lunedì 12 luglio 2021

Lunedì 12 luglio 2021: Vittorino Curci ancora con noi, tra noi...

Prima di passare ad altro che riguarda Vittorino Curci: recensioni, interviste, premi letterari che sono, secondo me, motivi di felicità persistente, desidero riportare qui la risposta del poeta al suo recensore Alessio Poiano perché davvero illuminante su alcuni passaggi della sua poetica e soprattutto del suo pensiero che si trasforma in parole opportunamente scelte per dare un senso ai vari rimandi contenutistici della sua opera, distesa, è bene ribadirlo, a ritroso nell’arco di questi ultimi ventitrè anni. Quasi un voler afferrare il passato perché è lì che affondano le radici della sua essenza più profonda. Risposta di Vittorino Curci: “Caro Alessio, mi sono sempre pensato come un apprendista a vita. Perciò quando nel titolo della tua recensione mi hai definito “eterno discepolo” mi sono sentito a casa, riconosciuto, accolto dalle tue parole. Prima che scrittore di poesia, io mi sento lettore. E se fossi costretto a scegliere tra scrivere o leggere poesia non avrei alcuna esitazione, sceglierei senz’altro e mille volte leggere perché non saprei come farne a meno, come sarebbe possibile altrimenti continuare a vivere. Per quanto riguarda invece il discorso che fai sulla luce nella mia poesia (“la luce serve a distorcere, è allucinatoria”) sento di dover fare una piccola precisazione: non riesco a concepire la luce indipendentemente dall’ombra che essa produce. Nella tenebra non si vede niente, ma anche se c’è una luce accecante non si vede niente. È tra questi due estremi che possiamo esercitare il nostro sguardo sul mondo. E la prima cosa che scopriamo è che un’immagine è nitida quando è determinata dalla nettezza delle ombre. Ebbene, un testo poetico crea inevitabilmente delle immagini (a volte anche dei racconti): è un fatto intrinseco alle parole. Ma i poeti si rapportano a queste immagini e a questi racconti in modi diversi. Ci sono quelli che lavorano di più sulla luce e quelli che lavorano di più sull’ombra. I primi danno l’idea di guardare la realtà attraverso un vetro, per cui da una parte c’è il soggetto e dall’altra l’oggetto. I secondi invece, quelli che lavorano di più sull’ombra, guardano la realtà posizionandosi al di là del vetro, considerandosi parte, pulviscolo, di quella stessa realtà. Io, grossomodo, credo di avere molte cose in comune con questa seconda tipologia di poeti. Ed è forse per questo motivo che sono un po’ brutale (diciamo pure: espressionista) quando ho a che fare con la luce. Cerco più che altro di ritagliarla dalle ombre con vigorose lumeggiature. Aggiungo un’ultima cosa. Tu scrivi, e sono assolutamente d’accordo con te, che la poesia non è “una bolla in cui rifugiarsi dalle insidie del quotidiano”. Questo è un punto cruciale perché molti, anche alcuni poeti, pensano il contrario. La poesia non è qualcosa di personale. Non lo è ontologicamente per la natura e l’origine del linguaggio che usa, e anche per come lo usa. In essa c’è sempre un bisogno ineluttabile di andare incontro all’altro. Senza il quale la poesia non avrebbe alcun senso. Ti ringrazio di cuore e ti abbraccio, Vittorino”.

