Dopo il piazzamento dell’Italia alle semifinali degli
Europei 2021 e prima del bellissimo ultimo goal che ha decretato, martedì, la
vittoria degli Azzurri per la finale Italia-Inghilterra di domenica prossima,
mi sono giunti questi tre messaggi che vi invito a leggere: La felicità
è nell’attimo ma per fortuna… la vita è costellata di attimi… Infiniti… (Caterina
De Fusco). La felicità sta nelle cose che desideriamo. Ci raggiunge per
un istante e subito scappa via (Francesca Petrucci). Cara
Angela anche oggi stupisci! Le immagini che hai raccolto e le intense parole a
commento sono davvero commoventi! Dal canto mio ti riporto alcuni versi
ispirati ad una foto che magicamente mi ha trovato in un'ora "percossa e
dolente" regalandomi un po'di conforto. Si trattava di una bici solitaria
in un bosco, china tra le braccia amorevoli di un ulivo. Ulivo e bici se ne
stavano così... Cuore a cuore, incuranti del resto... Un abbraccio forte
Angela! “Cuore a cuore”: Lo vedi quel guizzo sul telaio?/ È lì che dimora il
ricordo./ Nei raggi che hanno accolto/ esodi e presenze/ senza involucri./ Nel
languido abbandonarsi / ad un fraterno abbraccio,/ nel frinire di un ulivo
spatinato,/ che freme tra le fronde./ Nel rombo di un palpito,/ nel verde
palmo,/ nel qui ed ora./ Cuore a cuore./ (Mariateresa Bari). Tre
bellissimi messaggi che hanno in comune, sia pure con motivazioni diverse, il
palpito dell’attimo estremamente fugace della felicità. Ci sarebbe da
interrogarsi molto sull’“attimo felice” e spero di poterlo fare dopo i
mondiali, confidando strenuamente nella vittoria dell’Italia in “campo e terra
stranieri”, ma Mariateresa ha riportato l’argomento in “campo letterario”,
dandomi la possibilità di esultare per il dono di una straordinaria silloge di Poesie da
leggere e recensire. Ebbene, l’Autore, il grande Vittorini Curci, che non ha
bisogno di presentazioni, dopo aver letto quanto da me scritto sul suo libro,
mi ha restituito un “lungo attimo” di felicità, che ancora dura, per aver
trovato le mie parole “consonanti” al suo pensiero poetico e al contenuto del
suo libro. “Consonante” è un aggettivo che mi piace moltissimo
perché sta ad indicare che si è d’accordo e in armonia col “suono” dell’altro,
dell’interlocutore. Nel nostro caso mi piace parlare di ritmo, musica
interiori, un “suonare insieme”, che si attaglia meravigliosamente al mio amico
Vittorino: poeta, scrittore, musicista, giornalista. Ed ecco la mia recensione,
con uno stralcio della puntuale Prefazione al libro di Milo De Angelis, che
offre parecchie altre chiavi di lettura, a cui fa seguito un’altra sapiente
recensione del critico letterario Alessio Paiano perché si abbia un ventaglio
più ampio di interpretazioni, su cui poter riflettere per ulteriori riflessioni
tra di noi. Felice lettura, dunque, anche a tutti voi, miei affezionati
lettori…
Mia recensione al libro di Vittorino Curci
Scrigno prezioso che racchiude il Tempo e lo dilata oltre
ogni limite possibile ad abbracciare/allargare anche lo Spazio, questo nuovo
Libro di Poesie (La Vita Felice 2021) di Vittorino Curci,
musicista e poeta di Noci, antico amico del tempo ritrovato perché mai perduto.
