mercoledì 17 aprile 2024

Mercoledì 17 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

Riprendo a raccontare, ma per non coinvolgervi esclusivamente nella condivisione consolatoria del dolore, cerco di intervallare vicende tristi con altre più leggere, legate anche alla nostra vita sociale e culturale, mia e di Primo, che nel frattempo mettevamo al mondo altri figli fino a veder nascere i nipoti, motivo di rinnovata gioia, di mai perduta speranza. Ma, intanto, non posso fare a meno di ricordare che, dopo due anni di relativa calma e di rielaborazione del dolore ancora vivo per la morte prematura e ingiusta di Rosa, ecco il 1986: Fu un anno che riprese a sanguinare con la morte di babbo.

21 ottobre 1986. Babbo: E la sua tristissima fine dopo una settimana di semplici controlli di routine al policlinico, conclusisi con la sua resa incondizionata. Il Moloch di tutti i miei terrori passati ridotto ad un essere inerme coperto di lividi su tutto il corpo e addome gonfio e occhi chiusi. La sacca delle urine quasi vuota. Il liquido rossastro rappreso. La morte ad alitargli sul viso. Stente parole di abissale dolore. Il nostro parlarci senza incontrarci. Altro deluso mormorio. Altro acuto rimpianto. Anche lui andò via lasciando mamma spaurita e spaventata come era accaduto a nonna Angelina dopo l’ultimo saluto a nonno Mincuccio. Tornava il dolore. Tornavano atmosfere solo apparentemente dimenticate.

(“non piangere mi raccomando non piangere”… qualcuno con dolcezza per telefono: tutta la dolcezza che mio padre non aveva saputo usarmi “non piango no non piango”…)

E furono, gli anni Settanta-Ottanta, i lunghi “anni di piombo” che arrossarono il nostro Paese e ci fecero arrossire di rabbia, paura, dolore per un mondo devastato dall’odio e da sanguinarie rivendicazioni delle BR (Brigate Rosse) che scrissero col sangue di molti innocenti gli “anni di fango” (Indro Montanelli e Mario Cervi): dall’uccisione di Calabresi al sequestro e morte di Moro e di tante altre povere vittime nella stazione di Bologna e non solo. Sarebbe troppo lungo fare qui il tragico elenco dei morti di quegli anni. Stragi che hanno urlato il dolore fino al Cielo dei condannati. Ma, per fortuna, quelli furono per noi anche gli anni delle sempre attese e lunghe vacanze dai nonni nel Salento, in una villetta a due passi dal mare con il pozzo l’altalena il fico grandioso ad attenderci con i suoi frutti, e i giochi e le mille voci bambine in quella “via dei ragazzi” di chiacchiere e passeggiate e una voglia di stare tutti insieme dopo il lungo inverno di impegni e passi lontani.

La vita che rivendica il diritto alla vita. Ma appena due anni dopo la morte si riaffacciò al nostro orizzonte devastato.                                                    

1988: fu la volta di Nonno Mario. Perdemmo per strada in quegli anni anche lui, il padre di Primo.

Dopo sei anni di ritrovata serenità accanto a una nuova compagna di vita, discreta, attenta, innamorata del suo uomo e di tutti noi. Lo curò con dedizione fino al giorno del suo andarsene con stanco addio e forse senza rimpianti. Primo, dopo la telefonata quieta e allarmata di nonna Francesca, arrivò a casa che annottava. Tre anni prima era diventato Dirigente Scolastico ed ora era fuori a dirigere una scuola nell’Italia centrale. Di notte riprendemmo a viaggiare insieme nella speranza di trovarlo vivo. Sì. Il tempo ci accordò il suo spazio. Ci riconobbe. Ci sorrise. Senza parlare.

Non ci furono più parole. Nonna Francesca ci fece accomodare in salotto e ci disse di riposare perché la notte sarebbe stata lunga e perché fosse lei a raccogliere il suo ultimo respiro. Gli altri figli sarebbero arrivati all’alba. Chi da lontano. Chi da soli pochi isolati di distanza.

Stanca e febbrile attesa: Ci incontrammo tutti e scoprimmo tutti di voler bene a quella donna che in silenzio aveva dato a nonno Mario sei anni di cure, attenzioni, amore. Senza mai chiedere nulla per sé. Felice di avere una famiglia grande, dopo un matrimonio senza la gioia di un figlio e la morte prematura del primo marito, curato con altrettanta premura e altrettanta abnegazione. Nonna Francesca era una di quelle persone sagge ed equilibrate che ti riconciliano con la vita e ti fanno credere ancora nella bontà e nella onestà del genere umano.