Estremamente significativa la puntualizzazione dell’Autore sul significato che lui dà alla luce, abbinandola all’ombra: non ci può essere l’una senza l’altra. E, mentre per Poiano la luce distorce la verità, per Vittorino essa serve a ritagliarsi tra le ombre che la scontornano proprio la verità o quanto possa approssimarsi ad essa. Non me ne voglia il critico Poiano, ma ritengo molto convincente la spiegazione di Vittorino. Anche perché, tra l’altro, spesso è presumibile che il secondo occhio, quello del lettore o del recensore, possa scoprire aspetti dell’opera e della personalità dell’autore che sono persino a questi sconosciuti, ma è anche vero che una lucida analisi degli aspetti fondanti della propria opera può offrircela solo chi l’ha scritta. Probabilmente sono le minime certezze per ancorarsi alle proprie idee senza rischiare d’inabissarsi continuamente nel mare dei dubbi, tenendosi in qualche modo a galla. Naturalmente, i punti di vista sono tanti quante le persone coinvolte in ogni situazione/condizione esistenziale (tot capita, tot sententiae, famosa locuzione latina cara anche Cicerone), a maggior ragione quando si sfiora il linguaggio poetico. C’è, per esempio, un’ampia e dettagliata lettura dei versi di Vittorino Curci fatta da Francesca Alaimo, nota poetessa palermitana. Il titolo è molto semplice: “L’autoantologia di Vittorino Curci”. Il contenuto molto più complesso. Meriterebbe di essere trascritta per intero, ma tempo e spazio non me lo consentono. Ne riporterò solo qualche stralcio più significativo: “Afferma Vittorino Curci (non senza implicazioni socio-politiche, laddove si consideri il profondo legame fra un’ideologia e il ‘suo’ linguaggio) che l’eliminazione di tutte le maiuscole, visibile nelle più recenti sillogi, corrisponda a un rifiuto di classificare all’interno di una qualche gerarchia le parole, avendo esse compito di raccontare (adeguando il loro ritmo a quello del pulsare del mondo nell’interiorità del poeta) persone, cose e accadimenti che lo legano non solo al vivo presente della comunità di appartenenza, ma anche al passato recente così come al più lontano”. C’è del vero in quello che scrive la poetessa, riferendosi anche al linguaggio socio-politico della ideologia abbracciata da lungo tempo da Vittorino ed è bene evidenziarlo, anche se, per me, le parole hanno una loro identità di significanza che potrebbe andare ben oltre la stessa motivazione ideologica: hanno una loro pregnanza e intensità per cui non dovrebbero rifiutare la maiuscola, anzi suggerirla e legittimarla. Io l’ho fatto nella mia recensione, così come sono solita fare in presenza di sensi e significati che mi preme focalizzare per ribadire la loro importanza all’interno della mia argomentazione. Vittorino ha fatto la sua scelta in base alle sue idee e al suo lungo percorso di teorizzazione della poetica di fine secondo e inizio terzo millennio; teorizzazione che, come opportunamente evidenzia Francesca Alaimo, “non deriva da un processo di astrazione o trasfigurazione, ma piuttosto dalla volontà di arrestarne la dissoluzione…”. Ed io, come lei e come tutti gli altri recensori, ho fatto esplicito richiamo all’infanzia del poeta e all’infanzia del mondo, quando si gettano le basi di un perenne sentire, legato a uno sguardo nuovo che sa di antico per frammenti di immagini, ma quanto importanti per scavare/scovare/gettare le radici dei frutti che verranno e saranno spesso anche promesse disattese e disperanti per l’assenza di verità, consegnataci dai nostri avi come tale. Ecco allora che “l’io del poeta, teso, dunque, a configurarsi come un moto di espansione a raggiera includente le esistenze dei vivi come dei trapassati fino (con un effetto del tutto surreale) a vedere ‘sfrecciare tra gli alberi/ un giovanissimo Leopardi in bicicletta’, si fa un logonauta viaggiante, attraverso l’immaginazione della parola, anche nel tempo che non fu suo, così da riconoscersi nell’altro, tra un tu e un io sovrapponibili; e, talvolta, con un inusitato effetto filmico, tra il suo io narrante e il suo io rievocato e oggettivato in un personaggio che calca la scena allestita dalla memoria…”. È indubbiamente molto suggestiva questa interpretazione di tanti versi di quest’opera che va “zigzagando” tra immagini frammentate di passato-presente- futuro, in cui si inseriscono, per vaste e vaghe associazioni di idee, personaggi storici, condizioni di vita, oggetti che fanno i conti con una realtà evanescente, fermata nella memoria per un dettaglio che alla fine non ha più neppure una ragione di essere. Ma c’è, a mio parere, qualcosa “di più” ma non superfluo, anzi necessario e forse ineludibile che vado ad evidenziare attraverso il commento a una poesia di Vittorino, una poesia che mi ha colpito particolarmente perché abbraccia, sintetizzandole, tutta l’esistenza del poeta e le radici della sua poetica.
“LA CURA”.
Tutti fermi al grido dell’animale
braccato - cadute e crolli
segnano il confine.
a otto anni
il dettato di una sola voce
quando mi perdo
mi perdo nel dettaglio
 