Le briciole lasciate lungo la strada che da oggi portano a ieri fino a sfiorare
la prima alba del mondo sono le parole in cui il poeta, e lettore, ama e
paventa ritrovarsi. In “quella terra sconsolata/ sfuggita alle carte
geografiche/ dell’eterno”. Lo spazio/tempo del poeta non è mai il suo luogo
e il suo momento. Di qui il suo bisogno di riprendersi l’infanzia per ritrovare
una sorta di gioiosa innocenza, ma anche “i pensieri di un bambino” che
traghettano il suo “io” adulto tra due secoli così contrastanti tra loro da non
lasciare speranza nel futuro. Meglio uscire in silenzio dal vortice dei ricordi
che labirintano l’anima senza indicare una via di fuga se non un agognato
intimo rifugio nei miti che ci vollero eroi, in un alone di mistero che
s’annebbia nel buio della notte dei tempi e non concede scampo ai nostri giorni
che, ancora più privi di luce, s’infuturano nel passato. E i versi, che non
credono in una continuità spazio/temporale della lingua e delle voci (quella di
sua madre “più velata”), si sbriciolano in frammenti di ricordi che conservano
l’incanto della prima volta, ma anche il tormento della irripetibilità
dell’attimo e di quella emozione, quel sentimento, quella situazione/condizione
di vita, che il poeta avverte mai propriamente sua perché immersa nella storia
degli altri, che rinascono ogni volta in storie diverse, simili e mai uguali.
E, del resto, Vittorino è egli stesso un “verso scazonte” sempre in consonanza
col ritmo interiore della sua musica e sempre ribelle a schemi di perfezione e
armonia, pur nella versatilità del “trimetro giambico” della sua anima. Mai
sola. Mai in compagnia. Sempre spaiata. L’unica coppia uncinata nel cuore è
quella di quel ragazzino, che “giocava a morra con le ore della notte”
per sentirsi vincente, e la sua sorellina, di cui nessuno parla più, ma ci sono
i quaderni che la rendono viva più che mai nel “lodevole impegno” di
conservarli nel tempo. Un tempo restituito e recuperato in tanto “moltiplicarsi
di strade”, nelle innumerevoli “seduzioni e lontananze”, a cui
Vittorino Curci, più propenso a ritagliare le ombre interne ed esterne che a
vivere la luce e di luce, che spesso al Sud assorda e ubriaca, non si è mai
piegato. Non è un caso che persino le sue opere poetiche, che questo tempo
scandiscono e divaricano a ritroso e zigzagando nei millenni spazio/temporali,
riguardano vent’anni e un po’ di più. Perché niente sia normale, prevedibile, scontato.
Il poeta ha avuto bravi maestri per destreggiarsi abilmente nel non scendere
mai a patti con la quotidianità: “ridono di noi che abbiamo imparato/ a
scongiurare il peggio/ da maestri che alzando ostacoli/ ci amavano, da domande
cruciali/ troncate a mezzo”. Mai una risposta a spegnere curiosità e
ardimento dovuto alla creatività d’inventarsi il giorno. È proprio vero “che
l’amore dei padri si capisce dopo, quando il cielo impalma la terra?”. Forse.
“Ogni scintilla di senso” diventa un dono dopo. E così, pur essendo
tutto molto contenuto nel carattere minuscolo del segno grafico e tutto a
rovescio rispetto alle regole grammaticali e sintattiche, la poesia di
Vittorino Curci rivela “un talento che dissoda/ le linee del campo/ e si
protegge con un ombrello disegnato da un bambino.”, dove “le parole e il
silenzio si toccano” e si trasformano in musica che si fa nuova generazione
e “rigenerazione” di un millennio che è agli esordi, ma ci indica già un inizio
e una fine tra paure, contraddizioni, nascite, rinascite e morti. “Siamo in
pochi, sempre meno, nel nostro misero/ accampamento. La sfrontatezza dei lavori
arbitrari/ è appena un ricordo./ Come un finale a tempo/ e una voce fuoricampo
che invita a sgombrare/ il passato”. Anche se tutto torna e poi scompare
nel nulla di una realtà che non è neppure tale.
E i tanti enjembement di tutta la raccolta danno continuità
alla frantumazione di sé e del sé. Ma è una continuità che esalta la poesia, e
la musica che vi vibra dentro, ma non dà scampo al poeta né tantomeno al suo
essere persona. Vittorino ne è consapevole e guarda con occhi disincantati e
lontani l’amara verità mai vera. Rimangono le cose? Forse. E rimane il dubbio.
