È bello ritrovarsi nel silenzio: è legato alla necessità di sentirlo dentro mentre vibrano le ali del cuore e quelle dell’anima, che non ha tempo né spazio, in quanto è essa stessa spazio e tempo con una sua “intelligenza”, che lo statunitense Daniel Goleman definisce “emotiva” e riguarda i sentimenti, le passioni, l’empatia. E si avverte tutta la poesia di un’anima fortemente sensibile quando anche si porta dentro “persone come boccioli da far sbocciare” e “le stelle sparse della sua memoria” perché facciano luce nelle storie degli uomini e delle donne che, altrimenti, sarebbero ingoiati dal silenzio dell’oblio. E proprio perché nessuno finisca nell’oblio della dimenticanza, neppure le persone che fanno parte del mio passato di ragazzina, essendo ancora a ridosso o quasi della Giornata Mondiale della Donna, io amo ricordare le donne della mia infanzia, che mi sono rimaste nel cuore. Le ricordo, quasi tutte, molto pratiche e molto sole. Ma anche molto ingenue. Ignoranti. Analfabete. Non sapevano. E si accontentavano di non sapere. Quasi fosse normale, giusto così. Erano brave massaie. Semplici. Tristi o ciarliere e tutte timorate di Dio. Attribuivano a Lui ogni calamità, ogni malattia, ogni dispiacere. E si rassegnavano alla loro sorte e alla Sua volontà. Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano la vita così come veniva ed anche la loro fede era così come veniva. Senza ribellioni. Senza ripensamenti. Ho molto amato quelle donne semplici, rassegnate, forse anche scontente, forse anche rancorose, ignare della problematicità dell'esistenza, ma sempre pronte a portare sulle loro fragili (in apparenza) spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio per sé e soprattutto per gli altri, per scongiurare un pericolo, una malattia, la morte. Sempre pronte a darsi una mano. Con la sola “intelligenza del cuore”. La più importante, a mio parere. Per comprendere gli altri e per andare incontro agli altri. dimentiche solo di sé stesse. Donne senza tempo. Senza età. Senza storia. Forse. O, molto più probabilmente, ero io che non sapevo dare loro un'età, che ignoravo il loro tempo, che fantasticavo sulle loro per me inesistenti o inconsistenti storie, che sicuramente erano, invece, storie di lutti, di dolore, di rinunce, sacrifici, silenzi. Quanta Solitudine e Silenzio nelle loro storie. Le loro storie. In realtà, solo apparentemente uguali, ma quanto diverse?
Probabilmente erano
giovanissime e giovani o quantomeno non molto anziane, ma per me erano tutte
irrimediabilmente vecchissime. Con i loro scialli vecchissimi, i loro grembiali
vecchissimi. Nelle loro case vecchissime con i vecchissimi pavimenti di cemento
raramente lavati e travi a vista sotto i soffitti, da cui pendevano le carte
moschicide (non avevano neppure il tempo di scacciare le mosche) accanto al
piatto di vetro plissettato, come una vezzosa gonna, a coprire la smilza
lampadina con fioca luce. E sedie impagliate e madie infarinate e santi e morti
sul comò e sui comodini con lampade votive e lumini. E voci di preghiera nella
sera. E vecchi riti che perpetuavano comportamenti e ostacolavano il
cambiamento. Anche per strada andavano in giro coperte alla bell’e meglio con
vecchie sciarpe, sferruzzate con lana grezza, che ricordavano vecchi corpi e
vecchie stagioni di velli di pecore tosate e di fusi e conocchie tra mani
rugose e stanche (la bella addormentata con il principe a salvarla era una
fiaba da loro ignorata). Loro che ninnavano i loro piccoli nelle culle di legno
e non raccontavano fiabe ma le cantavano a loro modo, stancamente, sfibrate dal
lungo giorno di lavoro come massaie nella propria casa: ninnananna uè la ninnananna u lupə s’è avvəcə natə
u lupə
s’è avvəcənatə
alla capanna… ninna uè o la ninnananna uè, u lupə
s’è mangiatə,
u lupə
s’è mangiatə
la picurella, ninna sunnə e uè la ninna sunnə
e stu məninnə
nan teinə,
nan teinə
sunnə.
