Sabato sera eravamo tutti a tifare per l’Italia che disputava con l’Austria gli ottavi di finale degli Europei 2021. Una vittoria sofferta con un’Austria irriducibile per forza fisica, resistenza, coraggio. Un’Austria che sistematicamente scompaginava le tattiche di gioco di attacco dei nostri bravissimi giocatori. Fino ai tempi supplementari… Sappiamo come è andata a finire: i risultati e la conseguente gioia di tutti fino a notte fonda. Ed io, che in questi giorni sul nostro blog sto argomentando intorno alla “ricerca della felicità”, dettatami dal libro di Simone Cristicchi, e vado facendo riferimento alle sue parole chiave per conquistarla, cercando anche aiuto tra gli amici poeti e scrittori, mi sono trovata di fronte a una nuova realtà: il pallone. Possibile che possa dare la felicità? Evidentemente sì. Una felicità che ho condiviso anch’io, anche con commozione per via dei giovani e giovanissimi calciatori di entrambe le squadre: così entusiasti, così determinati, così coesi nelle azioni per infilare un goal nella porta avversaria. Veloci come saette, impudenti e imprudenti nei loro falli pur di strappare la palla all’avversario. Già, avversari e mai nemici, anche nei momenti più duri delle gambe tese e degli spintoni maldestri e delle rovinose cadute e dei dolorosi traumi alle gambe, al petto, alla testa. La mia ansia, quasi fossero tutti miei nipoti. I miei ricordi di mondiali vinti e persi. Di portieri amati (primo fra tutti Zoff… poi Buffon…), di allenatori apprezzati o vituperati (Bearzot, CT della nazionale di calcio Campione del mondo 1982 e il suo viaggio di ritorno, dopo la vittoria, col nostro amatissimo Presidente Pertini… Cesare Maldini… Azeglio Vicini… Trapattoni… Sacchi… Ventura… e altri fino al bravo Roberto Mancini dei nostri giorni), di arbitri più temuti che amati. Non sono una patita del calcio, ma le partite della Juventus (in casa siamo tutti Juventini) le ho sempre seguite dal matrimonio in poi. E così tutte le sfide “che contano”, come sosteneva mio marito. Non eravamo tifosi sfegatati ma mediamente coinvolti nelle partite importanti. Come dimenticare la notte tra il 17 e 18 giugno del 1970? Il miracolo dell’Italia contro la Germania? L’esultanza incontrollata per una vittoria insperata che ci vide perdere per un soffio con il Brasile di Pelé. Fu una sconfitta a testa alta. Ma indimenticabile è rimasto quel 18 giugno anche perché a mezzogiorno di quello stesso giorno nacque la mia secondogenita Ombretta in men che non si dica. Più veloce dei velocissimi calciatori. E lo stupore di mio marito: “No non può essere mia figlia. Mia moglie l’hanno appena portata via!”. Ma, suo malgrado, dovette convenire che sì era proprio sua figlia. Avrebbe preferito un maschietto dopo la prima femminuccia. Ma la felicità, si sa, dura lo spazio di un soffio di vento leggero a sfiorare il cielo. C’è sempre un prima, un durante e un dopo, come in ogni esperienza umana. Anche l’euforia per una vittoria dura lo spazio di una notte. Anche i tifosi più accaniti lo sanno. Le “notti magiche aspettando un goal” durano, se va tutto bene, lo spazio di una settimana o poco più. Ma già alla prima sconfitta i conti non tornano. E bisogna fare i conti con tutte le possibili sconfitte e le inevitabili amarezze che infragono la nuvola dotata della felicità. Ieri, seguendo la partita Belgio-Portogallo è accaduto l’impensabile: la sconfitta del Portogallo, nonostante la rassicurante presenza di Ronaldo. Il grande, il forte, il dominante marcatore Ronaldo in ginocchio, sconfitto, con parecchia sfortuna a mio parere, dai marcatori del Belgio. E così, dopo l’esaltazione di una notte, già il giorno dopo si torna a imprecare contro il nuovo giorno e i suoi affanni: quelli dei