 1989: Dopo appena un anno, però, dovetti ancora cedere al pianto, questa volta mio soltanto, in un franare di pietre e di alberi, dando le spalle in fuga alla casa del gelso e delle rose, la nostra antica casa, in via Generale Montemar angolo via della Repubblica. Durante l’intervallo di tregua breve da ogni rinnovato dolore, dovetti dire addio al cortile che avevamo ereditato io, Lizia e Anna Maria, le tre figlie maggiori, e che Anna Maria aveva rilevato per intero, progettando una casa diversa dove abitare con le due figliolette a restituirle Nicola nei volti e negli occhi, e con Gianni, suo nuovo attento e premuroso compagno dopo oltre dieci anni di lacrime e solitudine, così come aveva predetto e promesso il suo perduto amore nell’ultimo sogno a parlarmi di lei.

Il restauro richiedeva la ricostruzione della vecchia struttura con innovazioni per migliorarla e renderla più confortevole per la nuova famiglia (Quella mattina ero riuscita a ricavarmi un paio di ore di libertà e avevo deciso di trascorrerle con mamma, in eterna attesa di una mia visita sempre più sporadica e breve. Mio eterno rimorso, mio inconsolato rimpianto. Girai l’angolo e… ancora una volta i residui stracci d’infanzia adolescenza giovinezza mi piovvero addosso con quel mucchio di pietre che fino al giorno prima era stato il giardino da cui spuntavano i verdi rami degli alberi da frutta. Schianto annunciato. Schianto improvviso. Schianto. Per un attimo, vidi mio nonno seduto all’angolo dove di solito posizionava la sua sedia tra la saracinesca, il cortile e il muro del giardino. Lo vidi che mi aspettava con la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia giovinezza miracolosamente ancora intatte per raccontarmi ancora la fiaba di noi due inseparabili sempre, e ormai lontani da quella casa del gelso e delle rose, lui nel suo altrove, io nella mia casa dei lunghi balconi e lunghi corridoi. Ma io avevo occhi di lacrime che mi impedivano di vedere le sue labbra mormorare nuove parole di antichi richiami e negli orecchi il rumore assordante del muro crollato e degli alberi abbattuti e dei nidi dispersi e degli antichi pulcini sparpagliati e delle voci degli ultimi nipoti in armonia con quelle dello Zecchino d’oro nel cortile ora sventrato (dall’uovo… gobbo/ di una gallina… zoppa/ nacque un pulcino che zoppicava un po’/ il padre… gallo/ impazzito dalla gioia/ nel suo pollaio/ una festa organizzò…// tic e tocche tic e tocche/ il pulcino dopo un po’/ ticche e tocche ticche e tocche/ a ballare incominciò/ tre galletti verdi e gialli/ professori di hally gally/ al pulciino balleriino/ gli gridarono così/ chicchiricchì…).  E il disperato canto degli uccellini senza rifugio e senza bocche da sfamare e pigolii da capire. Voltai le spalle, come da bambina facevo con mamma per non vederla andare via, mentre mi giungeva la sua voce accorata “Lllinaaa…”. E, oltre l’angolo, vidi le mie lacrime correre verso la mia nuova casa, il mio presente, la mia pena di vivere oltre il tempo del nostro stare tutti insieme. E nella mente mi devastava il canto:era una casa tanto carina/ senza soffitto e senza cucina,/ non si poteva entrare dentro/ perché non c’era il pavimento./ Non si poteva andare a letto,/ in quella casa non c’era il tetto./ Non si poteva far la pipì/ perché non c’era vasino lì./ Ma era bella bella davvero/ in via dei matti numero zero./ Ma era bella bella davvero/ in via dei matti numero zero”… (la mia voce dispiegata in silenzio e Sergio Endrigo con la sua pacata tristezza a consolarmi).