da questa terra santa
ho raccolto due pietre
sono mie e mi sembra di rubarle.
questa è mio padre
nel fermo immagine
di un luogo senza nome.
questa è mia madre
l’asseverante parola del suo dio
scomparso dalle chiese
 
e tu, sorellina, dove sei?
perché non dilegua il fumo
sul campo minato degli anni?
conservare i tuoi quaderni
è per me un lodevole impegno.
siamo fratelli
sconosciuti e per sempre.
a parlarmi di te
oggi non c’è più nessuno
La poesia sembra concludersi qui con una dolorosa constatazione che è rimpianto e nostalgia, ma in realtà essa s’incunea perfettamente tra due altre poesie, che sembrano una premessa (la prima,   trascinata però da quella che la precede) e una conclusione (la seconda) che ben si addice al discorso precedente. Dopo il commento, proverò a farne la sintesi per maggiore comprensione del tutto.
Il primo frammento di ricordi e un fermo immagine statico (“fermi tutti”) che è già un indistinto ma forte sobbalzo del cuore, già esacerbato “al grido dell’animale braccato”, che non ha via d’uscita, segnato com’è da un “confine” di “cadute e crolli” in una devastazione che non ha ancora nome per un bambino di soli otto anni che percepisce, però, il comando di “una sola voce”, quella più forte e autorevole, che travolge, sconvolge e disperde l’anima del poeta che, nella perdita totale di sé, è il “dettaglio” che vede, racchiuso negli occhi del cuore, perso per sempre in quel “particolare” solo apparentemente piccolo ma grande come macigno. Sta fermo, quel dettaglio, tra due “due pietre” situate nel luogo “sacro” del suo paese, che gli appartiene di diritto perché conserva le sue radici, e che pure il poeta ha la sensazione di dover “rubare” per sentirle nuovamente sue, ora che gli anni sono trascorsi disperdendo parte della sua identità, almeno agli occhi degli altri.
Le due pietre sono suo padre e sua madre, punti cardine delle sue origini. Il primo non ha un luogo di riferimento preciso. La seconda ha una sua precisa collocabilità “nell’asseverante parola del suo dio/ scomparso dalle chiese” (quanta verità amara e desolante in quelle chiese vuote a misconoscere quel dio in cui sua madre aveva creduto con tanto fervore senza però salvarla, né prima né dopo, dalla sua immutata pena). Tutto, dunque, ha una collocazione tra il distinto e l’indistinto tranne la figura più importante e per sempre sconosciuta: la sorellina. Il poeta ora interroga quel passato che non gli dà scampo nello strazio di non poterlo ricordare con chiarezza come il suo cuore avrebbe desiderato nell’arco dei tanti anni vissuti, “minati” purtroppo da quel “fumo” che non ha potuto mai dissolvere, se non conservando, come “lodevole impegno”, i “quaderni” dalla bimba vergati, prima di dissolversi in quel fumo, che ha vanificato le sembianze e la voce, non il ricordo. Ma, purtroppo, oggi non c’è più nessuno a parlargli di lei. Solo la sua anima dialoga costantemente con quella della sorellina, perché sa quanto a lui costi averla perduta alla vista senza averla potuta conoscere nella sua vicenda terrena, che è fatta soprattutto di “anni minati”. Tutta la sua amara visione della vita parte da questo amaro ricordo. E questo, per me, si fa ancora più chiaro se procediamo a ritroso nelle poesie precedenti che parlano, non a caso, di “VIAGGIO NEL MEZZOGIORNO” con uno spartiacque ben preciso 1952, l’anno di nascita di Vittorino Curci. Solo “chi legge dal futuro ha la sua porzione di luce” nella “cripta dei tuoi segreti”, ma chi vive gli avvenimenti nel momento in cui accadono ignora tutto quello che “collide con la falsa riga/ con le stimmate di chi soffre in silenzio/ con gli affanni di una vita… (ed è già un mettere a nudo il buio di quella “cripta segreta”, in cui la solitudine è ormai una costante). Una dichiarazione che mitiga “gli affanni della vita” è la successiva poesia “NON ERO SOLO AD ESSERE SOLO”, in cui “mi ero portato/ un libro per cercarti” e dove “mia madre aveva un’altra – più velata – voce”. E continua ancora nella pagina seguente la velata rivelazione di un segreto nascosto nella citazione di Durs Grunbein: “Tutto sotto controllo, lingue, culti, satelliti, solo una cosa hai sottovalutato, questo io.”, a cui bisogna prestare molta attenzione.
