venerdì 19 aprile 2024

Venerdì 19 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

Piove oggi. Tanto. E la pioggia, che pure mi piace molto, mi sta intristendo il cuore. Per alleggerire pensieri, riprendo. Ma, anche per questo, prima di parlare di altre perdite che colmano il cuore di un “vuoto/pieno”, desidero riportare qui una lettera che inaspettatamente mi è giunta da Maria Concetta Giorgi: Carissima Lina, in questo momento così difficile per me, arrivano le tue parole. Io l’idea della morte “vissuta” in serenità, non la capisco proprio. Magari avessi avuto un nonno come il tuo! Capace di trasmettere leggerezza, soprattutto di fronte all’unica certezza che abbiamo, morire cioè. Anche io ho sempre preferito chiamare il luogo di sepoltura Camposanto e non Cimitero, a parte il discorso artistico che credo li differenzi, io nel Camposanto ci vedo la dimora dei Santi. È il Campo dei Santi. Ecco, questo, nella mia difficile comprensione della morte mi solleva. Sarà per quell’alba del dopo di cui parli, sarà perché la parola stessa mi dà speranza. I tuoi ricordi diventano i miei, l’ho già detto, ma è come li scrivi che me li rende più cari ancora. Io lo “schianto” delle abitudini di una casa, dei suoi abitanti, dei volti, dell’amore per loro, degli odori che c’erano, di quello che si mangiava e accomunava tutti, ce l’ho come te nel cuore. Io penso (ci voglio credere), che un giorno la polvere del silenzio si alzerà e risentiremo tutte le voci, noi ci rivedremo tutti. Solo questo mi dà respiro ancora. Mi permetto di aggiungere una cosa che volevo tenere solo per me, ma che oggi ho il coraggio di svelare. Per una zia che ho molto amato, per la sua casa in montagna, per un camino scavato dentro al muro, per le sue stoviglie e l’odore di umido, per il suo “acquaio” di pietra in cui l’ho vista tante volte lavare i piatti, per tutti coloro che lì hanno vissuto o l’hanno solo visitata e ora non vedo più, ho scritto una poesia molto tenera, tanto tempo fa. Pochi giorni fa, mio cugino Fabrizio, figlio di questa mia zia, l’ha voluta far scrivere sul muro di quella casa. Io ne sono orgogliosa e con te divido questo orgoglio postando due foto. I ricordi evocano immagini e se queste immagini prendono forma e consistenza, noi, i nostri amati cari, vedremo e sentiremo ancora lì. Grazie sempre, Angela D Leo, uno scritto porta ad altro scritto, e niente finisce. Maria Concetta. Grazie Fabrizio! Peccato per le due foto molto belle e suggestive che non posso condividere nel blog. Ma ringrazio anche io Fabrizio per la bellissima idea che ha realizzato sul muro dell’antica casa della mamma. E ringrazio te con profonda commozione per queste tue meravigliose parole. E devo precisare che il tuo segreto non è più un segreto perché hai postato la lettera sulla mia pagina FB. Per questo io l’ho riportata sul blog. Molti l’hanno già letta. E ora ecco anche la tua poesia per chi, come me difficilmente potrà recarsi a   Corniolo, frazione del comune di Santa Sofia (Provincia di Forlì-Cesena). Maria Concetta, infatti, vive a Cesenatico. Ma ecco la delicatissima poesia intitolata “Era verde la persiana”: È chiusa quella finestra/ è disperatamente chiusa/ rimane verde la persiana./ Chiusi lì dentro i miei anni,/ lì i miei ricordi/ cos’altro dovrò sopportare?/ Inesorabilmente troverò tutto davanti/   cucchiaini e credenze,    /    sedie di legno.   / Sentirò il profumo del freddo/ la legna in inverno/ il fresco primaverile uscirà aprendo i cassetti./   Il giorno che spalancherò   /   voleranno lenzuoli bianchi   /   fiumi di polvere si alzeranno   / rivedrò il camino scavato nel muro /   ci saranno di nuovo tutti   /    tutti loro.

Come non commuoversi? E Maria Concetta mi ha mandato un delizioso racconto in cui la protagonista è Emma, la zia tanto amata. La potrete leggere nelle prossime pagine del nostro blog. I buoni sentimenti vanno condivisi. Ci arricchiscono sempre di conoscenze e di speranza. Ma ora è tempo di riprendere a ricordare chi ho amato e perduto. Il mio personale calendario continua: dopo il 1995, ben presto un’altra terribile perdita cominciò a profilarsi all’orizzonte sempre più insanguinato di vuoti e di dolore.

1996: La mia amata cognata Maria Nilde, con cui avevamo condiviso vacanze e confidenze e serate in allegria e la gioia di una maternità che ci faceva complici e chiacchierine oltre ogni altra nostra bellissima intesa. Da un anno aveva cominciato la salita di un calvario durato due anni e che ben presto l’avrebbe portata sul Golgota della sua arresa resistenza. Guerriera di una sconfitta che le precludeva impietosamente la possibilità di continuare ad avere braccia d’amore per sua figlia, ancora tanto giovane e con lei in simbiosi, e occhi di luce per l’ineguagliabile suo compagno di vita. Lei, quasi seconda madre per Daniela, che condivideva con sua figlia Raffaella molti giorni di sole e altrettante notti di stelle da raccontarsi per esprimere desideri su quel mare di incanti che ancora tutti ci stregava. In quella culla meravigliosa di monti e di mare, che tanta storia di noi conservavamo intatta nel cuore: Manfredonia!

Ricordo un ultimo abbraccio, con Nicola a mettere i primi passi per raggiungerla, e Raffaella, mia figlia, a massaggiarle i piedi dopo i suoi occhi a pregarla di farle quell’ultima carezza… Poi, alcuni giorni dopo, sotto una pioggia battente, la corsa in macchina per il saluto che sapeva di chiesa gremita, di lacrime più rovinose della pioggia e degli occhi spenti di sua madre, vinta e disperata.  

(Maria Nilde mi manca anche se con mio cognato e con la sua bambina, oggi non più bambina ma madre di due splendidi figli quasi adolescenti, non ci incontriamo mai e ci sentiamo molto raramente. Solo ai matrimoni e ai funerali. Abbiamo entrambi una vita socio- culturale molto intensa a cui bisogna aggiungere il suo impegno politico dal 1996 ai nostri giorni. Frequentissimi un tempo, oggi i nostri messaggi sono molto rari. Sono quelle lettere d’amore che non giungono mai a destinazione. Rimangono nel limbo delle buone intenzioni). Purtroppo anche questo accade nella vita… e continuo a sfogliare il calendario per meglio ricordare, meglio dimenticare…

Nel 1998, intanto, Primo, a causa della pressione alta, da tempo diagnosticata e da lui sempre   trascurata intenzionalmente per evitare di prendere la pillola per tenerla sotto controllo, ebbe alcuni preoccupanti episodi di TIA che lo costrinsero a vari ricoveri in diversi ospedali del capoluogo e in tutta la provincia. Poi, il suo costante miglioramento, dopo il ricovero presso “La Casa di Sollievo Della Sofferenza”, voluta da Padre Pio a San Giovanni Rotondo, ci restituì un po’ di serenità. E gli diede il coraggio di fare domanda di pensionamento. Inizio di nuova vita che si intrecciò ben presto con un nuovo germoglio nella nostra casa.                                              

1999: ANNA PAOLA. E fu nuova magia quel germoglio di rinnovate promesse. La sua nascita nel giorno in cui rinasce primavera. Tripudio di fiori. Luce di sorrisi. Nuovi giorni da vivere tra progetti e rimpianti. Giochi e attese. Impegni e viaggi. Passi ritrovati senza più l’allegria delle passate sintonie, vergini di incontri altri e altri tormenti, vissuti nei silenzi delle sere delle spente risate. E, per fortuna, solite Vacanze d’estate. E il nuovo millennio a scoprirci tutti con una riaccesa speranza nel cuore, tra brindisi e girandole esplodenti di luci e la nostra allegria, che ignorò le lacrime di mamma in un presentimento che non volle dire.

2000: L’ultima estate serena. Ora, in un villaggio chic a pochi chilometri dalla bellissima Otranto, terra di martiri e di mare, terra di riproposti incanti nelle stradine di souvenir e ricordi amari di turchi e saraceni. E poi ancora altre rive e tramonti in quella penisola di vento e d’ulivi baciati dal sole, nella più grande penisola dalla caratteristica forma di uno stivale, la nostra bella Italia, che il mondo attraversa, percorre, invade e invidia. Ma, con le prime piogge d’autunno, il cielo si coprì di nembi e di bui giorni alla deriva: Anna Maria e la necessità di un intervento a cuore aperto. E mamma e Gianni e le figlie sempre con lei. A pregare per il suo ritorno a casa.

Io, in un’altra clinica a Roma, dove dovemmo ricoverare Ombretta per il suo ricorrente problema da malattia autoimmune, a pregare con il suo ragazzo perché tornasse a casa, dopo mesi di terapia sbagliata e corsa in un altro centro nel tentativo di salvarla.

Lo stress piegò la delicata fibra di mamma e si era ormai a dicembre del nuovo millennio.

1° aprile 2001:

Fu un devastante addio che ci vinse solo un anno e pochi mesi dopo quel Capodanno, che segnò a caratteri cubitali nella Storia il primo anno di un nuovo secolo a regalarci illusori refoli di risorte umane utopie. Perdemmo MAMMA, in un lago di disperata corsa al suo sorriso. La perdemmo in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e profondi abissi di nuove speranze e nuove disperazioni. E il suo sguardo sempre più dolente e malinconico. Pensieroso e stanco. E l’ultimo nostro Natale e l’ultimo Capodanno, vissuti insieme in quella che era stata la nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una villa bellissima al centro del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui fanno capo Isabella e Nicoletta con la loro nidiata di bimbi ora adolescenti o quasi. Tutti nella antica casa senza più il gelso e con poche rose ma con tanti altri alberi e fiori… Ma allora allora allora… Allora fu tempo di nuove lacrime per tutti, nascoste maldestramente tra ciglia di dolore per un mostro tentacolare che si era ripresentato dopo anni di quiescenza e di tranquilla certezza di averlo debellato senza gravi danni per la sua salute. Mamma. E il suo andare, volto preoccupato e passo leggero e il cappellino verde di morbida lana a incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua compagna di vita ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un mago della chirurgia oncologica. Furono tre mesi altalenanti di notizie mai chiare mai scure.

E la decisione di raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina in volo sulla corsia di sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna Maria impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo compleanno. Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore. 

Mamma era lì, inerme e sperduta, spaurita e gracile, dopo due interventi che ci dissero risolutori, ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e bianche rose d’ogni mese ornavano il viale che portava alla sua camera al pianterreno di quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo vederla prima che ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e teneramente aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di riabbracciarci con mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in segno di saluto ed erano affaticate farfalle in lento volo. Pioveva in quei giorni di ansia e di paura. Una pioggia né buona né cattiva, una pioggia d’attesa. Poi… improvvisamente il sole. La sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché potesse lasciarsi riscaldare dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma lei rimase con occhi vuoti senza guardarlo. (“Mamma, hai visto? C’è il sole! È finalmente una bella giornata!”. Silenzio e occhi spenti. “Mamma, possibile che non ti rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”. Silenzio e occhi spenti. “Ma come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio di sole dopo tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si astenevano. Silenzio e occhi spenti. Silenzio. Laghi di pianto trattenuto gli occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini, noncurante del sole della bella giornata delle mie parole a rincuorarla.

