Per questo nostro viaggio alla ricerca o conquista di una desiderabile e non si sa quanto possibile felicità, desidero partire oggi da una bellissima poesia della mia tenera e cara amica Roberta Lipparini:
Sai, la felicità?/
Quella che fa paura/ quella che tanto non dura/ più di un istante/ Quella
punita dagli dei invidiosi/ e condannata dai gelosi/ La felicità che è una
colpa/ che forse è un peccato/ che ha un prezzo/ sempre/ salato/ Quella che
puoi solo sognare/ quella che ti devi meritare/ con un bel po’ di sofferenza/
che poi svanisce/ e devi stare senza/ Quella che forse è contro la morale/ Che
se viene ti può far male/ La felicità che non ti devi abituare/ che appena
arriva/ subito/ scompare/ Sai? Oggi è arrivata/ e l’ho presa/ e la terrò qua/ perché
penso sia giusta/ questa mia felicità (da Io ce l’ho un
amore)
Ritengo che sia davvero la poesia giusta per introdurre
alcuni testi di carissimi amici o di altri autori che ho letto e apprezzato e
da cui mi sono lasciata coinvolgere emotivamente e letterariamente. Nei versi
di Roberta, infatti, c’è tutto ciò che potrebbe creare un ostacolo fisico,
psicologico, sociale alla nostra ricerca della felicità e al nostro desiderio
di conquistarla con coraggio, perseveranza e quotidiana attenzione e
concentrazione, come abbiamo già detto, perché sono puntualizzazioni, a mio
parere, alquanto negative: la felicità “che fa paura” perché “non dura”; quella
non voluta dagli dèi perché per rappresenta una sfida alla loro onnipotenza e
alla loro sacralità divina e inaccessibile; quella “che è una colpa”, che ha
alla base una situazione peccaminosa; quella che, per averla, ha un prezzo “troppo
salato” in termini di dolore perché, dopo tante sofferenze e rinunce e attese,
va via a tradimento in una frazione di secondo; quella che bisogna meritarsela…
e… siamo sicuri di esserne degni? Insomma,
tutto quello che potrebbe essere considerato un deterrente e che ci induce alla
fuga prima di… cadere in tentazione. E, invece, poi d’improvviso arriva… e, con
Roberta, la nostra meravigliosa e incauta poetessa, sentiamo che sia giusto
afferrarla e tenerla forte tra le mani e nel cuore senza pensare ad altro… solo
che è giusto così, quale ne sia il prezzo e la durata. Ora c’è e bisogna
esserle grati che sia venuta a darci questo palpito, fosse pure un sussurro,
uno svolazzo di aquilone che s’inazzurra per trasportarci su sempre più su dove
tutto il resto si riduce a ben piccola cosa. E mi piace riportare ancora uno
stralcio del romanzo inedito di Matteo Gelardi per ritrovare le emozioni del
bambino, protagonista della storia (autobiografica forse?) de Il ragazzo del villino:
Mamma mi tiene stretta
la mano, mentre entriamo nel villino, nonna è in cucina che sbuccia i
fagiolini. Seduta sul bordo della sedia, lontana dal tavolo per sbirciare dalla
porta e vedermi entrare. Mi accoglie con quel sorriso pieno di rughe, si
strofina le mani sul grembiule rosso stinto, e le allarga più di un’aquila per
tuffarmi dentro. Mi tuffo, e divento una cosa sola con i fagiolini e lei. Mi
giro a cercare gli zii, e Rosanna, ma la faccia di mamma si fa di quell'ombra
che mi fa male al petto. Rosanna non c'è, e non ci sarà più per chissà quanti
anni. Un giudice del Tribunale per i Minori l'ha "impacchettata e
spedita" a Palmi, da zia Elena, la sorella di papà. Io no, il giudice
aveva stabilito che sarei rimasto nel villino. Nel sentirlo raccontare, ho
odiato subito quel giudice del tribunale dei minori senza sapere cosa fossero,
nell'ordine, un giudice, un tribunale e un minore. Mi portano subito in camera
da letto, per togliere gli abiti buoni della trasferta collegio - casa, che poi
è il vestitino della domenica messo di martedì. Tolgo con frenesia giacchetta
in pied-de-poule, gilè scuro, camicia bianca e cravattino: sbottono tutto e
lancio per aria, mentre nonna raccatta le cose al volo, e le piega con cura sul
letto: quel vestito elegante è l'unico che ho, e non va stropicciato. C'è un
letto in più, in questa camera. Me ne sono accorto subito. "È per
me?!" chiedo sognante, e alla nonna basta allargare gli occhi in un sorriso
per dirmi che sì, quello è il mio nuovo letto. Ormai sono grande, dice, e non
posso più dormire tra le femmine, devo stare con gli uomini. Divento uomo in un
