Con
l’equinozio di settembre siamo in pieno autunno. Da domani i giorni saranno
sempre più brevi. Sento l’autunno come tempo di ritorni e non so spiegarmi perché.
E, per non pensarci più di tanto, ritorno a scrivere del libro di Raffaella perché
mi piacciono tantissimo le storie che racconta, rendendo protagonisti i suoi
alunni che, in ogni tempo, hanno vissuto sulla propria pelle “fatti e misfatti”
nella scuola, ma prima ancora nella famiglia, nella comunità di appartenenza,
nell’intera società.
E parto
dalla parola Handicap che, nel suo libro, assume significati diversi e sempre
nuovi.
Handicap:
Hai
con me
Ali
Nuove
Da
Inventare
Come
Aquiloni
Per
volare
Mamma mia,
che rivoluzione! Ho cambiato
persino il
significato di una parola.
Che
disastro!
Il fatto è
che i vocabolari sanno tutto, ma
insegnante
Io
e te
Noi
Siamo
Entusiasti
Gioiosi
Nonché
felici di
Apprendere
facendo
Nuove
Trionfanti
Esperienze
Raffaella
è nella terra dei vocabolari, dove ogni parola ha un suo preciso significato
che non ammette la creatività, l’immaginazione, la fantasia. È quello e basta. I
vocabolari non hanno il suo stesso entusiasmo nel cercare il significato delle
parole: non te lo sanno comunicare con
entusiasmo, con una piccola vibrazione, un afflato. Eppure, ci sono gli esempi,
i sinonimi e i contrari, l’etimologia, i vari utilizzi, i contesti, ecc., ma
tutto è offerto in modo asettico, da sala operatoria. Purtroppo, le regole mi
sono sempre state strette, non ne trovo mai della mia taglia, proprio come i
vestiti! Le definizioni dei vocabolari sono nate per chiarire o così dovrebbe
essere, se non hai bisogno come me di fare giochi con le parole per cercare
altri suoni, altri gusti.
Mi piacciono le certezze, ma credo
sempre nell’azione benefica del dubbio, che scompagina e ti mette altra strada
da fare sotto i piedi. I vocabolari, invece, per natura eliminano i dubbi e
stabiliscono i confini dei termini. Ogni parola, lemma, vocabolo ha il suo territorio.
Abita un contesto preciso. Significa esattamente qualcosa. Non ci sono margini
di errore. Gli errori nascono dall’uso sbagliato dei vocaboli. Possono essere
sbagliati i contesti, le circostanze, in cui le parole si adoperano. La loro
esposizione può essere poco chiara o poco coerente, ma il loro significato è preciso,
dettagliato, studiato in ogni suo aspetto. Possiamo dire che ci sono parole
belle e altre decisamente brutte, ma abbiamo la
certezza che ognuna ha il suo ben preciso scopo comunicativo
Una volta cercavo di dare ad un mio meraviglioso
alunno la possibilità di ampliare il suo lessico, perché la sua povertà
lessicale, appunto, lo costringeva in un isolamento sociale e scolastico
notevole. E così ogni giorno gli proponevo liste di nomi a cui attribuire
aggettivi adatti, per non usare sempre i tre termini che
conosceva. Quella fu la volta, dopo lunghe trattative in cui mentre gli
prospettavo l’opportunità di cambiare le parole che lui mi indicava con altre
più idonee, alla parola maestra lui associò il termine “cattiva” e prima ancora
che io potessi chiedergli di cambiarlo, lui mi bloccò la mano e, in dialetto,
mi chiese senza possibilità di replica di lasciarlo così com’era. Lo scopo
comunicativo era stato perfettamente raggiunto, e la parola non aveva altri
sinonimi o poteva essere sostituita da altre. La maestra era cattiva punto e basta.
Domenico era intelligentissimo e mi ha
regalato punti di vista o di svista sulle cose, le persone, gli avvenimenti
assolutamente unici e originali, come quando nel desiderio di giustificarsi per
le sue difficoltà di apprendimento, mi disse: “Che vuoi da me io
sono nato in dialetto”.