Alcuni anni dopo, solo qualche anno fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza da una finestra d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono ricordata di lei e del suo rifiuto inerme. Non più quel suo sorriso sempre pronto e generoso nel lenire ferite. Compresi e mi disperai per quella mia insistenza fuori luogo in un momento così difficile e doloroso per lei. Le avevano annunciato il terzo intervento nell’arco di appena tre mesi. Ed era disorientata. Impaurita. Disperata. Anch’io non ero in condizione di godere del sole e della sua luce luminosa in quel centro di riabilitazione in cui mi sentivo debilitata. Anch’io evitavo di guardarlo per non provare la ferita di dovergli probabilmente dire addio. Come avevo potuto pretendere che lo guardasse lei che aveva i giorni contati e lo sapeva? Come poteva sentirsi rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non avevo capito niente di mia madre e della sua anima prostrata e vinta!

Come si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di chi amiamo? Evidentemente si può. (Ma oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità. La nostra affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella stessa galassia). Quella strana inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era purtroppo accaduta anche tra me e mamma. Mio malgrado Suo malgrado. La salutammo mentre la portavano in sala operatoria con l’ultima figlia che la seguiva passo passo, e mi sembrò un uccellino spaventato e tenero con quella sua cuffietta di lana rosa per non prendere freddo ed era una bimba alla prima passeggiata all’aperto. Aveva la stessa aria stupita, non d’incanto infantile per la scoperta del mondo, ma di disincanto per un mondo conosciuto amato ignorato perduto. Ci aveva raggiunto anche Mimmo, che porta il nome  di mio nonno modernizzato e che fisicamente gli somiglia molto. Ed ora eravamo tutti con lei e per lei a sperare e a pregare. Mancava solo Anna Maria, presente con continue telefonate. Il chirurgo-mago ci tranquillizzò, ci disse che potevamo tornare a casa perché di lì a qualche giorno sarebbe tornata anche lei. Avremmo dovuto usare accorgimenti e precauzioni, ma il peggio era scongiurato. Rincuorati, ripartimmo per preparare la sua camera con tutti i comfort ad accoglierla. Durante il viaggio di ritorno, facemmo progetti per lei. Io mi ripromettevo di esserle più vicina come non lo ero mai stata per tutti gli anni precedenti. Ora sarei stata più libera (il 2000 aveva segnato la interruzione a tempo indeterminato dei Concorsi nella scuola!) e mi sarei dedicata esclusivamente a lei. L’avrei portata in vacanza con me. Saremmo state finalmente insieme. Progetti che ebbero il respiro breve di quel raggio di sole in quei giorni di interminabili piogge di inizio primavera, che tardava a giungere e che io sognavo per lei tiepida e con passi di rugiada. Il luminare avrebbe dovuto dirci che “il peggio sembra scongiurato”, non che “è scongiurato”.

Quella notte del ritorno sognai mio nonno. Stavo camminando sull’orlo di un burrone di cui non vedevo la fine, tanto buio era il fondo da non distinguere se vi fosse un bosco fitto di alberi cupi o il mare con la sua nenia sommessa o la pianura con i suoi campi coltivati. Mi sentivo sola e disperata e non sapevo perché stessi camminando proprio sul ciglio della strada in quel silenzio spettrale e in quella oscurità così spaventosa. Ad un tratto, lo vedevo seduto proprio lì sul bordo di quell’orribile precipizio a guardare nel vuoto. Lo invocavo, dapprima senza voce. Poi, avevo preso a chiamarlo con voce sempre più forte e disperata, ma non si girava. Ostinatamente continuava a guardare verso l’abisso senza rispondermi e senza voltarsi. Sembrava sordo ad ogni mio richiamo. Mi svegliai sudata e spaventata con un brutto presentimento, confermato da una telefonata concitata che ci informava che stavano portando mamma in ambulanza con il pericolo che morisse per strada. Purtroppo mamma aveva avuto un improvviso repentino peggioramento. Una dottoressa, nostra cara amica, Teresa A., si assunse la responsabilità, con grande coraggio, di permettere il trasferimento, da quell’ospedale del Nord nel profondo Sud della nostra casa, in un’autoambulanza privata, con lei sempre vigile al suo fianco e con nostra sorella, attento angelo a colmarla di carezze. Giunsero stremate entrambe, madre e figlia, tra lacrime brevi, e parole affaticate e non sempre lucide. Due giorni appena rimase con noi tra spasimi che ci destabilizzavano e tenui sorrisi di affettuosi addii. Ci lasciò stanca di aspettare e di soffrire all’alba della domenica e ci sembrò un pesce d’aprile, uno sberleffo atroce sul nostro pianto a lasciarla andare. Capii allora il perché dell’ostinato silenzio di mio nonno. Era il suo modo di dirmi “non posso farci niente, questa volta non posso aiutarvi”. Anche Teresa, la vedova di Filippo, figlio adottivo del nonno, quella notte aveva sognato suo marito che le diceva che era passato a salutarla perché era venuto a prendere comare Melina, la sorella che non aveva mai avuto e che aveva tanto amato. Per portarla tra le stelle da tutti gli altri che erano in attesa di riabbracciarla. Si affrettò a raccontarcelo tra le lacrime mentre stava lì con noi a darle l’ultimo bacio. E finalmente la sentimmo al sicuro tra le braccia che tutti accolgono con infinito amore.   

E solo dopo, solo dopo ho capito molte più cose di lei. Della sua sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei tanti rosari dei comportamenti sbagliati con lei, anche con lei. I lunghi silenzi. I rarissimi incontri. La solitudine dolente che le procuravo (ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai le cose che devi fare… vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora…)

Ed ora che mi manca come il respiro, lei non c’è nella sua casa per andarla a cercare e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con i baci mai più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue guance di pesca chiara. Mi conforta a malapena il ricordo dei rari incontri nella sua casa e del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi leggeri con le labbra e i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in uno sguardo di illimitato perdono…

E anche oggi non posso continuare. Ho lacrime cocenti ad impedirmelo. A presto. Lina

  

mercoledì 17 aprile 2024

Mercoledì 17 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

Riprendo a raccontare, ma per non coinvolgervi esclusivamente nella condivisione consolatoria del dolore, cerco di intervallare vicende tristi con altre più leggere, legate anche alla nostra vita sociale e culturale, mia e di Primo, che nel frattempo mettevamo al mondo altri figli fino a veder nascere i nipoti, motivo di rinnovata gioia, di mai perduta speranza. Ma, intanto, non posso fare a meno di ricordare che, dopo due anni di relativa calma e di rielaborazione del dolore ancora vivo per la morte prematura e ingiusta di Rosa, ecco il 1986: Fu un anno che riprese a sanguinare con la morte di babbo.

21 ottobre 1986. Babbo: E la sua tristissima fine dopo una settimana di semplici controlli di routine al policlinico, conclusisi con la sua resa incondizionata. Il Moloch di tutti i miei terrori passati ridotto ad un essere inerme coperto di lividi su tutto il corpo e addome gonfio e occhi chiusi. La sacca delle urine quasi vuota. Il liquido rossastro rappreso. La morte ad alitargli sul viso. Stente parole di abissale dolore. Il nostro parlarci senza incontrarci. Altro deluso mormorio. Altro acuto rimpianto. Anche lui andò via lasciando mamma spaurita e spaventata come era accaduto a nonna Angelina dopo l’ultimo saluto a nonno Mincuccio. Tornava il dolore. Tornavano atmosfere solo apparentemente dimenticate.

(“non piangere mi raccomando non piangere”… qualcuno con dolcezza per telefono: tutta la dolcezza che mio padre non aveva saputo usarmi “non piango no non piango”…)

E furono, gli anni Settanta-Ottanta, i lunghi “anni di piombo” che arrossarono il nostro Paese e ci fecero arrossire di rabbia, paura, dolore per un mondo devastato dall’odio e da sanguinarie rivendicazioni delle BR (Brigate Rosse) che scrissero col sangue di molti innocenti gli “anni di fango” (Indro Montanelli e Mario Cervi): dall’uccisione di Calabresi al sequestro e morte di Moro e di tante altre povere vittime nella stazione di Bologna e non solo. Sarebbe troppo lungo fare qui il tragico elenco dei morti di quegli anni. Stragi che hanno urlato il dolore fino al Cielo dei condannati. Ma, per fortuna, quelli furono per noi anche gli anni delle sempre attese e lunghe vacanze dai nonni nel Salento, in una villetta a due passi dal mare con il pozzo l’altalena il fico grandioso ad attenderci con i suoi frutti, e i giochi e le mille voci bambine in quella “via dei ragazzi” di chiacchiere e passeggiate e una voglia di stare tutti insieme dopo il lungo inverno di impegni e passi lontani.

La vita che rivendica il diritto alla vita. Ma appena due anni dopo la morte si riaffacciò al nostro orizzonte devastato.                                                    

1988: fu la volta di Nonno Mario. Perdemmo per strada in quegli anni anche lui, il padre di Primo.

Dopo sei anni di ritrovata serenità accanto a una nuova compagna di vita, discreta, attenta, innamorata del suo uomo e di tutti noi. Lo curò con dedizione fino al giorno del suo andarsene con stanco addio e forse senza rimpianti. Primo, dopo la telefonata quieta e allarmata di nonna Francesca, arrivò a casa che annottava. Tre anni prima era diventato Dirigente Scolastico ed ora era fuori a dirigere una scuola nell’Italia centrale. Di notte riprendemmo a viaggiare insieme nella speranza di trovarlo vivo. Sì. Il tempo ci accordò il suo spazio. Ci riconobbe. Ci sorrise. Senza parlare.

Non ci furono più parole. Nonna Francesca ci fece accomodare in salotto e ci disse di riposare perché la notte sarebbe stata lunga e perché fosse lei a raccogliere il suo ultimo respiro. Gli altri figli sarebbero arrivati all’alba. Chi da lontano. Chi da soli pochi isolati di distanza.

Stanca e febbrile attesa: Ci incontrammo tutti e scoprimmo tutti di voler bene a quella donna che in silenzio aveva dato a nonno Mario sei anni di cure, attenzioni, amore. Senza mai chiedere nulla per sé. Felice di avere una famiglia grande, dopo un matrimonio senza la gioia di un figlio e la morte prematura del primo marito, curato con altrettanta premura e altrettanta abnegazione. Nonna Francesca era una di quelle persone sagge ed equilibrate che ti riconciliano con la vita e ti fanno credere ancora nella bontà e nella onestà del genere umano.

 1989: Dopo appena un anno, però, dovetti ancora cedere al pianto, questa volta mio soltanto, in un franare di pietre e di alberi, dando le spalle in fuga alla casa del gelso e delle rose, la nostra antica casa, in via Generale Montemar angolo via della Repubblica. Durante l’intervallo di tregua breve da ogni rinnovato dolore, dovetti dire addio al cortile che avevamo ereditato io, Lizia e Anna Maria, le tre figlie maggiori, e che Anna Maria aveva rilevato per intero, progettando una casa diversa dove abitare con le due figliolette a restituirle Nicola nei volti e negli occhi, e con Gianni, suo nuovo attento e premuroso compagno dopo oltre dieci anni di lacrime e solitudine, così come aveva predetto e promesso il suo perduto amore nell’ultimo sogno a parlarmi di lei.

