martedì 16 aprile 2024

Martedì 16 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE...

Dove se n’è andato Elmer

Che di febbre si lasciò morire

Dov’è Herman bruciato in miniera

Dove sono Bert e Tom

Dormono, dormono sulla collina

Dormono, dormono sulla collina

(Fabrizio De Andrè, Sulla collina)

Oggi sempre più attraverso tempi di silenzio e di dolore, dati i miei lunghi anni e i problemi di salute che non mancano, e sento sempre più il bisogno di condividere la mia muta preghiera con quanti, negli anni, hanno raggiunto il Cielo, ma VIVONO quotidianamente nel mio cuore. Di condividerlo sul nostro blog. Mi sembrerà più facile abbracciare insieme la croce del dolore. E parto dalla perdita più grave e da una data segnata a caratteri cubitali nella mia anima.

1967. 11 gennaio: il mio amatissimo nonno-papà. Il protagonista di quasi tutte le mie storie, le mie poesie.

< Sempre, nei tuoi ultimi anni con noi, mi sorprendevo più volte a pensare che accettavi la morte delle persone care con serenità, come naturale epilogo della vita (ho detto addio a Michelino… ho salutato per sempre fra’ Francesco… se ne è andata nonna Anna… ho perso il mio amico Vincenzo… e Giovanni ci ha lasciato…). Quando eri ancora in grado di camminare di buon passo, spesso ci portavi con te e con la nonna al cimitero, che voi chiamavate, come tutti gli altri del resto, “u cambəsàndə” (il camposanto), che a me piaceva molto di più del termine “cimitero”. Il camposanto sapeva di silenzio e di preghiera, di luogo sacro e benedetto. Il cimitero ancora oggi non mi comunica alcuna emozione. Solo tristezza. Con te e la nonna andavamo a visitare nella Cappella di San Michele e in quella più piccola della Madonna di Loreto i tuoi genitori, fratelli e cognate e quelli di nonna Angelina. E anche allora registravo la tua serenità di fronte alla morte (una volta, dopo aver comprato i loculi per te e nonna, proprio nella grande Cappella di San Michele, ti sentii persino scherzare con lei, che rabbrividiva al pensiero che un giorno sareste stati chiusi dietro quelle lapidi, ammiccando alla sua paura: mè, ca pòuə n’ama təzzuà da ‘na vànnə all’àltə pə fànnə quàlchə rəsàtə o ‘nu dəscùrsə pə nàn pèrdə l’abətùdənə a racchəndànnə fəssàrè, cə cə sə nòn pòuə cè prìscə stèjə a stà sémbə cìttə cìttə e sòutə sòutə?”… (“dai, che poi ci dobbiamo bussare da una parte all’altra per ridere e conversare insieme per non perdere l’abitudine alla chiacchiera, altrimenti poi che allegria si può provare a stare sempre zitti zitti e fermi fermi?…”) (e il “priscio”, termine prettamente bitontino, ha un significato del tutto particolare: è più dell’allegria e meno della esultanza. Ha in sé qualcosa di atteso e di raggiunto. Un compiacimento carico di sottintesi e, nello stesso tempo, scoperto, condiviso. Una sensazione meravigliosa di compiutezza da vivere tra chi si vuol bene o nella intimità della propria anima…)>. (dal solito mio romanzo: Le piogge e i ciliegi, vol.II).

Mi torna alla mente, a tale proposito, quanto la grande poetessa Emily Dickinson abbia espresso magistralmente nella poesia “Morii per la bellezza” (1862): Morii per la bellezza - ma ero appena/ sistemata nella tomba/ che uno che morì per la verità fu deposto/ In una stanza attigua -/ Mi chiese piano “Perché sei mancata”/ “Per la bellezza” risposi -/ “E io - per la verità - sono la stessa cosa -/ noi siamo fratelli” disse -/ Così, come congiunti che si incontrino di notte/ - parlammo fra le stanze -/ finché il muschio raggiunse le nostre labbra -/ e coprì - i nostri nomi - (E. DICKINSON, Poesie, trad. it.M. Bagicalupo, Oscar Mondadori, 2004)