A lui e al ricordo del mio mitico
professor Sossi ho dedicato poi il racconto che vi faccio leggere, mentre cammino
tra le parole della Lingua Italiana, qui nella Terra dei Vocabolari:
Dragongomma
Io in terza elementare mi vedevo
ancora. Cioè, mi spiego: io mi vedo sempre, sono gli altri che non mi vedono
più. Tutta colpa di Dragongomma. È lui che mi sta cancellando, un po’ per
volta, fino a quando, ne sono certo, non mi farà
sparire del tutto. Dragongomma è un drago mostruoso, che vive nascosto nel mio
borsellino. Tutto è cominciato quel giorno che, all’inizio di novembre di quest’anno
scolastico, sono andato a comprarmi una nuova gomma per cancellare. La signora
della cartoleria mi stava dando una di quelle solite gomme bianche e blu, ma
sullo scaffale più polveroso, io ne vidi una molto più grossa delle altre, verde
con una striscia rossa al centro. Mi sembrò bella. Che ne potevo sapere
io che era anche cattiva! Beh! Non ho prove per dire che Dragongomma sta facendo
tutto da solo, ma non ho più molto tempo per scoprirlo, ormai. Di sicuro, però, il giorno dopo che ho
comprato quella gomma infernale, la maestra mi ha cambiato di posto. Mi ha
messo da solo. Ero così triste di aver perso il mio unico compagno di banco che, quasi quasi, mi mettevo
a piangere. Ho strizzato gli occhi così forte che ho cacciato le lacrime indietro ma poi, quando li ho
riaperti, ho visto quella gommaccia che si muoveva. Lo so che le gomme non camminano, ma
sono pronto a giurare che, da quel momento, quella gomma verde con la striscia rossa è
diventata un drago. Dragongomma, come lo chiamo io. Io non so cosa gli ho
fatto, ma lui ce l’ha con me. E da quel giorno mi cancella, come uno che si
vuole prendere il mio posto. Prima che arrivasse lui, la maestra mi mandava a
fare le fotocopie o mi chiamava per distribuirle, oppure mi faceva raccogliere
i quaderni per la correzione, dopo, invece, piano piano ha incominciato a non
chiamarmi più. Ora, io lo so che ci sono gli altri bambini e che tutti dobbiamo
fare qualcosa, però, io non ci sono più, neanche quando la maestra interroga. La maestra, in prima, seconda e terza,
qualche volta quando alzavo la mano, mi faceva pure a me le domande. Lo so che non rispondevo
bene e che non dicevo tutte le cose. Un po’ me le scordavo, qualche volta
rispondevo con eee, mmm. Oppure le dicevo solo in mente, ma dalla mia bocca non
usciva niente. Ma è che io, però, ci ho un problema… e… em… Vabbè: io sono nato
in dialetto. A casa mia parliamo la nostra lingua.
E che comunque non è che parliamo tanto... comandiamo. Mia nonna comanda a mio padre, mio
padre a mia madre e mia madre a me. Io non tengo nessuno da comandare e sto
sempre zitto. Forse la maestra si è accorta che noi stiamo come in un mondo a
parte, però lei, prima, mi diceva “Corrado, devi studiare un po’ di più. Mi raccomando”. Ora, anche se io alzo la mano, lei non
mi chiama più. Io avrei tante cose da dire! Prima di tutto vorrei chiedere a
lei: - Perché mi hai spostato dal mio amico Gianni, che io ancora non l’ho mica
capito? - Io sono uno che non parla mai e Gianni mi capisce lo stesso. Ora non
posso più chiedere aiuto a nessuno. Io a Gianni l’ho sempre avuto dalla prima. Lui
è come una linea che mi unisce agli altri. E poi ci ha la pazienza d’impararmi
l’italiano. E poi vorrei anche dire: - Perché non mi vedi più, maestra? E soprattutto, perché non
comandi a Dragongomma di lasciarmi in pace? Prima, alzavo un dito e lui l’ha
cancellato. Poi ho aperto tutta la mano e lui l’ha cancellata. Così ho alzato
tutto il braccio più in alto che potevo e la maestra non mi ha visto neanche e
ho capito di aver perso anche il braccio. Il fatto è che ora più si cancellano
parti di me, più diventa grosso lui. La mia cartella è diventata pesantissima e
la mattina proprio non ce la faccio a portarla fino sopra. Così un giorno, Tommaso, il bidello,