In versi, in prosa. Egli prova a scambiarne i sensi, ma il risultato non
muta. Gli oggetti sopravvivono ai sentimenti. “Oggetti plastici
con rari lampi di dolcezza…”. Persino “Dio in persona” lo manca “per
poco”. E tutto si risolve o quasi in una sorta di “stanchezza della
specie” nei melmosi fondali del tempo. E tutto sempre si invera. È un canto
a rovescio che non conosce ritorno. Fino a oggi. Vittorino ama il Teatro ma non
i teatranti dell’ultim’ora. Ama la parola ma non i parolai. Ama la poesia ma
non i sedicenti poeti. Ama la musica ma non i suonatori improvvisati senza
esercizio e senza talento. La realtà vanificata nel “niente”. Il niente
che per fortuna è più concreto del “nulla”. Ma non offre via di fuga
nell’infanzia, come un tempo. Ed è per questo che l’Autore si congeda in
silenzio con il clamore di una denuncia, che rivela la sua ESSENZA altamente
umana: “l’attore impacchettato nel vestito viola/ sfida la realtà già pronta
di un testo/ mutilato per passione. Profondità è l’evidenza dei legami,
l’irreparabile/ di ogni vita (…) i sopravvissuti dormono sui soppalchi/ mentre
sulle strade, improvvisamente/ buie, i manichini si sporgono/ dalle sponde dei
cassoni”
E il viaggio continua in una solitudine che ha “soste
puntuali/ nel dolore.” Ma “nessuno dirà/ che non esisti.”.
C’è da sperare che il viola, così nemico agli Attori e al
Teatro, diventi un indaco di stupore continuo, di spiritualità immanente e,
forse, anche trascendente per i Poeti, i Musicisti e gli Artisti perché ci
salvi ancora POESIA, in un messaggio che includa e raggiunga gli altri e gli
altri ancora…
E, intanto, Poesie mette le ali e già vola
lontano dove imprendibile è persino il tormento dell’attimo
fuggente. Angela
De Leo
(dalla Prefazione di Milo De Angelis a Poesie
(2020-1997) di Vittorino Curci)
“L’infanzia percorre tutte queste pagine, con le sue scene
antiche e il suo tempo <primo ottobre nel cortile della scuola>, il suo
giocare <a morra con le ore della notte>. Ma non è l’infanzia
crepuscolare del rimpianto. È una stagione vivissima che non possiamo situare
nel passato, che ci raggiunge e ci supera, a volte ci aspetta. È un inizio
incessante in cui siamo immersi, quello che ha ispirato un momento esemplare di
quest’opera (<Se penso al mattino del creato/ quando le cose furono toccate
da uno sguardo per la prima volta/ io sono contento di tornare sui miei/
passi…>) e sollecita nel profondo la sua ispirazione, ponendosi come
continuo esordio o come rinascita dopo la caduta e accendendo una corrente
impetuosa che scorre tra le righe nei momenti dello sconforto, della sconfitta,
dell’essere vulnerabili alle potenze del cosmo: quando <il tuo mandala sarà
disfatto/ al primo soffio di vento>, ecco che un altro vento misterioso
scuote il disfacimento e lo consegna alla metamorfosi. Così il fascino di
questa poesia è un soffio polifonico che raccoglie in sé diverse tonalità
–dall’elegia alla riflessione sapiente, dall’invettiva alla supplica – per
ricrearsi continuamente dalle ceneri personali ma anche quelle della Storia; è
una prospettiva vasta e generale, un’inquadratura in campo lungo, uno sguardo
nitido e insieme visionario”.
Ed ecco la recensione del critico letterario Alessio
Paiano, proposta da un'altra grande poetessa Ginevra Della Notte sulla sua
pagina FB: VITTORINO CURCI, ETERNO DISCEPOLO/ POESIE (2020-1997)
“È difficile scrivere di un libro come quello di Vittorino
Curci: Poesie (2020-1997) (La Vita Felice 2021) raccoglie a
ritroso gran parte della produzione del poeta di Noci, per cui ci si trova di
fronte a una costellazione di testi distanti nel tempo, anche se resta
inequivocabile la voce peculiare del poeta. Leggendo il volume si ha la
sensazione di girare attorno a un punto ossessivo, mai davvero esplicitato.