Il restauro richiedeva la ricostruzione della vecchia struttura con innovazioni per migliorarla e renderla più confortevole per la nuova famiglia (Quella mattina ero riuscita a ricavarmi un paio di ore di libertà e avevo deciso di trascorrerle con mamma, in eterna attesa di una mia visita sempre più sporadica e breve. Mio eterno rimorso, mio inconsolato rimpianto. Girai l’angolo e… ancora una volta i residui stracci d’infanzia adolescenza giovinezza mi piovvero addosso con quel mucchio di pietre che fino al giorno prima era stato il giardino da cui spuntavano i verdi rami degli alberi da frutta. Schianto annunciato. Schianto improvviso. Schianto. Per un attimo, vidi mio nonno seduto all’angolo dove di solito posizionava la sua sedia tra la saracinesca, il cortile e il muro del giardino. Lo vidi che mi aspettava con la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia giovinezza miracolosamente ancora intatte per raccontarmi ancora la fiaba di noi due inseparabili sempre, e ormai lontani da quella casa del gelso e delle rose, lui nel suo altrove, io nella mia casa dei lunghi balconi e lunghi corridoi. Ma io avevo occhi di lacrime che mi impedivano di vedere le sue labbra mormorare nuove parole di antichi richiami e negli orecchi il rumore assordante del muro crollato e degli alberi abbattuti e dei nidi dispersi e degli antichi pulcini sparpagliati e delle voci degli ultimi nipoti in armonia con quelle dello Zecchino d’oro nel cortile ora sventrato (dall’uovo… gobbo/ di una gallina… zoppa/ nacque un pulcino che zoppicava un po’/ il padre… gallo/ impazzito dalla gioia/ nel suo pollaio/ una festa organizzò…// tic e tocche tic e tocche/ il pulcino dopo un po’/ ticche e tocche ticche e tocche/ a ballare incominciò/ tre galletti verdi e gialli/ professori di hally gally/ al pulciino balleriino/ gli gridarono così/ chicchiricchì…).  E il disperato canto degli uccellini senza rifugio e senza bocche da sfamare e pigolii da capire. Voltai le spalle, come da bambina facevo con mamma per non vederla andare via, mentre mi giungeva la sua voce accorata “Lllinaaa…”. E, oltre l’angolo, vidi le mie lacrime correre verso la mia nuova casa, il mio presente, la mia pena di vivere oltre il tempo del nostro stare tutti insieme. E nella mente mi devastava il canto:era una casa tanto carina/ senza soffitto e senza cucina,/ non si poteva entrare dentro/ perché non c’era il pavimento./ Non si poteva andare a letto,/ in quella casa non c’era il tetto./ Non si poteva far la pipì/ perché non c’era vasino lì./ Ma era bella bella davvero/ in via dei matti numero zero./ Ma era bella bella davvero/ in via dei matti numero zero”… (la mia voce dispiegata in silenzio e Sergio Endrigo con la sua pacata tristezza a consolarmi).

Ma tutto passa e tutto ritorna nell’incessante movimento dell’esistere: Il mare la sua risacca. E nascite e morti ancora. I due poli estremi della vita e in mezzo giorni senza date, senza nomi, senza definizioni. Furono vissuti? Sì, furono vissuti, se mi vengono incontro scampoli di ricordi, orlati di gioia alcuni, e altri ricamati di pianto. Dall’amalgama indistinto del passato più recente si definiscono via via i contorni sempre più chiari di altre condizioni di vita, altri sogni e ideali e progetti, altri situazioni. E nuove voci e nuovi richiami e nuove storie a venirmi incontro dai muri delle nuove case, dalle strade e le piazze, che mi hanno vista sempre più decisamente viandante e sempre più prepotentemente fuggitiva…

Le prime pubblicazioni proprio in quegli anni. Le prime presentazioni in un gruppo di amici poeti e scrittori con spirito pioneristico e rivoluzionario. E le Mostre di Primo come pittore e le pubblicazioni delle sue poesie e Convegni culturali con grandi nomi della Letteratura Italiana e mondiale: Dacia Maraini, Silvana Folliero, Mariella Bettarini, Desanka Maximovic (la più grande e longeva Poetessa Serba) e altri grandi poeti Serbi, tra cui Dragan Mraovic, per oltre quarant’anni mio fraterno amico, Jorge Amado, e il poeta cileno German Rojas… e… e…  E la mia caduta di lì a poco. La caduta ad una festa e il tac del femore spezzato. A distanza di altri lunghi anni da quelle cocenti perdite, da quelle esaltanti esperienze di autentica poesia.

E si era nel 1993: Oh, se non ci fossi mai andata a quella presentazione di un libro di poesie, a cui Primo non avrebbe voluto partecipare. Insistetti. L’autrice era una mia cara amica che ora non c’è più. Non volli darle un dispiacere. Ancora oggi sconto pesanti e dolorose conseguenze per quell’appuntamento con il Destino o Karma a cui non seppi sottrarmi. Una brutta frattura solo da me immediatamente avvertita, mentre ben cinque luminari della medicina e chirurgia, ignari della mia resistenza al dolore, mi fecero alzare con la gamba ciondoloni. Mi fecero camminare: tentativo inutile, dolorosamente da me assecondato, per obbedire a chi ne doveva sapere più di me che, invece, sapevo e resistevo, senza un solo lamento, per non svenire. (Ma il dolore guardato e non vissuto non si vede e non si sente. Si può solo intuire dalla mimica del volto sofferente. Dalla postura sbagliata, dalla difficoltà del respiro o di un movimento, ma l’intensità del tormento fisico e la resistenza alla sofferenza sono appannaggio solo di chi le prova e fa immediatamente i conti con sé stesso). Mi caricarono sulla macchina di Pinuccio, spingendo dentro la gamba che non obbediva… Giungemmo come Dio volle o non volle (non me lo chiedo più) al primo ospedale e lì finalmente diagnosticarono una frattura del femore sottocapitata e scomposta con immediato ferro come proiettile e senza anestesia a trapassare il ginocchio e immobilizzare la gamba. Intervento non corretto. Firma e fuga al CTO del capoluogo e intervento con viti canulate per salvare il mio femore ed evitare la protesi.

Illusione di poter risolvere il problema in poco tempo perché Raffaella e il suo ragazzo occhi-verdi stavano preparando il loro matrimonio e mancava poco più di un mese alla cerimonia, che dovettero organizzare da soli e tra mille difficoltà.

Alle loro nozze mi presentai con le stampelle a reggere una gamba enorme e tutte le spente speranze, riaccese di verde negli occhi di Peppino, unico immenso amore di Raffaella. E fu una notte di stelle, che solcarono il cielo in una pioggia di sogni che avrebbero colorato anche i giorni dei difficili passi e dei rimandati sorrisi. E, in quella pioggia di stelle, io ferita nel corpo e nell’anima, intravidi il   preoccupato sorriso di mio nonno e quello della nonna al tuo fianco. Consolazione di ogni perdita di ogni inganno di ogni muto dolore. Quante illusioni, però, sotto la pioggia luminosa di quel cielo d’agosto!… E quante delusioni! Quante! Sotto un cielo solo mio, che altri ignoravano! Cielo dal respiro breve di migliaia di stelle, interrotto, solo tre mesi dopo, dalla perdita del padre del giovane sposo, l’ingegnere-poeta Nicola Piacente del giovane sposo. Nicola Piacente. Per me perdita del suo saluto mattutino alla luce di canti e incanti affettuosi tra consuete sue geometrie di progetti di multipiani da realizzare e mie poesie da condividere in un intreccio di sintonie culturali ad una voce. Perdita dei suoi aneddoti, veri poemetti, nel nostro dialetto duro e imperioso, che connotavano tutti i paesani con “Rə sopannòmərə (i nomignoli), che meglio identificavano una persona, la sua famiglia, il ceppo d’appartenenza, lavoro, professione, modi di dire o di essere, difetti e rare qualità.

Qualche anno prima aveva dedicato una tenerissima poesia nel nostro dialetto a Raffaella, a cui Primo aveva aggiunto un ritratto con inchiostro di china in un abbraccio di capelli e di sogni. Mani protettive e tenere ad avvolgerla tutta. Purtroppo, però, seguirono giorni difficili e amari…  E voci che si perdono e volti che spariscono sostituiti da altre voci che nascono, da altri volti da altri incontri amori lacrime rinunce rifugi in vie di deviazione per rinascere sempre, rinascere ancora (non mollare non lasciarti vincere dallo scoramento di passi che non t’appartengono e che prendono altre vie dimentiche di stelle… non mollare stringi i denti risali la china non mollare…)

 E, intanto, sembrava tutto superato per la mia gamba protesizzata, con due ortopedici supervisori venuti dalla Francia. Primo pianse di gioia. E mi accarezzò con gli occhi di tenere lacrime. Ma io non mi attenni alle regole. Ripresi a lavorare piegata sull’unica arteria che alimentava la testa del femore, che andò in necrosi, circa due anni dopo.

1995: Ricerca affannosa del nuovo chirurgo per il nuovo intervento. E sotto il cuore di Raffaella a battere un nuovo cuore. Me lo dissero dopo una ulteriore visita ortopedica presso un luminare francese venuto da Saint Etienne nella Capitale; visita brevissima che mi lasciò l’amaro in bocca. Il luminare non era più in grado di operare. Nulla di fatto sul versante protesi. Ma quel segreto mormorato a fior di labbra quasi fosse sogno fu subito felicità. Poi, la corsa a Lione, con Peppino, Raffaella e Nicola a pulsare sotto il suo cuore (ormai le ecografie all’utero erano in grado di evidenziare il sesso del nascituro), per la nuova speranza di camminare come un tempo (“professore mi operi lei, solo di lei mi fido e a lei mi affido”… “signora, non si preoccupi: questi interventi li faccio ad occhi chiusi”… “sì, ma li tenga bene aperti, professore”…). Le mie ultime “parole famose” mentre l’anestesia obnubilava mente e luogo e tempo e... Nuovo inganno, nuova delusione, nuovo dolore. In una clinica privata di lusso che prometteva prodigi col verde di giardini fioriti per ogni camera/suite e tanto felpato tepore di mani esperte ad alleviare la sofferenza a coltivare sorrisi e laute mance, dovettero pregare perché ne uscissi viva. Per fortuna, il ritorno fu incanto di Costa Azzurra tra merletti di mare in una Montecarlo che ci affascinò per la sua abbagliante bellezza, e il palazzo del re a frastagliarsi di scogli e la corsa automobilistica di Formula 1 nel serpente di larghe strade e stretti tornanti. E, come d’incanto, due mesi dopo, s’affacciò al nostro mondo quotidiano, per farsi amare, il nostro bambino già viaggiatore NICOLA. Col nome del nonno paterno che non era riuscito ad attenderlo. Un nome che aveva anche echi lontani di giovane sposo e padre innamorato, rimasto nel cuore di tutti noi: mio cognato, marito di mia sorella Anna Maria. Giovane sposo tanto amato e fatalmente perduto nello spazio di un temporale.

Nicola, il nostro bambino, nato di notte, fiore di rossa estate nel prato verde del panno a coprirlo neonato, per la gioia delle nonne a mangiarlo di meraviglia e di baci. La vita riprese a sperare. Riprese a vivere. Io ripresi a camminare. Male. A tentare nuove vie per ritornare ad essere quella di prima. Invano. E a nulla valsero le vacanze a Palma di Majorca, le strategie di rivalsa sulla sorte con il nipotino da coccolare. Per lui non ebbi neppure una fiaba. Solo tanto amore racchiuso tra ciglia di altalenante speranza/disperazione. Perdita dell’identità fisica e perdita della identità più profonda. Persa per sempre Lina che piroettava col sassolino nella scarpa per essere ammirata e applaudita nella bianca innocenza dei suoi brevissimi anni. E si perse tutti i giochi il mio bambino con una nonna chiusa nel suo dolore muto e inespresso. Non ebbi per lui che stenti sorrisi. Ma tanto tanto cuore.

