricordati Barbara/ Non dimenticare/ Questa pioggia buona e felice/ sul tuo volto felice/ Su questa città felice/ (…) / Oh Barbara/ Che coglionata la guerra/ Che ne è di te ora/ Sotto questa pioggia di ferro/ Di fuoco d'acciaio di sangue/ (…) / Oh Barbara/ Piove senza sosta su Brest/ Come pioveva allora/ Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato/ È una pioggia di lutti terribili e desolata… (Jacques Prevert, stralci della poesia “Barbara”, Paroles, 1946) 

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