<Avevi vissuto una vita intensa ed eri in rassegnata pensierosa attesa di lasciarci per andare incontro ai tuoi tanti figli che sicuramente erano pronti a riabbracciarti tra le stelle. Anche il campo dei ciliegi era stato venduto e il giardino dei laghetti. Si avvertiva ormai un senso di vuoto, di provvisorio. Ma occorre tornare un po’ indietro per mettere a fuoco quello che vivemmo e come affrontammo i due anni terribili del tuo calvario: Io e Lizia dormivamo ormai nell’appartamento di mamma e babbo, nella grande cucina che si era trasformata in camera da letto per non profanare il loro letto. Mamma dormiva con la nonna per essere d’aiuto sia a lei che a te. Non l’avevo mai vista così affaticata e stanca. Era ingrassata. Si trascurava, lei che aveva sempre avuto il culto della persona e della bellezza. Io l’avevo sempre vista completamente diversa da tutte le altre mamme delle nostre amiche che avevano forse, come lei, meno di quarant’anni ma ne dimostravano almeno sessanta. Mamma era diversa per acconciatura, abbigliamento, linguaggio, comportamento, pensiero divergente da quello di quasi tutte le sue coetanee (la prima cosa che bisogna fare la mattina appena sveglie è prendersi cura di sé per essere sempre gradevoli durante la giornata… casomai dovesse venire qualcuno, deve trovarsi di fronte sempre una persona che si possa guardare…) e le raccomandazioni di zio Padre Leonardo aleggiavano nelle sue parole. Il suo esempio mi ha guidato per tutta la vita nel prendermi quotidianamente cura di me come faceva lei (anche i comportamenti a volte si ereditano?). Registravo i cambiamenti epocali pure da queste piccole preoccupazioni quotidiane delle donne di casa, appartenenti a generazioni diverse: per la nonna era stato il letto da rifare l’impegno prioritario del mattino; per mamma il guardarsi allo specchio per rendersi gradevole; per me il primo pensiero era scrivere lunghe lettere a Primo o studiare per un esame a breve scadenza, leggere qualche pagina del romanzo lasciato sul comodino. Ascoltare musica.  Dipendeva dall’umore e dai sogni, notturni e diurni. Dipendeva dalle notizie del giornale radio che ora ascoltavamo quotidianamente. E con attenzione. Con discernimento (…).

1977: E dieci anni dopo, il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, ci raggiunse la notizia che zio Padre Leonardo, il tuo amato fratello, era venuto a raggiungervi. L’ultimo di voi, così come era stato l’ultimo a venire al mondo. Mi giunsero dal convento alcune lettere e alcune foto. Piansi. E sentii che un altro capitolo della mia vita si era chiuso per sempre. Che anche a quel mio idolo in carne ed ossa dovevo dire addio, addio al suo sogno d’amore e alle sue parole d’arpe e violini di vetrate policrome e misteriose cattedrali… La mente in deviazione mi riportò il ricordo di quel suo disappunto, ospite da noi, a causa della piccola truffa che tu avevi subìto dal tuo salumaio di fiducia per via di una “carta” di prosciutto crudo che si rivelò ben presto, a casa, poco fresco. Quel “presciutto” più scuro del suo solito colore rosso vivo lo turbò a tal punto che ne parlò in chiesa durante l’omelia, creando un certo scompiglio tra gli ignari parrocchiani. Tu, di ritorno a casa, sminuisti l’accaduto con una facezia sui preti che qualche volta si prestavano a farsi complici di qualche ladruncolo di galline. Non ricordo più il tuo divertito racconto, ma mi torna alla mente solo una breve raccomandazione del sagrestano al celebrante che, sull’altare, stava nascondendo un pollo sotto la sua veste sacramentale: abbàscə la cóta, dòminə, ca sə vètənə rə ciàmbolìnə!” (abbassa la veste dietro, signore, perché si intravedono le zampette!), ma le sequenze della storia erano molto più lunghe e complesse e ridanciane e mi avrebbero ricordato, più tardi, alcune novelle del Boccaccio. Zio rise di cuore con te e con tutti noi. E la faccenda del prosciutto stantìo fu ben presto dimenticata. (Peccato, però, che non riesca più a ricordare quella tua storiella così simpatica e divertente! E nessuno degli altri tuoi nipoti la ricorda. Solo io, purtroppo, ho conservato in buona parte, grazie a te, la memoria storica di quegli anni…). E, ritornando a zio Padre Leonardo, quanta luce nella nostra casa con la sua straordinaria presenza! Quanto vuoto, dopo! E, questa volta, è uno scoramento di parole meravigliose perdute non alla memoria del cuore, ma ai giorni che ci sorpresero, più tardi, di muto silenzio senza te, senza lui: i due più grandi affabulatori della tua famiglia. Zio Padre Leonardo era stato per tutta la vita viandante solitario, e solo da qualche anno non viaggiava più. Eravamo stati suoi ospiti a Perugia, dieci anni prima, in viaggio di nozze e allora ci fece da guida per tutta l’Umbria: Assisi, Todi, Gubbio, Cascia, Spello. Ancora agile, ancora di passo svelto e risoluto. Ancora ricco di battute, aneddoti, riferimenti colti. Ancora il mio mito e il mio ascolto. Poi, tornò a stare con noi nella tua casa quando nacque Ombretta. Sì. Fu proprio quella l’ultima volta che venne da noi. E, infine, solo due anni prima, come già detto. E, nonostante l’età, era ancora un faro luminoso prima di spegnersi tra le stelle accese. Dopo la sua morte ci furono anni di tregua dal dolore, ma intensi di lavoro. Dell’insegnamento nella scuola e nella mia casa. Anni di studio per il necessario, continuo aggiornamento. Di impegni culturali. Di rari incontri tra di noi, genitori e figli, nella nostra casa. Non ne avevamo il tempo.                                                         

Ma appena quattro anni dopo ecco altri addii. Dolorosissimi. Devastanti>.