Mi fermo qui. con tutto il cuore possibile che palpita, nel bene e nel male, in queste pagine, che sanno di me e della vita di ciascuno di noi… Grazie sempre! Angela/Lina

 

 

martedì 16 aprile 2024

Martedì 16 aprile 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE...

Dove se n’è andato Elmer

Che di febbre si lasciò morire

Dov’è Herman bruciato in miniera

Dove sono Bert e Tom

Dormono, dormono sulla collina

Dormono, dormono sulla collina

(Fabrizio De Andrè, Sulla collina)

Oggi sempre più attraverso tempi di silenzio e di dolore, dati i miei lunghi anni e i problemi di salute che non mancano, e sento sempre più il bisogno di condividere la mia muta preghiera con quanti, negli anni, hanno raggiunto il Cielo, ma VIVONO quotidianamente nel mio cuore. Di condividerlo sul nostro blog. Mi sembrerà più facile abbracciare insieme la croce del dolore. E parto dalla perdita più grave e da una data segnata a caratteri cubitali nella mia anima.

1967. 11 gennaio: il mio amatissimo nonno-papà. Il protagonista di quasi tutte le mie storie, le mie poesie.

< Sempre, nei tuoi ultimi anni con noi, mi sorprendevo più volte a pensare che accettavi la morte delle persone care con serenità, come naturale epilogo della vita (ho detto addio a Michelino… ho salutato per sempre fra’ Francesco… se ne è andata nonna Anna… ho perso il mio amico Vincenzo… e Giovanni ci ha lasciato…). Quando eri ancora in grado di camminare di buon passo, spesso ci portavi con te e con la nonna al cimitero, che voi chiamavate, come tutti gli altri del resto, “u cambəsàndə” (il camposanto), che a me piaceva molto di più del termine “cimitero”. Il camposanto sapeva di silenzio e di preghiera, di luogo sacro e benedetto. Il cimitero ancora oggi non mi comunica alcuna emozione. Solo tristezza. Con te e la nonna andavamo a visitare nella Cappella di San Michele e in quella più piccola della Madonna di Loreto i tuoi genitori, fratelli e cognate e quelli di nonna Angelina. E anche allora registravo la tua serenità di fronte alla morte (una volta, dopo aver comprato i loculi per te e nonna, proprio nella grande Cappella di San Michele, ti sentii persino scherzare con lei, che rabbrividiva al pensiero che un giorno sareste stati chiusi dietro quelle lapidi, ammiccando alla sua paura: mè, ca pòuə n’ama təzzuà da ‘na vànnə all’àltə pə fànnə quàlchə rəsàtə o ‘nu dəscùrsə pə nàn pèrdə l’abətùdənə a racchəndànnə fəssàrè, cə cə sə nòn pòuə cè prìscə stèjə a stà sémbə cìttə cìttə e sòutə sòutə?”… (“dai, che poi ci dobbiamo bussare da una parte all’altra per ridere e conversare insieme per non perdere l’abitudine alla chiacchiera, altrimenti poi che allegria si può provare a stare sempre zitti zitti e fermi fermi?…”) (e il “priscio”, termine prettamente bitontino, ha un significato del tutto particolare: è più dell’allegria e meno della esultanza. Ha in sé qualcosa di atteso e di raggiunto. Un compiacimento carico di sottintesi e, nello stesso tempo, scoperto, condiviso. Una sensazione meravigliosa di compiutezza da vivere tra chi si vuol bene o nella intimità della propria anima…)>. (dal solito mio romanzo: Le piogge e i ciliegi, vol.II).

Mi torna alla mente, a tale proposito, quanto la grande poetessa Emily Dickinson abbia espresso magistralmente nella poesia “Morii per la bellezza” (1862): Morii per la bellezza - ma ero appena/ sistemata nella tomba/ che uno che morì per la verità fu deposto/ In una stanza attigua -/ Mi chiese piano “Perché sei mancata”/ “Per la bellezza” risposi -/ “E io - per la verità - sono la stessa cosa -/ noi siamo fratelli” disse -/ Così, come congiunti che si incontrino di notte/ - parlammo fra le stanze -/ finché il muschio raggiunse le nostre labbra -/ e coprì - i nostri nomi - (E. DICKINSON, Poesie, trad. it.M. Bagicalupo, Oscar Mondadori, 2004)

<Avevi vissuto una vita intensa ed eri in rassegnata pensierosa attesa di lasciarci per andare incontro ai tuoi tanti figli che sicuramente erano pronti a riabbracciarti tra le stelle. Anche il campo dei ciliegi era stato venduto e il giardino dei laghetti. Si avvertiva ormai un senso di vuoto, di provvisorio. Ma occorre tornare un po’ indietro per mettere a fuoco quello che vivemmo e come affrontammo i due anni terribili del tuo calvario: Io e Lizia dormivamo ormai nell’appartamento di mamma e babbo, nella grande cucina che si era trasformata in camera da letto per non profanare il loro letto. Mamma dormiva con la nonna per essere d’aiuto sia a lei che a te. Non l’avevo mai vista così affaticata e stanca. Era ingrassata. Si trascurava, lei che aveva sempre avuto il culto della persona e della bellezza. Io l’avevo sempre vista completamente diversa da tutte le altre mamme delle nostre amiche che avevano forse, come lei, meno di quarant’anni ma ne dimostravano almeno sessanta. Mamma era diversa per acconciatura, abbigliamento, linguaggio, comportamento, pensiero divergente da quello di quasi tutte le sue coetanee (la prima cosa che bisogna fare la mattina appena sveglie è prendersi cura di sé per essere sempre gradevoli durante la giornata… casomai dovesse venire qualcuno, deve trovarsi di fronte sempre una persona che si possa guardare…) e le raccomandazioni di zio Padre Leonardo aleggiavano nelle sue parole. Il suo esempio mi ha guidato per tutta la vita nel prendermi quotidianamente cura di me come faceva lei (anche i comportamenti a volte si ereditano?). Registravo i cambiamenti epocali pure da queste piccole preoccupazioni quotidiane delle donne di casa, appartenenti a generazioni diverse: per la nonna era stato il letto da rifare l’impegno prioritario del mattino; per mamma il guardarsi allo specchio per rendersi gradevole; per me il primo pensiero era scrivere lunghe lettere a Primo o studiare per un esame a breve scadenza, leggere qualche pagina del romanzo lasciato sul comodino. Ascoltare musica.  Dipendeva dall’umore e dai sogni, notturni e diurni. Dipendeva dalle notizie del giornale radio che ora ascoltavamo quotidianamente. E con attenzione. Con discernimento (…).

1977: E dieci anni dopo, il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, ci raggiunse la notizia che zio Padre Leonardo, il tuo amato fratello, era venuto a raggiungervi. L’ultimo di voi, così come era stato l’ultimo a venire al mondo. Mi giunsero dal convento alcune lettere e alcune foto. Piansi. E sentii che un altro capitolo della mia vita si era chiuso per sempre. Che anche a quel mio idolo in carne ed ossa dovevo dire addio, addio al suo sogno d’amore e alle sue parole d’arpe e violini di vetrate policrome e misteriose cattedrali… La mente in deviazione mi riportò il ricordo di quel suo disappunto, ospite da noi, a causa della piccola truffa che tu avevi subìto dal tuo salumaio di fiducia per via di una “carta” di prosciutto crudo che si rivelò ben presto, a casa, poco fresco. Quel “presciutto” più scuro del suo solito colore rosso vivo lo turbò a tal punto che ne parlò in chiesa durante l’omelia, creando un certo scompiglio tra gli ignari parrocchiani. Tu, di ritorno a casa, sminuisti l’accaduto con una facezia sui preti che qualche volta si prestavano a farsi complici di qualche ladruncolo di galline. Non ricordo più il tuo divertito racconto, ma mi torna alla mente solo una breve raccomandazione del sagrestano al celebrante che, sull’altare, stava nascondendo un pollo sotto la sua veste sacramentale: abbàscə la cóta, dòminə, ca sə vètənə rə ciàmbolìnə!” (abbassa la veste dietro, signore, perché si intravedono le zampette!), ma le sequenze della storia erano molto più lunghe e complesse e ridanciane e mi avrebbero ricordato, più tardi, alcune novelle del Boccaccio. Zio rise di cuore con te e con tutti noi. E la faccenda del prosciutto stantìo fu ben presto dimenticata. (Peccato, però, che non riesca più a ricordare quella tua storiella così simpatica e divertente! E nessuno degli altri tuoi nipoti la ricorda. Solo io, purtroppo, ho conservato in buona parte, grazie a te, la memoria storica di quegli anni…). E, ritornando a zio Padre Leonardo, quanta luce nella nostra casa con la sua straordinaria presenza! Quanto vuoto, dopo! E, questa volta, è uno scoramento di parole meravigliose perdute non alla memoria del cuore, ma ai giorni che ci sorpresero, più tardi, di muto silenzio senza te, senza lui: i due più grandi affabulatori della tua famiglia. Zio Padre Leonardo era stato per tutta la vita viandante solitario, e solo da qualche anno non viaggiava più. Eravamo stati suoi ospiti a Perugia, dieci anni prima, in viaggio di nozze e allora ci fece da guida per tutta l’Umbria: Assisi, Todi, Gubbio, Cascia, Spello. Ancora agile, ancora di passo svelto e risoluto. Ancora ricco di battute, aneddoti, riferimenti colti. Ancora il mio mito e il mio ascolto. Poi, tornò a stare con noi nella tua casa quando nacque Ombretta. Sì. Fu proprio quella l’ultima volta che venne da noi. E, infine, solo due anni prima, come già detto. E, nonostante l’età, era ancora un faro luminoso prima di spegnersi tra le stelle accese. Dopo la sua morte ci furono anni di tregua dal dolore, ma intensi di lavoro. Dell’insegnamento nella scuola e nella mia casa. Anni di studio per il necessario, continuo aggiornamento. Di impegni culturali. Di rari incontri tra di noi, genitori e figli, nella nostra casa. Non ne avevamo il tempo.                                                         

Ma appena quattro anni dopo ecco altri addii. Dolorosissimi. Devastanti>.