colpo solo. O, meglio, sento di esserlo, e devo avere una faccia serissima, me
la accarezzo quasi mi sia spuntata la barba. Nonna ride. Io mi lancio subito a
testare il materasso, che sfrigola come frittura. "Mio",
"nuovo", "letto", però, sono concetti relativi. Innanzitutto
non è un letto ma una poltrona-divano-reclinabile con un extra di lana
imbottita per evitare che una molla si stacchi e infilzi l'occupante
all'altezza della milza. "Nuovo" non lo è per niente, visto che era
di don Nicola da due generazioni, dall'altra parte della strada, ora che il
figlio è partito soldato. E "mio" significa che ci posso dormire
sopra. Ma non da solo. Siamo in cinque in questa stanza, la notte. Mia madre
nel suo lettino accostato al muro, sotto la foto di nonno Franco Francesco e il
lumino sempre acceso; zio Franco e Nonna Camilla in quello matrimoniale, e io e
zio Dorino sul divano-poltrona-letto. Lui a capo e io a piedi. Meno male che
zio Dorino è piccolo di statura. Cinque persone che la finestra aperta non
basta a dare aria per tutti, eppure mi sembra di essere nella suite del Ritz.
Il rumore di cinque respiri, di notte, non è nemmeno paragonabile all'eco della
solitudine di quarantanove orfani che dormono insieme sotto la stessa volta… La
mattina mi sveglio riposato e allegro. Faccio colazione con pane, olio e sale;
la nonna lascia che rubi una pesca dal cesto che sta per portare alla sua commara:
è il compleanno della figlia. Sto per mettere fuori naso e piedi, quando mamma
mi afferra per la canotta. - Dove credi di andare mezzo spogliato? Fila in camera
da letto e aspettami lì. Dobbiamo togliere tutti i vestiti dalla cassapanca,
cercarne qualcuno buono per la mia taglia tra quelli logori degli zii. Aspetto
mamma steso di traverso sul lettone profumato. Le braccia conserte e gli occhi
sgranati sul soffitto affrescato. Resto fermo almeno un quarto d'ora a fissare
le geometrie realizzate dalla mano del pittore; le ombre e le sfumature su quei
frutti stilizzati ma dall'aspetto saporito. Mi sento un nobile, intoccabile. La
voce del bambino mi ripete con la stessa faccia "tu sei fortunato".
Quel “tu sei fortunato” mi rimbomba tra testa e spalle, ma stavolta senza
effetto. Sono felice.
A ben leggere, c’è in questi stralci tutto quello che Roberta
paventa nei sui versi: tutte le difficoltà per trovare o ritrovare la felicità
mai provata o perduta, attraverso considerazioni che evidenziano gli ostacoli
piuttosto che i possibili suggerimenti per cercarla, la felicità, o
conquistarla quotidianamente o afferrarla al volo appena ci capita di esserne
sfiorati. E il tutto rivisitato con gli occhi di un bambino che non ha neppure
dieci anni, ma ha già tanto vissuto, sofferto e osservato nel corso della sua
breve storia: il ritorno momentaneo nel villino, dove sua nonna, in posizione
strategica, pulisce i fagiolini ma continuamente dà un’occhiata alla porta d’ingresso
per scorgere l’arrivo di sua figlia con l’adorato nipotino che non vede da un
anno; l’abbraccio commosso, che è già un assaggio di felicità, compromessa però
da tanti piccoli grandi ostacoli alla realizzazione della compiutezza di quel
suo stato felice: il letto non proprio letto e non esclusivamente suo, ma da
condividere con uno zio; la casa piccolissima per contenere ben quattro adulti
e un bambino (… Il rumore di cinque
respiri, di notte, non è nemmeno paragonabile all'eco della solitudine di
quarantanove orfani che dormono insieme sotto la stessa volta…); l’assenza dolorosa
della sorella maggiore, confinata lontano, per ordine del giudice del Tribunale
dei Minori, nella casa di una zia, sorella di suo padre, con cui non
intercorrono buoni rapporti; i vestiti da indossare, nonostante siano stati dismessi
perché logori e usurati dagli zii… Niente lascia pensare ad uno stato di
compiuta felicità. Eppure, il ragazzino, sente “rimbombare tra testa e spalle”:
“tu sei un ragazzo fortunato”, rispetto ai suoi compagni lasciati in
orfanotrofio perché non hanno come lui una mamma che va a prenderli, sia pure
per le vacanze estive. Non hanno un villino dove fare ritorno e una nonna
amorosa e una specie di letto che pure lo accoglie e un soffitto affrescato che
lo incanta di antica bellezza e un giardino in cui poter giocare e… e… e… quanto basta per “sentirsi” “felice”.