E quasi tutte quelle
donne, ricche o povere, giovani o vecchie, erano vestite di nero per un lutto
che non riuscivano mai a dismettere nel cuore e nelle vesti. Tre anni per la
madre o il marito, due per il padre, l’intera vita per un figlio…
Erano queste le donne
della mia infanzia: molte poverissime e analfabete, pochissime le ricche e
istruite. E nessuna proprio nessuna che cantasse mai. Le sentivo cantare solo
in chiesa e dietro le processioni e mai mai in casa o per la strada. Troppa
miseria e troppo dolore per lasciarsi andare al canto. Troppa ricchezza e
troppa alterigia o dignità non consentivano loro ad andare per le strade…
Le ho descritte e
cantate tutte, sempre, le donne di quel lontano passato. In mille modi. In
prosa. In poesia. Le tante donne della mia infanzia sono ancora qui, in me.
Donne che non fanno storia, che pure hanno vissuto, amato, odiato, riso,
pianto, chiacchierato, ubbidito, ricordato, sperato, pregato. Donne
lontanissime nel tempo e a cui tento di dare una storia perché non si perdano
del tutto nel tempo. (Potere della memoria e della parola scritta. Ma potere
anche della fantasia che a quella memoria aggiunge parole mai dette e vite mai
vissute. La narrazione fa rivivere il passato e appaga la mia gioia di
raccontare…).
“Scrivere vuol dire
farsi eco di ciò che non può cessare di parlare…” (Maurice Blanchot).
Oggi, è vero, di loro
non rimane che un labile ricordo. Diafano. Trasparente. Vago. Lontano. Incerto.
Rimane in chi, come me, ha anni addossati agli anni e vive e rivive anche il
passato cercando di riattualizzarlo nella memoria perché non muoia del
tutto. Ma neppure il ricordo serve a
riportarle ai nostri giorni. Sono anacronistiche. Sono distanti anni-luce dai
modelli che le ragazze amano, seguono, contestano. Sembrano vissute invano e,
quindi, non vissute. Si perdono in quella caligine oscura che il passato
trasmette alla mente di chi c’era. Erano solo croci su croci: una croce, il
marito; una croce, i tanti figli nati e, magari, morti nello spazio di un solo
giorno (le malattie infantili falcidiavano impietosamente tanti fiorellini di
prato appena nati), e altri da mettere al mondo “come conigli” (cfr. la canzone
del bravissimo De Gregori “Generale”); una croce, ogni dolore muto, ogni
ribellione repressa, ogni parola ingoiata. Una croce, l’unica identità come
firma da apporre sui rari documenti che affermavano civicamente il loro essere
al mondo. Spreco di vite. Davvero inutili? Non voglio crederlo. Non posso
crederlo. Distruggerei quella gòmena d'amore e di rapporti che ha legato e lega
le generazioni al femminile perché non si perda la storia dell'umanità. Per
questo io amo ricordare e raccontare lacerti di storie che la mente mi
restituisce a tratti, e volti e nomi e parole, sottraendoli alla dimenticanza.
Rimpasto quelle donne per farle rivivere… (sono brevissimi stralci dei tanti
che riguardano quelle donne tradite dalla storia e vinte da una cultura che le
voleva serve, mentre erano padrone di sé e dei loro giorni per la forza
titanica dimostrata nelle loro case, prive degli uomini andati in guerra, e
affollate di bocche da sfamare per sopravvivere… brevissimi stralci, dicevo, tratti dal mio
libro Le piogge e i ciliegi, vol I e
II SECOP Edizioni, Corato-Bari, 2016 - 2018).
Alla prossima. Grazie. Angela/lina
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