1982: Nonna Uccia, la mamma di Primo, segnò il ritorno della campana e il suo rintocco di fiele. Nonna Uccia! La sua morte improvvisa per un ictus e la macchina in corsa per raggiungerla in ospedale nel capoluogo salentino e il pettine accarezzato dalla mia mano tra i suoi capelli spaventati a tranquillizzarla a darle attimi d’amore e il suo braccio proteso verso i miei passi prima dell’addio per un abbraccio ancora. Ma era tempo d’andare… E l’inutile nuova corsa, più lenta della prima, con occhi di pianto solo il giorno dopo. E il dispiacere di non aver prolungato quell’ultima carezza sul suo richiamo prima di andar via “Linaaaa…”. E il suo braccio proteso e la sua mano a tentare di afferrare la mia, mentre quel richiamo si faceva coltello che mi raggiunse e si conficcò nel cuore. E rimase il ricordo dei tanti giorni estivi trascorsi nella sua casa al profumo di fragranti paste all’uovo per il latte e di polpette col ragù, e di “frise e friséddhe”, “gnemmariéddhi”. E voci all’alba. E silenzi di televisione al tramonto. E storie da raccontare ai nipotini al mare a due passi dalla riva. E una casa di fioroni. E l’incontro con tutti per le vacanze d’estate… (“passò quel tempo Enea che Dido a te pensò”… era ormai la sua colta affermazione, ogni volta che litigava con nonno Mario, cosa che avveniva sempre più spesso). Oggi, quando raramente mi capita di tornare nel paese dei miei suoceri e di passare davanti a quella casa delle molte estati e delle tante parole e dei giochi bambini, mi assale uno sgomento di silenzio, di voci perdute, di presenze invisibili… E il ricordo si fa lago di scoramento e malinconia… di tante voci non è rimasta neppure un’eco a risarcirmi di tanto vuoto…

E, nello stesso anno, persi Rosa (dai fulvi capelli). Il tormentato, difficile, doloroso distacco e l’infanzia e l’adolescenza e la giovinezza fatte a pezzi nel tritacarne del dolore che non si accetta perché non può essere vero che a lei proprio a lei così equilibrata e sorridente, così amata dal suo sposo e dalla nidiata dei figli, ancora tanto bisognosi del suo amore, possa essere riservato lo squarcio di uno squilibrio devastante per un neo come fungo velenoso a strapparla ai suoi bambini, occhi d’innocente preghiera. (Pino, il figlio maggiore, al suo capezzale, in quella corsia di ospedale, a volerle trasfondere la sua anima attraverso uno sguardo di lacrime trattenute, che reclamavano a gran voce la sua vita, anche per le sorelline Marina e Anna Paola). A strapparla a suo marito, volto devastato di troppe lacrime inascoltate. (Oh, quanti giorni di parole disperate da raccontarci insieme a casa o a scuola per farcene una ragione, dove ragione non c’era). A sua madre, statua di disperata tenerezza e di rassegnata impotenza. Alla sua casa a un passo dalla mia. Vuota ormai della sua attenta, affettuosa presenza. A me che, incredula e pavida, le negai il coraggio dell’ultimo sorriso. Alla giovinezza di quella chioma di fuoco da tempo amputata come la sua gamba. Il suo andare, con le nostre spente copiose lacrime verso il cielo delle stelle chiare e luminose.

Rosa (dai fulvi capelli)… e il nostro incontro con mani bambine a stringere i nostri sette anni di scoperta di noi in case tanto vicine da regalarci un quotidiano “dietro l’angolo”, con occhi assonnati e libri da sistemare nella cartella… Rosa (dai fulvi capelli): insieme avevamo condiviso, in tutti gli altri anni sino ai quaranta, amicizie matrimoni bambini incontri e confidenze e consigli e risate per le battute al cianuro di Primo a Biagio, l’innamoratissimo compagno di vita di lei, sempre discreta e accogliente, e di Biagio a Primo, in un gioco di rimandi al vetriolo. Ma si stava bene insieme. Eravamo amici. Tanto amici. Con i giochi dei nostri sette bambini ci alternavamo nelle nostre case vicine. Con la forza dei tanti sogni sognati in due da quando, noi bambine, ci incrociammo in via della Repubblica angolo via Generale Montemar, appena ritornai dai monti del Gargano. Le nostre confidenze bisbigliate nel cortile o lungo il nostro largo marciapiede. I nostri sogni bruciati sui suoi quarant’anni appena compiuti (e il sogno del suo consegnarmi tre camicine perché le mettessi in ordine e me ne prendessi cura senza averne la possibilità e il modo, come spesso ho pensato e avrei voluto).

E sulla sua dolorosissima perdita mi fermo. Riprenderò domani non per rattristarvi, ma per attraversare insieme il buio, sicuri che dopo la notte c’è sempre un’alba che ci attende. Ange-lina

  

giovedì 11 aprile 2024

Giovedì 11 aprile 2024: GJEKE MARINAJ E I "CAVALLI" A PORTARLO DALLA SUA TERRA AI CONFINI DEL MONDO... (mia recensione)

 Gieke Marinaj, nel suo ultimo libro “Teach Me How to Whisper” - “Horses” and Other Poems usa la metafora del “viaggio”, visionario e realistico, per sintetizzare la sua vita, in cui tutti i sentimenti umani vengono composti in una specie di puzzle: emozioni, passioni letterarie e umanistiche, studi scientifici e filosofici. E ancora l’amore per la sua terra d’origine, l’Albania, dove risiedono le sue radici, uncinate al cuore di sua Madre, l’amore per la sua donna e la natura, per la libertà. Per la Poesia. Il viaggio, in tutte le sue accezioni, è il suo stesso errare per vari popoli in nazioni diverse, da cui ripartire per ogni nuovo doloroso/gioioso/faticoso inizio. Del resto, “errare” significa anche “sbagliare” e trarre la forza di affrontare ogni incognita, ogni cambiamento per ricominciare e ritrovarsi vivo. E ciò comporta una strana, insolita felicità: voglia di vivere per migliorarsi e per dedicarsi con maggiore impegno ai suoi studi prediletti, soprattutto metafisici, con cui è più facile scoprire l’anima, la parte più profonda e insondabile di ciascun uomo e, in particolare, degli Artisti e dei Poeti, sempre pronti a sconfinare in un “altrove” che è perdita e riappropriazione di sé, e del sé che gli altri percepiscono in maniera soggettiva, ma che offre allo specchio dell’anima una percezione ribaltata e mai vera, mai falsa. Insondabile e Imprendibile dall’esterno.

Molto suggestivo il titolo del libro, che trae spunto dal gruppo musicale dei DevilDriver, groove metal/melodic death metal di Santa Barbara, Stati Uniti. Ed è come avere il primo impatto sonoro con la musica che si riverbera nel rosso acceso della sovraccopertina e l’inquietante immagine stilizzata di colore nero di un cavallo imbizzarrito e ribelle ad una condizione di vita in cui si sente prigioniero e umiliato. 

“Teach Me How to Whisper” è una preghiera e una supplica del poeta a un “tu” che potrebbe essere la sua amatissima sposa o lo sconosciuto lettore, ossia ogni altro da sé, o il suo stesso “Io” in uno sdoppiamento accorato e intenso perché nulla vada disperso o perduto di sé come Persona e come Poeta.

Tanti sono i Componimenti poetici di Gjeke Marinaj, che completano “Horses”, e che evidenziano il suo amore per Omero il più grande poeta greco e per la storia dell’occidente, in particolar modo dell’Italia rinascimentale, novecentesca e contemporanea.

Il libro, che si avvale dell’ottima Introduzione dello scrittore e critico letterario Frederick Turner, è anche un dono per tutti gli altri parenti Albanesi. L’Albania con i suoi miti e i suoi eroi, con le sue ferite e i suoi tormenti, i suoi emigranti che hanno attraversato l’Adriatico più e più volte, in cerca di lavoro e di libertà. Egli stesso emigrato in Serbia e di qui in America per sfuggire alla cattura e alla morte, per essersi ribellato a un Regime che teneva la sua gente in catene e sottomessa in umiliante schiavitù. I temi della Silloge riguardano l’amore, forza trainante per il recupero dell’Umanità nell’uomo contemporaneo e del prossimo futuro; i pensieri esortativi e assertivi per spingere i pavidi a lottare per le proprie idee e i propri ideali, per i valori di sempre; la vita e la morte, in cui il poeta si cimenta con il tema del terrore dell’attraversamento del Male fino a scontrarsi con la Morte e a combatterla con i mezzi della ragione e le ragioni del cuore “che non conoscono ragione” (come Biagio Pascal suggerisce); le Eroine, in cui teneramente include sua Madre, eroina del quotidiano, e tutte le Donne che hanno declinato la Storia al femminile con pazienza, coraggio e tanta forza silenziosa e imperiosa; Poesie metafisiche, di cui si è già parlato; I Poeti: dai Cantori greco-latini al sommo Dante, dal suggestivo “Song of Salomon”, quale primo poeta lirico affascinato dal “Talmud” tra letteratura e filosofia, per giungere ai poeti tedeschi come il grande Goethe, teorico del concetto di letteratura mondiale, che tanta parte ha oggi nella poetica di Gieke Marinaj, e il fantastico Coleridge, col suo “sublime", che sacralizza la natura e la kantiana soprannaturalità dell’uomo; dal fluviale romanticismo amoroso e patriottico del grande Pablo Neruda, il cui lirismo è inconfutabile fonte di ispirazione, ai grandi poeti Serbi, ai quali il nostro Autore è eternamente grato per averlo accolto durante la sua fuga dall’Albania verso l’esilio; dal famoso poeta Albanese Frederik Rreshpja, morto in povertà per i suoi ideali e la sua ideologia a tutti gli altri poeti, amanti della natura e degli animali, che hanno scritto un patto di alleanza imperituro, con cui essi, come l’Araba Fenice, risorgono dalle loro ceneri per onorare ancora e sempre la Poesia della terra, del sole, dell’universo. E, poi, la Terra appunto: con i suoi versi Gjeke Marinaj canta la bellezza, il sogno, la fantasia, il blu dei fiumi, dei mari, dei laghi, la naturale preghiera a Dio delle baie colme d’incanto; e, infine, l’India, divisa in 14 parti, tra rime, assonanze, metafore e ritmi ancestrali come “il battito del cuore materno che palpita nel suo cuore”. E tutti i luoghi esplorati, conosciuti, amati. Tra esseri umani, bestiali, divini. Tra deserti e abissi, tra canzoni popolari e oniriche avventure, tra i miti del passato e gli eroi del presente, tra riflessioni filosofiche e deduzioni scientifiche.

<Le mie poesie - ha affermato Gjeke Marinaj alcuni mesi fa, rispondendo ad una intervista della scrittrice e poetessa Xosiyart Rustamova - affrontano questioni sociali, politiche e ambientali in continua evoluzione. Mi piace sentire la mia penna danzare con storie di ricerca sull'individualità in un mondo digitale, le sfide legate al bilanciamento tra vita virtuale e reale e la complessità delle relazioni umane in questa era interconnessa>.

E nella stessa intervista, molto importante, a mio parere, è quanto egli stesso chiarisce della <nuova lunga poesia sull'India intitolata "The Lost Layers of Vyasa's Skin">, affermando che è un libro che <esplora il potere della cultura e la lotta per trovare la vera pace e scoprire la nostra autentica identità di persone nella travolgente e ricca storia dell'India e di altre nazioni (…). Il mio nuovo lavoro discute l'arma a doppio taglio del progresso. Mentre avanziamo e sveliamo i segreti della natura, della speranza (…). Il mio obiettivo è ricordare ai lettori l'importanza dell'empatia, della comprensione e delle connessioni che ci uniscono come comunità planetaria. Sul palcoscenico della vita del 21° secolo (…) il vero potere di tutte le Arti e le Scienze, e fra queste quello della Letteratura, risiede nella sua capacità di andare oltre il tempo e il luogo, unendoci tutti nell’esperienza condivisa della nostra umanità migliore>. In India, dunque, Gjeke Marinaj ha incontrato tanta povertà materiale, ma anche tanta ricchezza spirituale tanto che ogni sua strada è un percorso fiorito di Dio, ogni Dio possibile, sulla terra. Ha incontrato soprattutto una terra ricca di tensione verso la Libertà e la Speranza.

Gjeke Marinaj, del resto, in questo suo Libro, si rivela egli stesso sintesi del suo amore per la filosofia e la metafisica, sempre in sospensione tra la terra e il Cielo, tra la sua patria e i confini del mondo fino a sfiorare l’universo per incontrare il sogno di Dio, il dono del Suo sorriso e del perdono per l’umanità intera. È facile scoprire, pertanto, nel nostro Autore la PERSONA, rivolta al BEN-ESSERE di tutti e di ciascuno con la sua Teoria del Protonismo, e il POETA, sognatore, visionario, ricco d’amore per l’intera umanità, e fonte di tutti i misteri che fanno Alta la sua POESIA. I poeti - sostiene Albert Einstein - hanno una mente intuitiva che favorisce il penetrare nel profondo del cuore, della terra e degli uomini. La più alta forma del pensare. 