Ma tutto passa e tutto ritorna nell’incessante movimento dell’esistere: Il mare la sua risacca. E nascite e morti ancora. I due poli estremi della vita e in mezzo giorni senza date, senza nomi, senza definizioni. Furono vissuti? Sì, furono vissuti, se mi vengono incontro scampoli di ricordi, orlati di gioia alcuni, e altri ricamati di pianto. Dall’amalgama indistinto del passato più recente si definiscono via via i contorni sempre più chiari di altre condizioni di vita, altri sogni e ideali e progetti, altri situazioni. E nuove voci e nuovi richiami e nuove storie a venirmi incontro dai muri delle nuove case, dalle strade e le piazze, che mi hanno vista sempre più decisamente viandante e sempre più prepotentemente fuggitiva…

Le prime pubblicazioni proprio in quegli anni. Le prime presentazioni in un gruppo di amici poeti e scrittori con spirito pioneristico e rivoluzionario. E le Mostre di Primo come pittore e le pubblicazioni delle sue poesie e Convegni culturali con grandi nomi della Letteratura Italiana e mondiale: Dacia Maraini, Silvana Folliero, Mariella Bettarini, Desanka Maximovic (la più grande e longeva Poetessa Serba) e altri grandi poeti Serbi, tra cui Dragan Mraovic, per oltre quarant’anni mio fraterno amico, Jorge Amado, e il poeta cileno German Rojas… e… e…  E la mia caduta di lì a poco. La caduta ad una festa e il tac del femore spezzato. A distanza di altri lunghi anni da quelle cocenti perdite, da quelle esaltanti esperienze di autentica poesia.

E si era nel 1993: Oh, se non ci fossi mai andata a quella presentazione di un libro di poesie, a cui Primo non avrebbe voluto partecipare. Insistetti. L’autrice era una mia cara amica che ora non c’è più. Non volli darle un dispiacere. Ancora oggi sconto pesanti e dolorose conseguenze per quell’appuntamento con il Destino o Karma a cui non seppi sottrarmi. Una brutta frattura solo da me immediatamente avvertita, mentre ben cinque luminari della medicina e chirurgia, ignari della mia resistenza al dolore, mi fecero alzare con la gamba ciondoloni. Mi fecero camminare: tentativo inutile, dolorosamente da me assecondato, per obbedire a chi ne doveva sapere più di me che, invece, sapevo e resistevo, senza un solo lamento, per non svenire. (Ma il dolore guardato e non vissuto non si vede e non si sente. Si può solo intuire dalla mimica del volto sofferente. Dalla postura sbagliata, dalla difficoltà del respiro o di un movimento, ma l’intensità del tormento fisico e la resistenza alla sofferenza sono appannaggio solo di chi le prova e fa immediatamente i conti con sé stesso). Mi caricarono sulla macchina di Pinuccio, spingendo dentro la gamba che non obbediva… Giungemmo come Dio volle o non volle (non me lo chiedo più) al primo ospedale e lì finalmente diagnosticarono una frattura del femore sottocapitata e scomposta con immediato ferro come proiettile e senza anestesia a trapassare il ginocchio e immobilizzare la gamba. Intervento non corretto. Firma e fuga al CTO del capoluogo e intervento con viti canulate per salvare il mio femore ed evitare la protesi.

Illusione di poter risolvere il problema in poco tempo perché Raffaella e il suo ragazzo occhi-verdi stavano preparando il loro matrimonio e mancava poco più di un mese alla cerimonia, che dovettero organizzare da soli e tra mille difficoltà.

Alle loro nozze mi presentai con le stampelle a reggere una gamba enorme e tutte le spente speranze, riaccese di verde negli occhi di Peppino, unico immenso amore di Raffaella. E fu una notte di stelle, che solcarono il cielo in una pioggia di sogni che avrebbero colorato anche i giorni dei difficili passi e dei rimandati sorrisi. E, in quella pioggia di stelle, io ferita nel corpo e nell’anima, intravidi il   preoccupato sorriso di mio nonno e quello della nonna al tuo fianco. Consolazione di ogni perdita di ogni inganno di ogni muto dolore. Quante illusioni, però, sotto la pioggia luminosa di quel cielo d’agosto!… E quante delusioni! Quante! Sotto un cielo solo mio, che altri ignoravano! Cielo dal respiro breve di migliaia di stelle, interrotto, solo tre mesi dopo, dalla perdita del padre del giovane sposo, l’ingegnere-poeta Nicola Piacente del giovane sposo. Nicola Piacente. Per me perdita del suo saluto mattutino alla luce di canti e incanti affettuosi tra consuete sue geometrie di progetti di multipiani da realizzare e mie poesie da condividere in un intreccio di sintonie culturali ad una voce. Perdita dei suoi aneddoti, veri poemetti, nel nostro dialetto duro e imperioso, che connotavano tutti i paesani con “Rə sopannòmərə (i nomignoli), che meglio identificavano una persona, la sua famiglia, il ceppo d’appartenenza, lavoro, professione, modi di dire o di essere, difetti e rare qualità.