ricchi e quelli dei poveri e quelli dei “così così”. E a ben poco valgono l’attenzione, la concentrazione, la curiosità e la motivazione, se non abbiamo in cuore qualcosa in più. Ma cosa? A me ha fatto riflettere molto l’atteggiamento di Chiesa, sabato sera, al suo ingresso nel vivo della partita: si è fatto il segno della croce. Per uno che si chiama Chiesa… non c’era da sorprendersi. Ho sorriso divertita per il mio intimo abbinamento. Ma poi, ancora, dopo il suo magnifico e salvifico goal, ha rivolto la sua esultanza al cielo, ringraziandolo con le braccia tese che mi sono sembrate ali in preghiera. Ecco quello che fa la differenza, ho pensato: la “fede”. Lui nel suo credo religioso. Altri potrebbero scoprirlo in sé stessi, nella natura, nell’amico che gioca al suo fianco. Garanzia per una felicità più duratura è (o potrebbe essere) la fede. Chi ce l’ha avverte dentro di sé, sempre secondo me, una marcia in più: “sente” intimamente di poter confidare in un aiuto, in un sostegno, nel prodigio. E anche la sconfitta si fa più leggera, meno totalizzante: c’è Qualcuno/qualcuno o qualcosa che ci conforta. Non è semplice accettazione, ma molto di più. È pienezza laddove, per chi ne è privo, c’è un vuoto che non si sa colmare. E qui subentra la riflessione sulla seconda parola che Cristicchi ci suggerisce: “LENTEZZA” e già vi vedo alle prese con una bella risata divertita. Parliamo di velocità supersoniche dei campioni di calcio e Angela ci parla di lentezza. Ci vuole sorprendere, incuriosire, provocare o che? Niente di tutto questo. Desidero che ci sia il tempo della sospensione di giudizio per poter riflettere e scoprire che: rallentare significa, come dicono gli africani: “permettere alla nostra anima di raggiungerci” (la frase l’ho catturata sempre dal libro di Simone, vera miniera di saggezza dovuta alle tante letture del cantante/poeta/musicista/attore anche su particolari argomenti filosofico-religiosi dei vari “Libri Sacri” dell’antico Oriente, e non è estraneo neppure il suo amore per il Teatro, il Cinema e ogni altra forma d’Arte e comunicazione/formazione per adulti e bambini). Dunque, lentezza sta per darsi il tempo necessario, dopo ogni frastuono calamitante, di ritrovarsi per riscoprirsi nei doni ricevuti più che nelle deficienze registrate; nelle inclinazioni al bene e ben-fare piuttosto che nei condizionamenti negativi, stratificatisi per millenni nelle generazioni che ci hanno preceduto e dalle cui combinazioni si è deterministicamente strutturato il nostro DNA in maniera immutabile. Il permettere alla nostra anima di raggiungerci con pause di riflessione creativa può darci un respiro diverso, una “illuminazione” che è nuova possibilità di riprendere la nostra ricerca con occhi nuovi e sempre bambini. A questo proposito, mi piace riportare del mio carissimo amico Lino De Venuto un post che ho catturato sulla sua pagina FB senza chiedergli neanche il permesso e senza dirgli neppure grazie. lo faccio ora, certa della benevolenza che sempre il suo animo grande mi riserva. Lino qualche giorno dopo la morte del grande sociologo Franco Cassano ne ha condiviso un ricordo: Quanta “bellezza” ci perdiamo per la maledetta fretta! “Bisogna andare lenti come un vecchio treno di campagna” - ci diceva - (e ci dice ancora) il grandissimo Prof. Franco Cassano. “L’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità” - ci diceva (e ci dice ancora) la grandissima Simone Weil. In un brevissimo quanto intenso post Lino De Venuto ha sintetizzato in due parole “lentezza” e “attenzione”, con riferimento a due personalità della cultura filosofica e non solo, Franco Cassano e Simone Weil (da me più volte citata per la grande umanità del suo pensiero), quanto stiamo andando