Del resto, il monaco indiano Shantideva (685 - 763 d. C.) afferma: Tutta la felicità nel mondo deriva dal pensare agli altri; tutte le sofferenze nel mondo derivano dal pensare solo a sé stessi. E mi piace ricordare anche che il Mahatma Gandhi ha strenuamente sostenuto: Tu e io non siamo che una cosa sola. Non posso farti del male senza ferirmi.

E, oggi più che mai, in un mondo che si proclama “villaggio globale” (Marshall McLuhan), ma che in realtà vive di diffidenza, rifiuto, violenza, odio, ogni forma d’Arte è un dono sempre più prezioso quando si fa contagio di emozioni nello scambio reciproco, tra realtà umana e sacralità divina. Nella Poesia, per esempio, il divino si fa umano e “s’incarna nella parola” (Paul Valery).

Nel Libro di Gjeke Marinaj è proprio tutto questo che ci colpisce e ci fa riflettere sulla possibilità concreta che la Poesia unisca i popoli, elimini steccati, renda l’umanità migliore. Abitiamo sotto cieli diversi che sono comunque lo stesso cielo. Abbiamo credi diversi, pure respiriamo lo stesso respiro divino che avvertiamo in tutto il Creato, noi uniche creature tra tutti gli esseri viventi a sapere di un Creatore, padrone della vita e della morte, a cui rivolgiamo la nostra preghiera e il nostro canto. Parliamo lingue diverse, ma la POESIA, quando è autentica voce dell’anima, le racchiude tutte e si fa desiderio, nel tempo, di raggiungere l’altro e l’altro ancora. E ciò dilata gli orizzonti, che non hanno più confini. Neppure nel nostro cuore. 

Ritengo, pertanto, che la nuova silloge poetica di Gieke Marinaj sia un monito per l’umanità intera e per i giovani che scriveranno la storia, anche letteraria, del prossimo futuro, come protagonisti di ogni trasformazione e cambiamento in meglio della società mondiale. Con la Speranza che abbiano il cuore colmo di Amore, di Sogni, da trasformare in progetti di vita, e di Poesia!

NB: Per chi volesse leggere il Libro in inglese nella sua elegantissima veste tipografica, scelta accuratamente dalla prestigiosa Casa editrice Syracuse University Press (Syracuse, New York 13244-5290 press.syr.edu), è reperibile su Amazon.it

Grazie! Alla prossima! Angela/Lina

martedì 9 aprile 2024

Martedì 9 aprile 2024: UNA SERATA DA RICORDARE CON IL GRANDE ANTONIO GIACOMETTI...(conclusione)

E riprendo con le parole di Giacometti: (Chi è stato così eroico da arrivare fin qui si sarà chiesto come mai, dopo aver dichiarato fin dall’inizio l’intenzione di voler svolgere delle riflessioni sul libro di Krenak da compositore e da educatore musicale, in queste pagine non abbia mai parlato di musica, né l’abbia mai citata, neppure marginalmente. Vero. Eppure, la musica c’è, in queste pagine, perché scorre sottotraccia senza che il lettore se ne accorga: scorre sotto l’intenzione stessa di affrontare una tematica tanto complessa con la consapevolezza di possedere la forma mentis adeguata e una visione delle cose che si è plasmata attraverso l’esercizio costante e continuo della creatività, attraverso la ricerca delle soluzioni meno scontate, delle spiegazioni non banali.

Come già ho avuto occasione di ricordare, in un periodo storico nel quale sembra che tutti abbiano il diritto di pontificare su tutto, procurandosi la propria tribuna, possibilmente anonima e nascosta, la complessità dei problemi che assillano il mondo in cui viviamo esige riflessioni e risposte altrettanto complesse, cioè stratificate e internamente dialettiche. In tal senso, un’educazione musicale precoce e mirata alla sperimentazione e alla comprensione dei meccanismi che sottendono l’atto musicale può attivare nelle nuove generazioni quell’attitudine al pensiero complesso, capace di condurre, nel tempo, ad un cambio di paradigma nel modo di affrontare situazioni e prospettive. (…). Ecco. Di una complessità creativa abbiamo disperatamente bisogno, in questa congiuntura epocale, e di una creatività complessa (…). In più, l’aspetto collettivo del far musica insieme abitua alla socializzazione, alla cooperazione e ad un sentire empatico che aiuta a vedere il mondo con gli occhi degli altri, a condividerne le sofferenze, a progettare insieme un mondo migliore.

Se vogliamo realizzare il sogno della terra di Krenak, dobbiamo essere abituati a sognare e a plasmare il sogno in materia vivente, ed essere pienamente consapevoli della sua complessità.

La musica c’insegna a costruire sogni in continua trasformazione, narrazioni multiple, interazioni continue tra natura e cultura, tra astrazioni ideali e materia concreta.

E finché avremo la possibilità di raccontare una storia, rimanderemo la fine del mondo).

E la più bella, creativa, complessa storia ce la lascia in eredità proprio Giacometti, il quale è impagabile anche nei RINGRAZIAMENTI conclusivi, che vale la pena di riportare.

(Ringrazio infine, ma non da ultimi, tutti gli esseri viventi, umani, animali e vegetali, che quotidianamente combattono per non essere estinti, per non essere gli ultimi, per non essere il non essere di cui la nostra civiltà malata si nutre per rimanere in piedi, nonostante gli scossoni del clima e un flusso di coscienza che sta andando dalla parte opposta, quella della solidarietà vera e disinteressata, della rinuncia all’autoaffermazione economica e sociale in favore della parte più oscura e sofferente del pianeta).

È di uomini così che abbiamo disperatamente bisogno, oggi più che mai.

Necessarie, pertanto, le mie conclusioni: Antonio Giacometti accende il buio di questa società alla deriva come Faro luminoso nell’imprendibile (in)consistenza del nostro tempo per restituirsi alla memoria che, in fondo, è il nostro futuro capovolto. E, infatti, la sua formidabile memoria ci restituisce continuamente l’Esistenza nostra e degli altri. Anche di quelli che apparentemente non lasciano traccia, come è possibile scoprire nelle parole del grande Evtushenko:

Non esistono al mondo uomini non interessanti. 

I loro destini sono come le storie dei pianeti.

Ognuno ha la sua particolarità, non ha un pianeta che gli sia simile. (…)

Ognuno ha il suo segreto mondo personale.

In quel mondo c’è un attimo felice.

C’è in quel mondo l’ora più orribile,
ma tutto ci resta sconosciuto.

Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,

e il primo bacio e la prima battaglia…
Tutto questo egli porta con sé. 
(…)

Certo, molto è destinato a restare,
eppur sempre qualcosa se ne va.

È la legge di un gioco spietato.
Non sono uomini che muoiono, ma mondi. 
(…)

Gli uomini se ne vanno….
e non tornano più

Non risorgono i loro mondi segreti.

E ogni volta vorrei gridare ancora
contro questo irrevocabile destino.

(E. A. Evtushenko, stralci da “Uomini”)

Ma, secondo me, oltre “l’irrevocabile destino”, c’è una possibile rinascita. Per “risorgere” bisogna rimanere vivi nella memoria di chi ci ha amato, ci ama. Prima, però, è necessario che chi ci ricorda rimanga egli stesso vivo. Nella consapevolezza di sé e del proprio passato.

Per questo, io, ritengo che “risorgere” significhi soprattutto universalizzare la propria esperienza di vita. Soprattutto nella sua IMPERFEZIONE e nei suoi ERRORI perché questa è l’UMANITA’ più vera, individuale e universale. Ed è quest’ultima che rende la nostra storia privata di tutti. Soprattutto quando fa male perché ognuno può ritrovare sé stesso in quella ferita. In quel pianto. Che è tanto più vero quanto più ci appartiene e appartiene alla gente che si dibatte in mille contraddizioni e difficoltà, e si riconosce nelle qualità e nei limiti, nelle conquiste e negli errori, nell’ideale di quello che vorrebbe essere, e nel reale di ciò che è. E i ricordi servono anche a questo. A darci la nostra giusta dimensione nel tempo e nello spazio.

Antonio Giacometti lo ha “segnato” in noi con la sua anima che non conosce confini, oltre il disincanto. In lui volti… voci… richiami… In una scia-traccia di luci-ombre-luci… senza fine…>.

Ma io l’altra sera non ho letto tutto questo che i lettori troveranno sul Libro, ho raccontato altro a partire dalla suggestiva copertina, opera di mio nipote Nicola Piacente, talentuoso Graphic Designer della nostra Casa editrice, che si è inventato il riflesso rovesciato delle lettere del titolo, quasi fosse un cielo capovolto o, meglio, ribaltato come se si riflettesse in uno specchio. Mai vero, mai falso e per questo imprendibile, cioè non incasellabile in uno schema ben preciso e definitivamente connotante. Il riferimento è al Saggio e al suo Autore. Un artista sfugge sempre alla prevedibilità, perché la creatività lo porta, oltre ad incontrare l’altro da sé, in cui riconoscersi senza mai appropriarsi di sé e del sé, anche a incontrare gli altri a sempre più vasto raggio. Ma anche nel piccolo mondo che gli appartiene perché noi, come ha detto molto bene Nicola Pice, ci specchiamo nella pupilla di chi ci è di fronte. Ed io ho ricordato la meravigliosa teoria dello sguardo e del “volto dell’altro”, del filosofo francese Emmanuel Lévinas di origini ebraico-lituane (vedi Wikipedia). Ebbene, io esisto perché l’altro mi vede, come tutto il mondo esiste perché c’è il nostro sguardo a dargli vita, consistenza, conoscenza. Nulla esiste al di fuori del nostro sguardo. Anche lo psicanalista e psichiatra francese Jacques Lacan ne parla, affermando la teoria dello sguardo riflesso in uno specchio a restituirci una visione doppia di noi.

Il titolo, poi, parla del viaggio in “senso reale” di spostamento (e dunque di movimento, lo spostarsi, l’andare verso una direzione e non verso un’altra, e ciò già sottintende di per sé una scelta, una consapevolezza di sé - più volte citata dall’Autore - e una consapevolezza di tutto ciò che è diverso da sé e che comunque connota l’uomo come essere appartenente alla natura, per cui quest’ultima deve essere difesa e non ferita sistematicamente, come invece stiamo facendo con incoscienza, superficialità, cupidigia del dio denaro) e in “senso metaforico” come significato globale della vita. Qui è ipotizzabile anche un ritorno di Antonio Giacometti per ritrovare sempre e comunque le proprie radici, dopo tanto andare e tanto restare nell’incanto della foresta amazzonica brasiliana rigogliosa di verde splendore, in cui si diramano sogni e impulsi frastagliati di nuova vita. La foresta amazzonica, del resto, è zampillante d’acqua sorgiva e di cascate che danno spazio a innumerevoli suggestioni e flussi di luce che rivivono nelle parole ammirate di Antonio e creano in lui “la coscienza della parola che dalla stessa coscienza viene avvolta”, come alcuni anni fa mi insegnò un amico carissimo e fedele lettore del nostro blog, Peppino Sblano, un uomo eccezionale per statura etico-spirituale e per nobiltà di pensiero storico-letterario.  