mi ha detto dietro: - Ma cosa porti in quello zaino? Io gli volevo gridare: -
DRAGONGOMMAAAA! - ma non lo posso dire a nessuno che nel mio zaino tengo un drago di 45 chili, che prima
era una semplice gomma ed ora è pronto a divorarmi. La mattina è sempre più
difficile per me andare a scuola, anzi faccio tanti capricci per non andarci e invento un sacco di scuse: mal di
pancia, mal di denti, mal di gola. E mentre mamma non mi crede, io sento che
Dragongomma mi ride addosso. Mia madre a scuola mi manda sempre, pure che ci ho
novanta di febbre! Perché dice che a scuola si deve andare per forza, altrimenti
vengono i carabinieri, come erano andati a suo padre, nonno Ciccio, che stava
in campagna a raccogliere le olive e sono andati a prenderlo. Mio nonno, poi,
quando ha finito di andare a scuola è andato di nuovo a raccogliere le olive e
si è dimenticato tutto. Anche se le poesie le sa ancora e a Natale le diciamo
insieme. Io le mie e lui le sue. Prima di Dragongomma, io tenevo solo il
problema del dialetto. Adesso, invece, non so più cosa fare. Se non mi vedranno
più per niente a scuola penseranno che sto a raccogliere le olive! Ma ditemi se
sbaglio, se a scuola non mi vede nessuno, che ci vado a fare? La
maestra non si accorge neanche che è da tanto tempo, ormai, che non prende i miei quaderni per correggere.
Lo so che si stancava a segnare tutto rosso, ma almeno io capivo che avevo sbagliato.
Adesso il quaderno è tutto bianco, neanche un po’ di rosso e neppure nero,
perché da quando c’è Dragongomma che mi cancella, manco mi sforzo di scrivere. La maestra era l’unica adulta che pure
se non capivo tutte le parole che diceva, la capivo lo stesso. Maestra, sono ancora qui, per
poco, non sono completamente sparito o non ancora, almeno, perché una volta mi
è sembrato che Carlo, un compagno di classe, mi stava sorridendo. Volevo chiedergli:
- Allora tu mi vedi? - ma dalla mia bocca non mi è uscito niente. Forse Dragongomma
mi ha già cancellato la lingua. L’altro giorno poi, entrando nel portone, per errore ho fatto cadere il cartellone
degli avvisi. E Tommaso si è messo a gridare: - Chi è statooo? Ma come chi è stato? Sono stato io!
L’hanno visto Tutti! Maccè! Non mi ha visto nessuno! E allora sarà proprio giunto il mio
momento! Oggi non volevo venire a scuola, ieri non ho fatto i compiti. Non li voglio fare più! Salgo
le scale che un vecchietto di cento anni le fa prima, mi trascino. Dragongomma,
ormai, sarà diventato almeno di 450 chili! Uff! Sto per sparire e mi dovevo
pure caricare sto bestione di drago! Ho cercato di buttarlo tante volte nel
cestino, ma ogni volta non riuscivo a trovarlo.
Quello si nascondeva. Quando entro in classe non se ne accorge nessuno. Mi
siedo da solo nel mio banco all’angolo. La maestra, ormai come ogni mattina,
comincia a parlare con tutti tranne che con me. Addio, mondo! Appena apro lo
zaino Dragongomma mi farà sparire anche la testa! Con un ultimo colpo di coda
mi cancellerà tutto. Sono l’ultimo ad arrivare e per forza
ho salito a 1 all’ora! La maestra non c’è. In classe stanno facendo chiasso… Mi
siedo e aspetto l’ultima scancellata definitiva. - Ehi tu? - una voce maschile
entra nell’aula - Tu, nell’angolo! - Chi? Io? Mi sono girato verso la porta -
Sì tu, come ti chiami? - mi ha domandato un uomo alto alto con la barba e una
giacca rosa. - Mi chiamo Corrado - ho risposto appena. - Senti, Corrado, vieni
qui, fammi una cortesia. Vai a chiamarmi il signor Tommaso, per favore. Digli che
il supplente non ha firmato il registro e se mi fa la cortesia di portarmelo,
posso firmare ora, così non vi lascio soli. - Sì, vado subito! - gli ho
risposto felice. Sono andato spedito come un fulmine. LUI MI HA VISTO! LUI MI
HA VISTO! Penso, ma poi mi è presa la paura di Dragongomma. E se, quando torno,
mi cancella di nuovo? Ho paura. Ritornato, mi fermo un po’ dietro la porta semiaperta.
