Ed ecco il mio commento:
È una poesia di una intensità straziane e dolcissima. Frutto
probabilmente di attimi di sospensione dell’anima inebriata e ferita del poeta
nel guardare il figlio, che a sua volta lo guarda con “sorriso paterno”,
scatenando in Giovanni Gastel, uomo e padre, una ridda di sentimenti, taglienti
come lame appuntite che, vinti dalla commozione, deviano in dubbi per
lasciargli la possibilità di non rimanerne sopraffatto.
Non a caso, il primo verso comincia con un “ma”, particella
avversativa che serve a contrastare i tanti pensieri che lo sommergevano e a
liberarsene piano piano. È come se stesse continuando un discorso che prima
aveva solo nella mente e che ora, finalmente, trovava un varco per farsi
poesia. E subito evidenzia cosa gli premeva sapere, ora che andava facendo
spazio tra i tumulti del cuore: e al “ma” si aggiunge la dubitativa “se” e,
subito dopo, “di questi” (cioè, eccoli sono qui, li avverto prepotentemente,
sono miei!) “sentimenti”: a capo, ad occupare tutto il verso seguente tanto
sono grandi.
E, subito dopo, continuando a leggere, mi accorgo
improvvisamente che tutte le parole-chiave di questa poesia (che non rispetta i
canoni classici della poesia tradizionale, come l’andare a capo con senso
finito del verso, senza usare articoli e preposizioni in sospensione): le
locuzioni, i chiarimenti di sé a sé stesso, gli stilemi tanto cari al poeta e
così connotanti la sua poesia hanno qui un intento d’amore ben preciso: ogni
parola (che è necessaria perché è quella e non può essercene un’altra) va a
capo e si distende nell’intero verso, occupa tutto lo spazio
possibile. Quasi a farsi colonna, statua, scultura, monumento. Una
scala che porti sino al cielo.
“Exegi monumentum” (Orazio). Non per la propria
gloria, ma per glorificare il figlio, e con lui anche l’altro suo nato, ora
assente alla sua vista, ma non al suo cuore di padre.
E ogni verso si conclude con uno slargamento ad eco della
parola messa lì, non a concludere, ma a dilatare: incisi nell’anima…
potessi fare un canto… finale… quale poesia non… scritta… troverei nel
profondo?.
E, ancora: che sia la più densa del… tuo bacio
figlio… che sia la più amara… del tuo allontanarti per… la tua via… che sia più
definitiva… del tuo osservare la… vecchiaia… scivolarmi addosso… ogni giorno
E sembra di sentire il suono cadenzato delle parole che
andavano a costruire quel monumento d’AMORE, quasi mattoni, quasi lastre a dare
peso e consistenza e valore a quell’UNICO sentimento immenso e profondissimo,
che i pensieri avevano definito, scendendo nelle viscere del suo “Io” più
profondo, e che aveva bisogno di calibrare ogni attimo, ogni sensazione, ogni
emozione perché si facesse carne viva e non solo sentimento e commozione (il
bacio, per esempio, non dato, ma certamente trattenuto quasi si fosse
materializzato tra le parole).
L’allontanarsi per (e quel “per” lasciato per strada sembra
già un viaggio verso l’ignoto, lo sconosciuto, l’insidia che il padre temeva e
contro cui non poteva metterlo in guardia perché avrebbe fuorviato la “via” del
figlio, quella che il ragazzo - non più “suo” - aveva scelto per essere sé
stesso e riconoscersi).
Gli occhi che osservavano la… “vecchiaia” (e il pudore, per
quanto il poeta non riuscisse ancora ad accettare di sé, gli aveva proposto un
verbo che non lasciava segni; non si fermava a incidere l’ingiuria di una ruga,
ma “scivolava”), “giorno dopo giorno”, lentamente, pesantemente e senza tregua
(quasi fosse un martello pneumatico a scavare gallerie di tempo sulla roccia
del viso).
Ancora una volta, la fugacità del tempo vince per un attimo
tutti i sentimenti che palpitano dentro il poeta e si fanno poesia, per
fantasmagarsi (mi si lasci passare il neologismo) nella paura che lo assale e
lo attanaglia.
E con la paura (non detta) si ripropone la solitudine,
esibita, per crearsi l’appiglio del dolore lancinante del distacco, il solo a
dettargli la verità “in forma” di poesia.
È un attimo di smarrimento e di angoscia che si dissipa
nella rinata tenerezza per quel figlio che andrà inevitabilmente lontano,
accompagnato dal canto dolce del padre nella reciprocità di un amore senza
confini che può risolversi, proprio perché tale, in un tenerissimo scambio di
ruoli: il poeta, figlio di suo figlio, e suo figlio, padre di suo padre.
L’Amore compie questi prodigi.
L’AMORE ha scritto a caratteri cubitali il sussurro stupendo
di questa meravigliosa poesia, che accompagnerà il duplice viaggio (del padre e
del figlio) lungo le impervie strade del mondo…
E, se per Borges “la poesia è l’imminenza di una rivelazione
che non si produce”, per Giovanni Gastel è sempre rivelazione di sé a sé stesso
e agli altri.
Grazie per questa straordinaria “Poesia-Verità”.
Ed ora concedetemi la libertà di concludere con alcuni miei
versi con dedica a completamento di questo mio percorso critico-letterario
Ho incontrato un poeta
Ho incontrato un poeta
Era di carta e di parole
Era di solitudine e clamori
Silenzi coltivava
come fiori liberi di campo
lui che aveva serre di gladioli
e rose rare nel giardino del cuore
Ho conosciuto un poeta
con occhi grandi di malinconia
ad ogni sorriso alla noia strappato
strappato alla morte e al tempo
che verrà e avrà un giorno nuovo
di foglie e di radici
Avrà la luce di un volto inventato
e un sogno colmo di nostalgia
Avrà un tramonto per ogni canto
deluso e un’aurora di rimpianto
Ho conosciuto la sua anima
col volto in bianco e nero
e ciglia tenere di bambino
e labbra chiare di rosso spino
e azzurro incanto
(mi ha depositato tra le mani
un petalo di cielo…)
Angela
De Leo
E anche per oggi va bene così. Spero di non avervi annoiato in questo giorno di pre-festa, come “sabato del villaggio” della nostra anima. E domani, domenica, chiuderò con Giovanni Gastel e il suo dolcissimo e malinconico commiato dagli amici. Grazie. Angela/lina
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