Poi, c’è il retrocopertina, nella cui immagine si avverte il silenzio, silenziosamente infranto da una profonda, sotterranea, imprendibile eppure reale, musica, mentre un’indigena sottolinea la quotidianità del suo lavoro, sollevando però lo sguardo e le braccia al cielo… Ma tutto questo diventa ancora di più incantevole attraverso la documentazione fotografica che occupa alcune pagine del Libro tra il verde e l’azzurro. Uno stupore di cielo-mare-terra che si perde nell’infinito e si ripropone nel finito di ceste colme di farine diverse, mentre gli alberi si stagliano a metà tra il finito e l’infinito. Altra reale e surreale metafora della nostra vita. Noi alberi con profonde radici a succhiare linfa dalla nostra madre-terra e braccia che tendono al Cielo in un respiro d’anima a incontrare la carezza vivificante di Dio, che ci salva dal dolore e dalla finitudine della vita terrena.

E così alla frase di Kafka, che amo sempre citare, mi piace aggiungere la frase dello psicanalista, scrittore e conduttore televisivo Massimo Recalcati: Un libro è un corpo, un mare, un coltello

E, seguendolo da anni ormai, posso interpretare le sue parole così: il “corpo” è indispensabile alla nostra mente, al nostro cuore, alla nostra anima perché veicola tutte le percezioni tattili, visive, uditive che il mondo esterno ci trasmette attraverso la lettura di un libro, che segna una traccia profonda anche nel nostro mondo interiore, trasformandosi in pensieri, emozioni, commozioni, polla sorgiva di gioia e di pianto. Ma Recalcati spesso parla di “corpo erotico” anche quando parla di libri, le cui pagine ci devono appassionare talmente tanto da farci vibrare di insopprimibile amore, tanto da “divorare” il libro e da provare il desiderio del suo possesso fisico, dopo averlo letto e riletto. Recalcati, inoltre, dice: Il libro è infatti una figura dell’aperto; è un mare contrapposto al muro. E il mare unifica molti paesi, territori, razze, lingue. Leggere un libro è sempre fare esperienza della democrazia. Niente di più vero. Chi non legge vive una sola vita, la sua. Chi legge, anche se è povero di mezzi economici, vive migliaia di vite e visita innumerevoli paesi, come sostiene giustamente Umberto Eco (e parecchi altri scrittori italiani e stranieri di chiara fama).

Ma c’è anche un’altra scuola di pensiero che a me piace tanto e che parte sempre dalla definizione di libro di Massimo Recalcati: “Corpo”, perché è fatto di parole scritte che si fanno corpo, cioè carne della nostra carne, come afferma Paul Valery. Ed è “coltello”, in quanto dopo il primo colpo per penetrarvi è il libro stesso che ci ferisce e si prende l’anima e tutta la parte più nascosta di noi, la nostra “lalangue” (vedi Lacan in <L’Ombra delle Parole>, Rivista Letteraria Internazionale) la nostra lingua interiore, la nostra musica e il nostro canto.

Franco Buffoni, altro mostro sacro della letteratura e della poesia dei nostri giorni, con uno sguardo rivolto al futuro, parla, a questo proposito, di “ritmo ancestrale”, che è quel respiro che viene dall’imparare a parlare, dal battito del cuore materno.

E siamo già nel cuore della poesia. La POESIA. Non basterebbero mille trattati per parlarne. Per me è un Dono   questo è certo, ma tiriamo fuori questo immenso dono, quando qualcuno ci lascia involontariamente una ferita irrimarginabile, come sostiene la grande poetessa Mariella Bettarini, mia meravigliosa amica da oltre trent’anni. E come sostengono perlopiù i tanti amici poeti che conosco in Italia e all’estero. Ma io ritengo anche che ci siano i momenti giusti, le occasioni, le opportunità, gli amici sinceri e generosi, a cui dobbiamo essere sempre grati. E occorre partire dalla prima fonte per comprendere meglio la foce e non viceversa come spesso accade. Si perdono così i punti nodali della nostra gratitudine. Ma, qualche volta, lo zampillo originario, degno di perenne ricordo e gratitudine si smarrisce nelle brume di ciò che è accaduto dopo e che spesso è meglio non ricordare per non sentirsi feriti ulteriormente. Ma ora sto divagando e non mi sembra il caso di vestirci di amarezza e malinconia. Mi sembra più giusto ribadire perché un bel libro non si regala e non si vende, si compra. E si tiene sempre a portata di mano e di occhi. Un libro, del resto, è, come dice Recalcati, un “mare” perché si apre a mille correnti a pelo d’acqua e sotterranee, per i suoi innumerevoli tesori da scoprire. Infine, è un “coltello” che fende pagina dopo pagina, ferisce e fa male, soprattutto quando ci mette di fronte ai nostri errori, alle nostre illusioni e delusioni, le fragilità, i sensi di colpa, il bisogno del perdono, di una ri-nascita. E, proprio quando più ci inabissiamo nel dolore, il libro ci assolve, ci vivifica, ci salva. Per questo dobbiamo farci catturare da un buon libro. Ne deriverebbe la “Serendipity” (chi non ricorda il bellissimo film statunitense “Quando l’amore è magia-Serendipity!” del regista Peter Chelsom, anno 2001?) per l’Autore e il Lettore, una sorta di felicità per la fortuna di essersi incontrati a metà strada e di aver scoperto inaspettatamente cose e persone che non si cercavano, non facevano parte dei propri itinerari e interessi. È quanto accade ad Antonio Giacometti quando avviene l’incontro con il “guru” brasiliano Ailton Krenak e con l’antropologo italiano Roberto Malighetti, divenuto suo amico “nel sempre del per sempre”. Quanto è avvenuto a noi nell’incontro di sabato scorso. Un giorno per caso, che ci ha illuminato di Serendipity e che non dimenticheremo perché profondissime sono le tracce che l’incontro de visu con Antonio Giacometti, la sua grandezza e la sua umiltà hanno lasciato in noi. Semplicemente. Senza squilli di tromba e suoni di tamburo.  Grazie a tutti. Ad Antonio Giacometti in primis, a Nicola Pice, a Vincenzo Mastropirro, a Raffaella Leone, all’attento pubblico. All’editore Peppino Piacente. A tuti i lettori, passati, presenti e futuri. E ai narratori di storie per farci riflettere e pensare e per “vincere la fine del mondo e ipotizzarne uno migliore”. Grata a tutti e a ciascuno dei miei lettori e narratori delle proprie storie nella ricchezza di essere insieme sempre. Angela/Lina

lunedì 8 aprile 2024

Lunedì 8 aprile 2024: UNA SERATA DA RICORDARE CON IL GRANDE ANTONIO GIACOMETTI...

 Due sere fa ho avuto la fortuna di incontrare, nel Museo Archeologico - Fondazione De Palo-Ungaro di Bitonto, il bresciano Maestro Antonio Giacometti, Autore del Libro PASSAGGIO A NORD-OVEST – Riflessioni amazzoniche, appena pubblicato dalla SECOP edizioni di Peppino Piacente. Di Antonio Giacometti c’è naturalmente una vasta bio-bibliografia sul Libro, ma anche su Google, per chi volesse approfondire il calibro culturale e umano, di cui si è parlato l’altra sera. Ed io ho avuto la fortuna di leggere in anteprima la bozza del Saggio per poter scrivere la Postfazione, che amo definire “Tracce”. Accanto a lui ho incontrato il carissimo Nicola Pice, in veste di Relatore, e Vincenzo Mastropirro, altro carissimo amico di oltre quarant’anni, che ha emozionato il numeroso pubblico con la sua straordinaria esecuzione di una preziosa quanto complessa partitura musicale per flauto, scritta   parecchi anni fa, completamente a mano, su una poesia della scrittrice e poetessa tedesca Nelly Sachs, Premio Nobel per la Letteratura (1966) dal Maestro Giacometti. Intuibile la difficoltà di Vincenzo, che ha dovuto cimentarsi durante l’esecuzione del brano anche con le parole in tedesco, ma se l’è cavata egregiamente. Il Maestro Giacometti è, come è facile intuire, fraterno amico di Vincenzo, accomunati dalla stessa talentuosa passione per la musica e la sua composizione.

La serata è stata introdotta e coordinata, con grande padronanza del Testo e con ventennale maestria da Raffaella Leone, P. R. della Casa Editrice, insegnante e scrittrice per bambini e adulti col cuore bambino. Io sono stata chiamata dall’editore per concludere la serata con le mie “Tracce”.

Il primo intervento è stato quello magistrale di Nicola Pice, che ha una cultura classica che gli permette sempre di spaziare con disinvoltura dai grandi filosofi, poeti, scrittori greci e latini (Platone, Aristotele, Apuleio ecc.) a quelli contemporanei senza soluzione di continuità. Con padronanza assoluta delle parole e della storia non soltanto letteraria e umana, Nicola ha parlato del Saggio e di Antonio Giacometti con dovizia di particolari e con riferimenti precisi e coinvolgenti sulle sconvolgenti pagine, tutte da leggere per avere la dimensione della sua personalità e abilità come compositore e come scrittore. Peccato che Nicola Pice sia andato a braccio, come tutti noi, perché avrei documentato meglio su questo nostro blog la sua colta e profonda Presentazione. Lo stesso dicasi per le parole di Raffaella Leone. L’unica privilegiata sono io che ho conservato la motivazione delle mie “Tracce” in generale, e quelle tracciate per Antonio Giacometti perché possiamo avere insieme la percezione della grandezza incommensurabile del nostro Autore come uomo, docente, artista.

TRACCE sul Saggio di Antonio Giacometti.

… Nell’unità si ricompone

tutto il visibile, tutto il dicibile.

Restano le differenze ma scompaiono,

e non ci sono distanze di corpi

o rilievi di costruzione,

ma irrisori spostamenti nella creazione.

Niente al di fuori di quello che è.

Niente può uscire dal tutto,

amore semplicemente è essere,

essere parte di questo insieme...

(Cesare Viviani, stralcio della poesia

  “Silenzio dell’universo”, Silenzio dell’universo, Einaudi, Torino 2005).

*Da qualche tempo non scrivo più prefazioni ai libri che pubblichiamo ma postfazioni che amo definire “tracce”. Ossia non più un prendere per mano, “a priori”, il lettore per accompagnarlo lungo una via interpretativa da me percorsa durante la “mia” lettura, condizionandone magari il pensiero critico, e la libera interpretazione di ogni altro da me. Ma un riflettere “a posteriori” su quello che continua a vivere e a palpitare in me di quanto letto, assaporato, ripensato, rivissuto. In senso empatico, sintonico o anche distonico per un dialogo-confronto di due pareri combacianti o divergenti, ma assolutamente liberi e personali. La lettura di un libro e la sua interpretazione diventano più autentiche e vere. Lasciano tracce di memoria più durature perché più sentite e realmente condivise. Avrei potuto definirle orme, ma forse non avrei reso l’idea della loro persistenza nel tempo. L’orma è leggera e prima o poi svanisce. La traccia incide più profondamente e difficilmente si cancella. Del resto, Franz Kafka, ne Una lettera a Oskar Pollak (novembre 1903), scrive: Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma è bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile al morso…  Sarebbe interessante riportare un più ampio stralcio della lettera ma, per quel che ci serve, è questo il punto focale della mia riflessione: un libro deve lasciare tracce profonde, vere e proprie ferite da cui rinascere migliori. Nel nostro caso, queste “tracce”, già da me ultimamente sperimentate, offrono una maggiore serenità di giudizio nei riguardi dell’autore e del lettore. E questo, a mio parere, fa la differenza. Diventa forse una prima recensione che possa sollecitare a scoprire il libro, a cercarlo in libreria, a leggerlo con quella curiosità che è sempre alla base della motivazione a intraprendere la meravigliosa avventura della “lettura”, come della stessa vita. E penso al verso conclusivo di una poesia di Danilo Dolci del 1974: “ciascuno cresce solo se sognato”. Verso, che indica, a mio parere, il potere motivante e trainante esercitato dalle aspettative che qualcuno (un critico letterario, un influencer?) inculca nella mente di un altro, senza però tener conto del retroterra culturale, della influenza ambientale, della personalità (condizione psicologica, sociale, umana), delle fragilità e dei punti di forza che ciascun lettore sente in sé. Verso bellissimo, pertanto, ma alla fine controproducente perché, appunto, come sostiene Antoine de Saint-Exupéry nel suo capolavoro Il piccolo PrincipeSe vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave. Parole che, con varie metafore, invitano i lettori a riflettere sulle modalità giuste per desiderare di realizzare una lettura che sia specchio dei loro sogni e progetti di vita, desunti, in piena consapevolezza, dallo stesso progetto motivante dell’autore e del postfatore. Necessario diventa, allora, evidenziare in “Tracce” cosa rimanga del libro letto, quali le direzioni esperienziali idonee a ricostruire l’identità di lettore e la sua valutazione critica, libera e appassionata, dell’opera letta. A partire dall’interpretazione del libro come offerta di occasioni, di opportunità, che consentano il pieno maturare del lettore come Persona che, anche attraverso i libri e la lettura, sappia scoprire la responsabilità della sua dimensione molteplice: cognitiva, affettiva, spirituale, etica, estetica e politica. Può accadere, infatti, che un libro ben letto e ben interpretato e passato al vaglio del confronto (le recensioni e le presentazioni servono anche a questo) assolva il compito del pieno fiorire del pensiero e della conoscenza sempre più ampia nel lettore.*