Fermo, che mi tremano le gambe ad entrare dentro. Il nuovo maestro sta
dicendo - Aspettiamo che torni Corrado e poi vi spiego cosa faremo in questi giorni che staremo
insieme. Cosa? Mi vuole aspettare? Ho guardato bene prima di entrare e non ho
visto Dragongomma. Così, entro e il maestro alto alto con la barba gentile mi
ha sorriso - Grazie, Corrado, puoi sederti. E a proposito sposta il banco
accanto agli altri. Gianni, allora si è alzato e ha detto - Maestro, si può
mettere vicino a me? - Certo, perché no? - gli ha risposto lui, alto alto, con
la barba gentile e con la giacca rosa. Sono confuso. Ho spostato il mio
banco... forse mi vedevano di nuovo. Gianni mi sorride e mi dice in silenzio
che è contento di avermi di nuovo accanto a lui. Andrea che sta vicino a
Gianni, dalla parte della porta, mi ha dato una pacca sulla spalla, guardandomi
negli occhi. Elisa che sta seduta dietro di noi, mi ha fatto il cuore con le dita. È che a me lei è sempre
piaciuta sin dalla prima. Mi sento più coraggioso ora! Apro il borsellino e… Dragongomma è… È
sparito! Sono tornatoooooooooo. Ben trovato, mondo!
Quanti bambini si perdono
nell’invisibilità di occhi poco attenti, di occhi indaffarati a cercare la conclusione
di una strada, quella in cui c’è scritto: finito il programma! Ma quale programma? Eppure, anche nella Scuola Primaria,
dove si lavora con tante esigenze formative diverse, si insegue l’arrivo ad una
identica meta. Sentirete sempre un gran numero d’insegnanti che dicono di essere
indietro, di non farcela a finire, di avere una mole di programma ancora da
svolgere. Ma chi arriva alla meta? Tutti o
qualcuno? E chi arranca? Resta indietro e forse alla meta non arriverà mai? Intanto
mi ritorna in mente il COME di cui parlavo prima, oggi, più che mai ci serve molto di più il come s’insegna
rispetto al COSA s’insegna. E andare a rilento rispetto a un come significa, appunto, non lasciare
nessuno lontano dalla possibilità di apprendere, mentre andare a rilento
rispetto a un cosa significa, obtorto collo, non perdere tempo a seguire tutti.
Tutto si gioca tra un come e un cosa e nel mezzo ci sono un mare di opportunità
per essere migliori, migliorabili, più felici sicuramente! Intanto, ritornano
le parole e il loro specifico significato e il loro preciso scopo. Sono loro
che ci determinano. Sostanziano le nostre azioni, ci differenziano, ci rendono
capaci di rimodularci, ci portano verso la ricerca di riflessione, verso la
conquista del valore aggiunto, verso la possibilità di comprensione, di
chiarezza, di scoperta. Prima di lasciare la Terra dei Vocabolari, voglio fare un ultimo giro nei pressi
di un altro termine che mi è particolarmente caro e che verso Consapevolezza mi sembra giusto
andare a rileggere: Talento.
talènto1 s. m. [dal lat.talentum, e
questo dal gr. τάλαντον]. -
Nella Grecia antica, unità di misura di massa e peso […], 2
Ingegno, predisposizione, capacità e doti intellettuali rilevanti, spec. in
quanto naturali e intese a particolari attività: avere molto, poco t.;essere
dotato di grande t. […] La
predisposizione è fondamentale e si va
a posizionare proprio in mezzo a come e cosa, migliorando il primo e mortificando il secondo. Tutto si può imparare, ma bisogna fare i conti con la predisposizione e un mucchio di altre cose che non posso
analizzare ora, perché il
capostazione sta fischiando, si riparte. Risalgo sul treno con mille parole
che gironzolano libere alla
ricerca di definizioni. Possibilmente
un po’ sparigliate come le increspature
del mare quando s’infrange sugli
scogli, ma non ne aveva ancora voglia.