Qualche anno prima aveva dedicato una tenerissima poesia nel nostro dialetto a Raffaella, a cui Primo aveva aggiunto un ritratto con inchiostro di china in un abbraccio di capelli e di sogni. Mani protettive e tenere ad avvolgerla tutta. Purtroppo, però, seguirono giorni difficili e amari…  E voci che si perdono e volti che spariscono sostituiti da altre voci che nascono, da altri volti da altri incontri amori lacrime rinunce rifugi in vie di deviazione per rinascere sempre, rinascere ancora (non mollare non lasciarti vincere dallo scoramento di passi che non t’appartengono e che prendono altre vie dimentiche di stelle… non mollare stringi i denti risali la china non mollare…)

 E, intanto, sembrava tutto superato per la mia gamba protesizzata, con due ortopedici supervisori venuti dalla Francia. Primo pianse di gioia. E mi accarezzò con gli occhi di tenere lacrime. Ma io non mi attenni alle regole. Ripresi a lavorare piegata sull’unica arteria che alimentava la testa del femore, che andò in necrosi, circa due anni dopo.

1995: Ricerca affannosa del nuovo chirurgo per il nuovo intervento. E sotto il cuore di Raffaella a battere un nuovo cuore. Me lo dissero dopo una ulteriore visita ortopedica presso un luminare francese venuto da Saint Etienne nella Capitale; visita brevissima che mi lasciò l’amaro in bocca. Il luminare non era più in grado di operare. Nulla di fatto sul versante protesi. Ma quel segreto mormorato a fior di labbra quasi fosse sogno fu subito felicità. Poi, la corsa a Lione, con Peppino, Raffaella e Nicola a pulsare sotto il suo cuore (ormai le ecografie all’utero erano in grado di evidenziare il sesso del nascituro), per la nuova speranza di camminare come un tempo (“professore mi operi lei, solo di lei mi fido e a lei mi affido”… “signora, non si preoccupi: questi interventi li faccio ad occhi chiusi”… “sì, ma li tenga bene aperti, professore”…). Le mie ultime “parole famose” mentre l’anestesia obnubilava mente e luogo e tempo e... Nuovo inganno, nuova delusione, nuovo dolore. In una clinica privata di lusso che prometteva prodigi col verde di giardini fioriti per ogni camera/suite e tanto felpato tepore di mani esperte ad alleviare la sofferenza a coltivare sorrisi e laute mance, dovettero pregare perché ne uscissi viva. Per fortuna, il ritorno fu incanto di Costa Azzurra tra merletti di mare in una Montecarlo che ci affascinò per la sua abbagliante bellezza, e il palazzo del re a frastagliarsi di scogli e la corsa automobilistica di Formula 1 nel serpente di larghe strade e stretti tornanti. E, come d’incanto, due mesi dopo, s’affacciò al nostro mondo quotidiano, per farsi amare, il nostro bambino già viaggiatore NICOLA. Col nome del nonno paterno che non era riuscito ad attenderlo. Un nome che aveva anche echi lontani di giovane sposo e padre innamorato, rimasto nel cuore di tutti noi: mio cognato, marito di mia sorella Anna Maria. Giovane sposo tanto amato e fatalmente perduto nello spazio di un temporale.

Nicola, il nostro bambino, nato di notte, fiore di rossa estate nel prato verde del panno a coprirlo neonato, per la gioia delle nonne a mangiarlo di meraviglia e di baci. La vita riprese a sperare. Riprese a vivere. Io ripresi a camminare. Male. A tentare nuove vie per ritornare ad essere quella di prima. Invano. E a nulla valsero le vacanze a Palma di Majorca, le strategie di rivalsa sulla sorte con il nipotino da coccolare. Per lui non ebbi neppure una fiaba. Solo tanto amore racchiuso tra ciglia di altalenante speranza/disperazione. Perdita dell’identità fisica e perdita della identità più profonda. Persa per sempre Lina che piroettava col sassolino nella scarpa per essere ammirata e applaudita nella bianca innocenza dei suoi brevissimi anni. E si perse tutti i giochi il mio bambino con una nonna chiusa nel suo dolore muto e inespresso. Non ebbi per lui che stenti sorrisi. Ma tanto tanto cuore.

Mi fermo qui. con tutto il cuore possibile che palpita, nel bene e nel male, in queste pagine, che sanno di me e della vita di ciascuno di noi… Grazie sempre! Angela/Lina

 

 

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