TRACCE di ANTONIO GIACOMETTI, di cui ho avuto l’onore di leggere per prima, dopo l’editore naturalmente, il prezioso dattiloscritto. Prezioso perché? Ed ecco le “tracce” che mi ha lasciato dentro questo Saggio particolarissimo che condensa ed esplicita una cultura enciclopedica di rara caratura letteraria e poetico-musicale. Sono solchi profondissimi che andrò ad attraversare per dare un senso più ampio ad uno scopo altamente sociale e civile e a un fine nobile: la messa a fuoco della consapevolezza di sé, da parte di ciascun lettore, sull’ecosistema e il probabile equilibrio della natura, e ancor di più sulla natura umana, con dieci punti di riflessione, positivi e negativi, tutti da scoprire e valutare”; migliorare questo nostro “atomo opaco del male” (Pascoli, “X agosto”) in un “altro mondo possibile”. Impresa non facile, data la vastità dei riferimenti culturali a livello mondiale dell’opera che ha uno spazio-tempo che ci sembra illimitato, nonostante la data di nascita, posta fra parentesi dopo il titolo che è semplicemente una forte affermazione di sé: ANTONIO GIACOMETTI (1957). Ma c’è anche un punto 0 che dà l’avvio:

0.      Antefatti.

Anche gli “Antefatti”, però, sono solo un insolito modo, originale e sorprendente di presentarsi da parte dell’Autore con una litote astuta e coinvolgente che afferma e conferma ciò che nega: Non sono uno scrittore. E non sono neppure un filosofo, un antropologo, un ecologo. Appartengo invece a quella categoria di artisti che i teorici medievali accolsero tra le mura del quadrivio (le arti “liberali” contrapposte a quelle “meccaniche”), ma ai quali, ancora oggi, si fa molta fatica a riconoscere lo status d’intellettuali capaci di riflessioni trascendenti il campo d’elezione della loro attività. Un’attività che comporta comunque un aspetto pratico-artigianale. (…). Io sono un musicista, più esattamente un compositore, dedito da oltre quarant’anni alla ricerca di piani pedagogici, e relative traduzioni didattiche, capaci di realizzare percorsi educativi attraverso la musica e, in generale, attraverso le arti e le loro interazioni.

Come non parlare di “tracce” anche in questo caso? Giacometti mi dà una lezione acutissima di come si possa ovviare a una biografia dell’Autore da mettere magari sulretrocopertina, anticipandone il contenuto. Idea geniale che rompe schemi e tradizione. Altro elemento che ai più potrebbe sfuggire e che a me, che sono anche correttrice di bozze dalla nostra Casa editrice, salta agli occhi, sorprendendomi parecchio: le note a fine pagina rispettano le regole editoriali in ogni loro parte. Non è scontato. Anzi! E poi il rifarsi a Baricco per affermare la volontà che il suo Saggio (definito da Giacometti con un magistrale “colpo di cosa”: “libretto”) si faccia “storia” e non semplice narrazione, racconto. (Alla fine, questo libretto sarà la storia di un’inquietudine esistenziale profonda, ma proiettata verso l’esterno più che rivolta all’interno, perché innescata dalla consapevolezza di vivere in un mondo sbilanciato e sperequato, governato da un modello di organizzazione univoco, al quale ci si è adeguati nel tempo solo per comodità o necessità contingente, ben sapendo che, sotto le coltri calde e accoglienti di un benessere epidermicamente vissuto, si nascondeva (e continua a nascondersi) lo sfruttamento e lo sterminio dei popoli, la distruzione degli ecosistemi, l’alterazione sistematica del clima). È solo un esempio della scrittura e del pensiero di Antonio Giacometti. Dietro un profluvio di parole si condensano concetti che connotano la sua personalità estremamente composita e ricca di “inquietudine esistenziale profonda”, rivolta all’esterno per incontrare comunque sé stesso incontrando Ailton Krenak e il suo pensiero divergente dell’Amazzonia brasiliana, totalmente adottata dal nostro Autore. Quanto c’è da apprendere da questo “libretto”! Esso si dipana lungo tutto il percorso dell’Amazzonia brasiliana, “luogo del cuore” divenuto tale dopo l’incontro con il settantenne giornalista e scrittore Krenak e dopo oltre quarant’anni di frequentazione, anche virtuale, con il grande antropologo italiano Roberto Malighetti. (Krenak, l’intellettuale indigeno impegnato e in prima linea, che cosa può innescare nel musicista occidentale curioso di questo mondo complesso, ma anche poco incline a rinunciare a quel benessere antropocentrico che crea danni a catena e a spirale? Questa storia (…) vive un movimento interiore continuo, ma, come dice anche Baricco, <non inteso come rettilineo passaggio da un punto A a un punto B, bensì come organizzazione dinamica di un’intensità proveniente da uno choc di partenza. È il campo magnetico che si forma intorno a un’illuminazione. La storia non è mai una linea, ma sempre uno spazio).

A questo punto ho necessità di scolpire un altro solco nelle “tracce” che di Giacometti vado evidenziando: la coralità. Ogni sua pagina è “intrisa” di altre figure, altre personalità, altre professionalità, che hanno lasciato, a loro volta, nelle strutture mentali del nostro Autore “tracce” che producono nuove conoscenze, decisamente arricchenti nel loro quadro d’insieme. Ma anche la stessa struttura del Libro evidenzia una sua inconfondibile originalità e coralità: la “PRIMA PARTE” riguarda “10 concetti-chiave: 1. Sensi di colpa, 2. Allarmi, 3. Le vite degli “altri”, 4. Indifferenza, 5. Profitti, 6. Migrazioni, 7. Bellezza, 8. Natura e cultura, 9. Gli inganni della Fede, 10. Omologazione, equilibrio e sviluppo. La “SECONDA PARTE” riguarda: le idee per rimandare la fine del mondo: 1. L’umanità che siamo. 2. Diversità. 3. Madre Terra. 4. Punti di vista: a proposito della fine del mondo. 5. Un altro mondo possibile. CONCLUSIONI: Che c’entra la musica? Ringraziamenti.

Ogni voce è un “pozzo senza fondo” di citazioni, riferimenti ad altri studiosi, riflessioni in proprio o desunte da altri “maestri”, tracce di film, memorie, miti e leggende d’altri tempi, pescati nei campi più disparati dell’umana esperienza, riportati alla luce, riattualizzati, resi vivi e palpitanti di vita propria nel mosaico perfetto di altre vite, dissonanti, combacianti, convergenti, divergenti in un puzzle paziente che rivendica la connotazione più vera e più ardita dell’intera umanità. Con i suoi valori e disvalori, con i suoi “punti di forza” e con le sue debolezze.

Infine, l’utopistica pretesa di costruire un mondo migliore.

Della “prima parte”, per esempio, sono rimasta profondamente colpita, nel primo concetto-chiave: “Sensi di colpa” dall’esergo Tutti pensano che sia ciò che dici a definirti, le tue opinioni, le tue risposte intelligenti o la conoscenza ostentata. Ma quel che davvero ti definisce è ciò che non dici, le lotte che eviti, le posizioni che non prendi, gli occhi che chiudi. Ogni persona è ciò che tace.

Una illuminazione anche per me. L’esergo non è del nostro Autore ma di Nicolò Govoni (N. Govoni, Se fosse tuo figlio, Rizzoli, Milano 2021, p. 207)

Anche Paul Èluard, parlando di poesia, fa riferimento ai silenzi più che alle parole, ai margini del foglio più che ai versi. Praticamente al “non detto”. Al “taciuto”, che alimenta il mistero e nuovi orizzonti da visitare per scoprire altro e altro ancora. Ma, a ben leggere, ogni parola-chiave, comincia con un esergo molto suggestivo ed esplicativo con riferimento ad un altro autore. Tutto ciò crea “flash emotivi” che illuminano ulteriori riflessioni sul mondo contemporaneo, nelle sue luci e nelle sue ombre. (Che sia questa una possibile chiave di lettura dell’umanità attuale, attraverso la quale modificarne il corso e le tendenze autodistruttive? Svincolare l’atto dalla finalizzazione, ritrovare la dimensione del piacere nella relazione con gli altri e con la natura che ci contiene, esercitare un’empatia universale che ci metta in contatto vero con la sofferenza del mondo. magari credendo fermamente, come Govoni, che <se non puoi cambiare il mondo, almeno cambialo per una persona>, almeno nel momento in cui ti si presenta l’occasione, senza girare la testa dall’altra parte, senza che il senso di colpa ti faccia vergognare, derubricando così un atto d’amore al livello di isolata (e in fondo inutile) manifestazione di pietà).

Basterebbe questo stralcio dell’immane fatica di Giacometti a renderci consapevoli del nostro vero compito su questa terra per alleviare le sofferenze di Madre Natura e di noi Umani, privi quasi del tutto della nostra umanità. Di qui il mio GRAZIE (e il grazie di ogni lettore) a quest’uomo, un eletto sicuramente, che ha fatto della CORALITA’ una fascinosa avventura, destinata a durare nel tempo e nello spazio. GRAZIE alla sua particolarissima scrittura, in un crescendo continuo di sintesi e analisi, in un andare controvento sempre, per toccare il mistero della vita con le corde del cuore (musica, armonia, bellezza, solidarietà) a comprendere TUTTO e TUTTI. In questa “rappresentazione” del mondo che a noi tutti appartiene. Senza il nostro sguardo a guardare, indagare, scoprire, il mondo non esisterebbe. Verità aperte a nuovi orizzonti o le “tracce” si disperderebbero. Ritengo, pertanto, giusto chiudere queste mie riflessioni “a posteriori” con un ultimo stralcio connotativo di tutta la complessa filosofia di VITA di Antonio Giacometti.

E per oggi mi fermo qui per completare domani il mosaico d’insieme di una PERSONA che merita di essere conosciuta, apprezzata, seguita a trecentosessantagradi. Grazieeeeeeee. A domani. Angela/Lina