Guardo dal finestrino: i prati, le case, gli alberi corrono con me e trovo che l’albero insegni all’erba che per arrivare al
cielo non sempre servono fusto
e rami; che le case si sostengano
a vicenda senza starsi addosso, e tutto appare uguale ma diverso allo
stesso tempo, e il peso delle cose difficili appartiene a tutti, come il fiume
ora in piena e subito dopo in secca.
Sono nel posto giusto per cercare
libri, sull’argomento che sto cercando di approfondire. Così, vado a cercare la
mia amica Alma, la libraia. Eccola è lì, ve la presento…
Alma, la libraia, né bella né brutta
né giovane né vecchia né alta né bassa né magra né grassa né bionda né bruna
magari un po’ bionda e un po’ bruna, a volte castana, forse rossa, ma di sicuro
mai fuxia, era una donna normale. Media, direi, banale. Forse uguale. Beh,
almeno simile... molto simile a tante altre persone. Ovviamente, se la guardavi
di giorno, perché già di pomeriggio fiabe sulle guance. Un vento d’avventura
tra le ciglia. Un filo bianco di paura tra i capelli. Polvere di leggenda sulle
palpebre. Imperlate di filastrocche alle orecchie. Un indaco poetico sulle
labbra. Profumo di favole sotto i tacchi degli stivali. Appariva più saggia e
molto, molto più misteriosa. I suoi abiti diventavano più romantici e si riempivano
di tante, tantissime tasche. Tasche storiche, geografiche, scientifiche,
musicali. Fiorite, profumate, scucite o abbottonate, con merletti o a
quadretti. Alcune erano a righe o di carta. Altre di stoffa. Alcune di bosco. Di
pianeti e di stelle. Le più grandi erano case per i sogni:
quelli già sognati, ancora da sognare o in attesa di un sognatore. Tasche colme e tasche
ancora da riempire. Per ogni cosa esistente al mondo, ma anche per ogni cosa che
al mondo non esisteva ancora. Chi l’aveva, così, trasformata? Il vento? Il
sole? La magia? La verità sul suo aspetto cangiante era semplice e affascinante:
dipendeva dai libri. Tutti i libri da lei letti e riletti e fatti leggere. I
libri amati, ma anche studiati e venduti. Quelli descritti e quelli cercati. Anche
quelli spolverati, sistemati o riordinati. Tutti i libri della sua libreria,
tutti i libri che riempivano la sua mente e il suo cuore. Quando tornava a
casa, Alma, la libraia, si trasformava ancora: piano piano svuotava quelle strane
magiche tasche sulla sua piccola scrivania di vecchio ciliegio; prendeva una
scatola di penne di tutti i colori e una pila altissima di fogli di carta di
ogni forma; si sedeva sulla sua vecchia sedia di quercia millenaria e...
diventava una scrittrice. E scriveva scriveva tante, tantissime storie. Nate
dai libri e pronte a diventare altri libri. Altri libri per altri lettori,
altre librerie e altri librai. Storie un po’ vere, ma anche fantastiche, realistiche,
verosimili o sognate. Piccole o infinite. Tristi o tristissime, con una lacrima
o cento. Oppure divertenti, molto divertenti, divertentissime con mille risate
e un maldipancia. Storie di persone, di popoli, ma anche di personaggi, di animali
e di oggetti e paesaggi. Di luoghi, di sentimenti o emozioni, di sensi e pure sensazioni. Di cieli e di mare, di acqua
e di fuoco, terra e vento e neve, ma anche senza neanche un po’ di bianco. Storie
di colori, quelli che tutti vedono e quelli dei gatti e dei cani, ma anche
quelli delle formiche e tutti quelli non ancora inventati. Storie già adulte o
ancora da cullare. Storie con tutti i denti o neanche uno, con tutti i capelli
o con gli occhiali. Storie per bambini, bambine, mamme e papà e pure per nonni
e persino per dottori, per i signori che non fanno nulla e per tutti quelli che
sanno pescare. Storie senza confini, ma anche brevi che stanno in una tazza da
caffè o così corte che assomigliano a briciole di pane. Dolci come le fate e