1982: Nonna Uccia, la mamma di Primo, segnò il ritorno della campana e il suo rintocco di fiele. Nonna Uccia! La sua morte improvvisa per un ictus e la macchina in corsa per raggiungerla in ospedale nel capoluogo salentino e il pettine accarezzato dalla mia mano tra i suoi capelli spaventati a tranquillizzarla a darle attimi d’amore e il suo braccio proteso verso i miei passi prima dell’addio per un abbraccio ancora. Ma era tempo d’andare… E l’inutile nuova corsa, più lenta della prima, con occhi di pianto solo il giorno dopo. E il dispiacere di non aver prolungato quell’ultima carezza sul suo richiamo prima di andar via “Linaaaa…”. E il suo braccio proteso e la sua mano a tentare di afferrare la mia, mentre quel richiamo si faceva coltello che mi raggiunse e si conficcò nel cuore. E rimase il ricordo dei tanti giorni estivi trascorsi nella sua casa al profumo di fragranti paste all’uovo per il latte e di polpette col ragù, e di “frise e friséddhe”, “gnemmariéddhi”. E voci all’alba. E silenzi di televisione al tramonto. E storie da raccontare ai nipotini al mare a due passi dalla riva. E una casa di fioroni. E l’incontro con tutti per le vacanze d’estate… (“passò quel tempo Enea che Dido a te pensò”… era ormai la sua colta affermazione, ogni volta che litigava con nonno Mario, cosa che avveniva sempre più spesso). Oggi, quando raramente mi capita di tornare nel paese dei miei suoceri e di passare davanti a quella casa delle molte estati e delle tante parole e dei giochi bambini, mi assale uno sgomento di silenzio, di voci perdute, di presenze invisibili… E il ricordo si fa lago di scoramento e malinconia… di tante voci non è rimasta neppure un’eco a risarcirmi di tanto vuoto…

E, nello stesso anno, persi Rosa (dai fulvi capelli). Il tormentato, difficile, doloroso distacco e l’infanzia e l’adolescenza e la giovinezza fatte a pezzi nel tritacarne del dolore che non si accetta perché non può essere vero che a lei proprio a lei così equilibrata e sorridente, così amata dal suo sposo e dalla nidiata dei figli, ancora tanto bisognosi del suo amore, possa essere riservato lo squarcio di uno squilibrio devastante per un neo come fungo velenoso a strapparla ai suoi bambini, occhi d’innocente preghiera. (Pino, il figlio maggiore, al suo capezzale, in quella corsia di ospedale, a volerle trasfondere la sua anima attraverso uno sguardo di lacrime trattenute, che reclamavano a gran voce la sua vita, anche per le sorelline Marina e Anna Paola). A strapparla a suo marito, volto devastato di troppe lacrime inascoltate. (Oh, quanti giorni di parole disperate da raccontarci insieme a casa o a scuola per farcene una ragione, dove ragione non c’era). A sua madre, statua di disperata tenerezza e di rassegnata impotenza. Alla sua casa a un passo dalla mia. Vuota ormai della sua attenta, affettuosa presenza. A me che, incredula e pavida, le negai il coraggio dell’ultimo sorriso. Alla giovinezza di quella chioma di fuoco da tempo amputata come la sua gamba. Il suo andare, con le nostre spente copiose lacrime verso il cielo delle stelle chiare e luminose.

Rosa (dai fulvi capelli)… e il nostro incontro con mani bambine a stringere i nostri sette anni di scoperta di noi in case tanto vicine da regalarci un quotidiano “dietro l’angolo”, con occhi assonnati e libri da sistemare nella cartella… Rosa (dai fulvi capelli): insieme avevamo condiviso, in tutti gli altri anni sino ai quaranta, amicizie matrimoni bambini incontri e confidenze e consigli e risate per le battute al cianuro di Primo a Biagio, l’innamoratissimo compagno di vita di lei, sempre discreta e accogliente, e di Biagio a Primo, in un gioco di rimandi al vetriolo. Ma si stava bene insieme. Eravamo amici. Tanto amici. Con i giochi dei nostri sette bambini ci alternavamo nelle nostre case vicine. Con la forza dei tanti sogni sognati in due da quando, noi bambine, ci incrociammo in via della Repubblica angolo via Generale Montemar, appena ritornai dai monti del Gargano. Le nostre confidenze bisbigliate nel cortile o lungo il nostro largo marciapiede. I nostri sogni bruciati sui suoi quarant’anni appena compiuti (e il sogno del suo consegnarmi tre camicine perché le mettessi in ordine e me ne prendessi cura senza averne la possibilità e il modo, come spesso ho pensato e avrei voluto).

E sulla sua dolorosissima perdita mi fermo. Riprenderò domani non per rattristarvi, ma per attraversare insieme il buio, sicuri che dopo la notte c’è sempre un’alba che ci attende. Ange-lina

  

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