dicendo da più giorni e con varie citazioni di autori più “a portata di mano”, i cui scritti in prosa e in versi, senza dubbio meritevoli, mi hanno dato più di una mano. E quel reiterato “ci dice ancora” è un monito di Lino a far tesoro di due grandi verità nella conquista della nostra anima per imparare a conoscere la “bellezza” del mondo che abitiamo e che ci abita in funzione della nostro felice appagamento e in virtù della nostra realizzazione, in cui però includiamo anche gli altri. non si può essere appagati e felici da soli. Ma di Lino De Venuto ho altri straordinari esempi, ma per esigenze Spazio/Tempo ne cito solo uno: correvo d’estate in una giornata di forte vento su un sentiero che costeggiava un tratto di mare e notai un gabbiano panciutello in lotta con Eolo (…). Mi fermai, lo osservai a lungo (…) con una attenzione insolita: poverino, volava basso, gironzolò più volte sul mio capo, batteva le ali in modo scomposto, percepivo la sua fatica, la difficoltà di tenersi più o meno in quota. Quando dopo un po’ il gabbiano riuscì ad allontanarsi, ripresi la mia corsetta e mi chiesi perché mai mi fossi fermato per tanto tempo: d’istinto mi ricordai che (…) il suo volo è l’unica ragion d’essere e questo lo porterà a trasgredire (…) e che avrebbe voluto condividere: volare felice con maestria in alta quota, ammirare la bellezza del creato, padroneggiare la forza del vento… (da Il Sentimento della Scrittura, di cui abbiamo a lungo parlato e di cui parleremo ancora dopo le vacanze). Ecco. L’attenzione e il fermarsi a osservare, pensare, ricordare, dedurre, scoprire… nuovi orizzonti come possibilità di incontrare la… felicità. La vita non può e non deve essere una corsa. Poi, ecco un post di Francesca Pice che mi ricorda: “FERMATI, ATTIMO: SEI COSI’ BELLO!” esclamava Goethe nel <Faust>, a indicare la struggente nostalgia nei confronti degli istanti felici… C’è nella vita un “momento di grazia”, che non conosce né regole né ritorni. I Greci lo chiamavano kairòs: <la migliore di tutte le cose>… Il post continua ed è bellissimo (lo riprenderò a settembre). Ma, se non ricordo male, la migliore di tutte le cose determina anche la volontà improvvisa e irrefrenabile di cambiamento. Altrimenti non sarebbe uno stato di grazia, una illuminazione. Ma per “sentirla” questa “urgenza” bisogna “fermarsi”. Rallentare il passo per poter guardare, respirare dentro di sé e dire “CHE BELLO!”. Ma bello davvero è ciò Francesca scrive al suo amatissimo papà Nicola Pice, professore di latino e greco nei licei classici e finissimo studioso di queste due lingue antiche, più vive che mai nei suoi libri di grande portata letteraria e storica: papà… Custodire nel nostro cuore ogni attimo che vorremmo fermare. È forse questo il modo di viverlo ora e rivitalizzarlo ogni volta, scoprendo che esso ci abita e agisce in tutto il nostro essere. Solo così sapremo varcarne il limite, dilatarlo, strapparlo all’hic et nunc e farlo durare un’eternità. Altra ricetta? Sì. è questo il bello dell’essere insieme nel prestarsi attenzione reciproca e nel fermarsi per sentire dentro il richiamo del nostro essere e valicarne il limite perché il bello che abbiamo dentro duri in eterno. E Nicola, suo padre di rimando: Francesca, spesso non si considera che il “carpe diem” ha nel verbo il tema di karpòs che vuol dire “frutto” e quindi vuol dire cogli il frutto che ti porta il giorno. Difatti il “tempus fructum fert”. Che meraviglioso arricchimento nel nostro animo “dilatato”, “appagato” e “connesso”.
Mi fermo qui. Ma continuerò ancora per un po’, prima di “fermarmi” anch’io per ritrovarmi… prima di ricominciare. Senza dimenticare che i quarti di finale ci attendono…
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