verdi e fresche di zucchine e fiori d’arancio. Storie da ogni stagione e ogni
borsetta. Rotonde da pallone o a rombo aquilone, ma anche quelle da rettangolo
per ogni porta e ogni angolo. Storie senza date e con tanti numeri, con tante lettere
oppure una soltanto, con tanti nomi e verbi e avverbi, ma anche tanti aggettivi
e molti moltissimi punti interrogativi. E con quelle storie riempiva fogli di
fogli su fogli fino all’alba, senza stancarsi, senza avere né sonno né fame. Fino
all’ultima storia, l’ultima parola, l’ultima lettera, l’ultimo punto, finché,
quando il sole entrava nella stanza, e lei non tornava ad essere … né bella né brutta né giovane né
vecchia né alta né bassa né magra né grassa né bionda né bruna, forse un po’ bionda, o un po’
bruna, a volte castana, ma anche rossa, ma certamente mai fuxia. Una donna normale. Media,
direi. Banale. Forse uguale. Beh, almeno simile... molto simile a tante altre
persone. Ovviamente se la guardavi di giorno, perché già di pomeriggio cambiava
e verso le otto di sera era proprio un’altra. Diversa, anzi diversissima
E, infine,
ecco una perla meravigliosa:
Ogni racconto parla di un bambino o
una somma di bambini. Il mio diario è un annotare nell’annotare. Un racconto nei
racconti, che all’improvviso vengono a sedersi tra i miei pensieri e non se ne
vanno finché non li scrivo. Il mio diario è un bambino che ha i vestiti di tanti
bambini. È un volto che fa la somma di tanti volti. Ci sono tutti. In un modo o
nell’altro i miei alunni sono in queste pagine e mi ricordo di ognuno. Sono
vissuti vivi che mi hanno dato tanto e li porto con me nei racconti come nelle poesie
come questa dedicata alla mia dolcissima alunna che ogni giorno mi chiedeva di diventare la sua mamma,
lei che di mamme ne aveva troppe.
Arianna tante mamme
Arianna tante mamme
ha una mamma vestito stretto stretto
e una mamma vestito largo largo
e neanche una mamma
da indossare.
Arianna tante mamme
ha una mamma grande grande
che ai suoi occhi
di rovo e bosco
non sa arrivare.
Arianna tante mamme
ha una mamma piccola piccola
che le sue mani
vuoto carezze
non sa cercare.
Arianna tante mamme
ha una mamma inverno
parole di ghiaccio
silenzio assordante
neve che cade.
Arianna tante mamme
ha una mamma primavera
parole di vento
ronzio incessante
pioggia che cade.
Arianna tante mamme
ha tante sorelle
e neanche un fratello
gioco bambino
canto di more.
Arianna tante mamme
ha tante mamme
e neanche un papà
regola fiaba
voce sicura.
Arianna tante mamme
ha una frangetta corta corta
forbici e squadre nette nette
capelli troppo lunghi
per pensieri troppo brevi.
Arianna tante mamme
ha tanti sogni e non sa sognare
canta e balla
sotto l’albero Fato
cuore di legno orecchio annodato.
Arianna tante mamme
è goccia di cielo
strappata dalla nuvola caso
carta stropicciata
bimba sospesa corsa senza fiato.
Arianna tante mamme
ha tante mamme
e un sogno bambino
che dice piano
quando cresco e
divento grande
sarò una sola madre
per il mio piccino
da chiamare piano
senza parole
che saprà a memoria
solo il mio nome.
Non ho voluto, con i miei interventi,
interrompere il flusso magico dei racconti di Raffaella. Solo qualche esempio
tra i tanti che arricchiscono di sapidità e di motivi di riflessione questo
libro, ma ho sentito forte l’impulso di farlo per accendere di luce questo
giorno autunnale, che mi mette malinconia perché lo sento presagio di inverno,
la stagione che meno amo per via del freddo, del buio che aggredisce i giorni,
degli alberi spogli che spogliano anche i sorrisi, delle notti lunghe che
allungano anche la mia insonnia e il conto dei miei lunghi anni. Ma… non mi
dilungo. Mi fermo qui. Sottolineando il punto fermo con un abbraccio. Ma non
finisce qui, lo sappiamo. Autunno o non autunno, è bello ogni volta scoprirci
insieme. E tanto basta! Alla prossima. Angela/lina