Poi, continua: la primavera non vide che quel giorno pioveva/ e che ero in ritardo/ pioveva/ (…) / il ragazzo in ritardo vide anche lui/ che pioveva, si tirò la giacca sulla testa/ e attraversò la strada./ la pena per una muta sofferenza nei tuoi occhi/ da allora non è più cessata./ ma giustizia non è fatta./ tendo piuttosto a dimenticare  
In realtà, dopo “La cura”, come dicevo, il discorso continua (è la seconda parte): “sono stato allertato da una sottile pioggia/ che di noi parla sui tegoli./ (…) come vedi non mi sono di me  dimenticato
E ritorna prepotente la pioggia con la sua meravigliosa simbologia del diaframma/distacco che questa pone tra l’io interiore e tutto il mondo che è fuori, per conservarne solitudini e segreti e misteri. Si ripropone, pertanto, “questo io” di Durs Grunbein che riprende a pulsare fortemente sulla scena del non detto per impadronirsi, solo per chi sa ascoltare, di tutti i frammenti dell’io poetante che chiedono ancora giustizia. Di quanto ancora quell’“io” sente nella parte più profonda e vera di sé, condizionandone pensiero, idee e ideali, scelte di vita. È una pioggia in forte contrasto, come sempre in queste poesie contro vento, con la pioggerellina di marzo, come Angiolo Silvio Novaro probabilmente gli ha suggerito, con la lievità della sua attesa primavera, che mal si addice però a quella “che di noi parla sui tegoli”, come cascata dolorosa che si abbatte ancora e sempre sul dolore antico (i tegoli mi suggeriscono proprio questo) e mai concluso del nostro Autore. Ma Vittorino è proprio in tutto questo coacervo di contraddizioni e in molto altro ancora. Ne riparleremo ancora, riprendendo anche la interessantissima voce di Francesca Alaimo. È una fitta, intricata, labirintica rete di lantane la poesia del nostro Autore ed è per questo che va centellinata, in ossequio alla necessità di “lentezza” nel percorso che ci porta alla conquista felice della conoscenza, di cui parla Simone Cristicchi…
E, ribadisco, è solo una mia interpretazione tutta da contestare, dialetticamente con i vari interlocutori, Vittorino compreso.
E, intanto, ieri mi sono anch’io inazzurrata in tante gioiose emozioni e commozioni tutte Azzurre al Wimbley di Londra e a Wimbledon, dove le nobili signore sfoggiano cappellini estrosi e preziosi (in terra straniera, dunque, “privilegiata” per tanti ovvi motivi, e anche per questo arrogante, supponente e ostile); gioiose emozioni e commozioni, da condividere per assaporare ancora frammenti di Azzurro orgoglio, riponendo fiducia e speranza in questi nostri ragazzi pieni di entusiasmo, passione, talento, in vista dei prossimi mondiali. I miracoli avvengono: occorre solo filtrare la vita con le ragioni del cuore…  
Anche il pallone, allora, dà felicità! Adesso lo abbiamo anche noi toccato con mano! A presto.
 

2 commenti:

  1. Ringrazio Angela De Leo che così generosamente ha dato rilievo alle mie parole. Anche le sue, così appassionate nella ricerca dei segreti della poetica di Vittorino, hanno catturato cuore e attenzione.

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  2. Angela ho i brividi... Quell'ombra, tanto necessaria quanto la luce... Quello scovare la presenza nell'assenza, caratterizza la mia quotidiana ricerca! Come sempre grazie per questi doni!

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