Penso prima di tutto al poeta che scrive, cerco di comprendere dove voglia
arrivare questa scrittura che si modula nello stile, nel verso che cede al
racconto nei suoi allucinati ragionamenti. Questa credo sia una tematica
onnipresente nella produzione di Curci, intendo la luce. Non si tratta di un
elemento puramente decorativo, né di mettere luce, illuminare le cose, rendere
chiaro qualcosa. È tutto il contrario: la luce serve a distorcere, è
allucinatoria e pone il poeta su un piano stralunato da cui le cose sbiadiscono
e si confondono. È questa una zona d’ombra della poetica del sud: una luce che
si scatena sulle cose come una maledizione e non dà spazio a redenzioni di
sorta. Ogni verso di Curci gioca su questa ambiguità tra folgorazione e caduta
infernale; dopotutto la luce è anche e soprattutto quella che rende
irrespirabile l’aria del sud, che costringe gli uomini a rinchiudersi nelle
loro case in cerca di riparo. La casa non è un rifugio quando le cose si
assopiscono, ma il contrario: c’è un mondo fuori che fa il suo corso mentre gli
uomini devono attendere il loro turno. Nei versi di Curci tutti gli uomini sono
prigionieri di un’attesa riverberata nella morte o nei ritmi stagionali, il
tempo è una cantilena che ripete una storia finita; c’è anche spazio per
dichiarare l’abisso tra le generazioni, con i vecchi descritti come superstiti
e i giovani (soprattutto bambini) che si ritrovano in un mondo con cui prendere
ancora le misure, mentre i più grandi non hanno parole per spiegarglielo. Tutto
scorre in perdita e il verso registra il ritmo di un tempo interiore che sfuma
la memoria e il circostante; sempre ci si chiede leggendo cosa cerchi il poeta,
dall’inizio alla fine. Qualsiasi cosa sia non c’è verso di trovarla, il
soggetto sembra ritrovarsi di lì per caso, passeggiando tra i ruderi della
mente. La terra che si descrive è a volte un segreto, a volte un’eredità, più
spesso un mistero; fuori dal caotico ritmo cittadino si fa fatica a collocarsi
nella storia, per cui si cerca un proprio ruolo differente. In assenza di una
regola riconosciuta, vivere diventa un gioco di riprogrammazione: per questo l’esperienza
poetica di Vittorino Curci è preziosa, diversa dai terreni dibattuti da più
poeti della sua generazione. Si può solo narrare da una posizione di
marginalità, senza creare, con la propria poesia, una bolla in cui rifugiarsi
dalle insidie del quotidiano; nella poesia di Curci il distacco dalle cose non
è immediato, non ci sono pericoli da cui proteggersi. Le distanze sono molto
più ampie, e riguardano un mondo troppo lontano (il mondo del ‘centro’) per
essere reale: a smuovere il rischio di un paesaggio immobile ci sono le
esistenze degli altri, che fanno riemergere gli occhi da un sogno immobile.
Volti nuovi di persone venute da lontano e che destano la curiosità del poeta,
contrastata dalla diffidenza degli altri abitanti del paese, un paese che non è
mai specificato e che quindi coinciderà con ogni angolo desolato del Meridione.
In una parentesi storica curiosamente ricolma di maestri, Vittorino Curci si
mostra come un eterno discepolo che mette a disposizione di tutti, senza cesure
generazionali, la propria esperienza di uomo tra i ruderi della storia. «Si è
vivi da qualche parte», dice una delle poesie: quel luogo è il senso della
ricerca, ma tutto si rimanda in una luce che non lascia scampo. Cosa significa
per Curci (e per chi la conosce) questa luce? Un faro accecante che da secoli
manda a fuoco un palcoscenico di pietra e terra, dove noi agiamo ma solo come
comparse”.
E non finisce qui. Conto di continuare ancora col libro di
Vittorino Curci perché la nostra felicità di leggere e intervenire con le
nostre considerazioni continui…
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