FELICE! La felicità l’ha afferrata in tutto l’altro buono che ha scoperto,
osservando il brutto e il bello della nuova situazione rispetto alla vita che
conduce di anno in anno nell’orfanotrofio, dove viene destinato per l’indigenza
del nucleo familiare; indigenza, dovuta a tante vicissitudini dolorose che si
sono verificate in famiglia prima, durante e dopo la sua nascita. Cosa sarebbe
allora la felicità se non la scoperta, attraverso l’“attenzione” alle cose
interne al proprio animo, ma anche esterne, legate all’ambiente, alle persone,
care e meno care, alle assenze e alle presenze, a quello che manca e a quello
che si ha, osservando ogni tessera del mosaico della propria condizione attuale
e pregressa con “curiosità e ascolto”? il protagonista di questa tenerissima
storia ce lo conferma con la sua capacità, sollecitata sempre dai rari ma
intensi dialoghi con sua madre, di ascoltare la natura, gli altri, il proprio
cuore; porgere attenzione ad ogni parola e comportamento rilevati in casa e
fuori; concentrarsi su ogni dettaglio per scoprire, intuire, conoscere, capire,
valutare e sapere… “Sentire” che la felicità è semplicemente uno stato d’animo
così complicato da comprendere, ma così facile da vivere nell’attimo stesso in
cui lo si avverte dentro come pace infinita, mista al volo di un’ “aquila”, con
le ali/braccia spalancate, più alto del proprio palpitare all’unisono con l’universo…
E la cara Nunzia Di Tommaso, insegnante infaticabile, molto
creativa e dalla straordinaria sensibilità poetica, senza saperlo quanto
piacere mi abbia procurato, riporta su Instagram proprio le parole di Simone
Cristicchi in risposta ad una intervista sul suo ultimo libro, riguardante
appunto, come sappiamo, la felicità: Allora
cos’è la felicità? Per me è il fiore
di tarassaco con i semi che volano nel vento che ho voluto sulla copertina. La vera
felicità è gettare dei semi, senza sapere se germoglieranno. La soddisfazione è
spendersi per gli altri. A volte sono riuscito a vedere crescere le mie azioni
positive. Ma dobbiamo ricordarci che per seminare bisogna prima dissodare la
terra. È una fatica che dobbiamo fare tutti come disse la scrittrice Etty
Hillesum: <Si deve cominciare da noi, ogni giorno, da capo>. Lo penso anch’io. E faccio mie le sette parole
che Simone ci indica per cercare e sfiorare la felicità: “attenzione”, “lentezza”,
“umiltà”, “memoria”, “cambiamento”, “talento”, “noi”.
Nei prossimi giorni prenderemo in esame ciascuna parola per
focalizzarne senso e significato, e per fare tesoro di riflessioni, consigli,
suggerimenti, che Simone Cristicchi ci propone e che noi proveremo a
moltiplicare con altri interventi, proposte, brani di prosa, poesie. Ne va di
mezzo anche la nostra felicità. E dunque?
Carissima quanto mi tocca questo tuo approfondimento sulla felicità. Nel racconto riportato le sette parole di Cristicchi ci sono tutte. Perché è vero che la felicità è nelle piccole cose e non va confusa con il possesso o la realizzazione di un mero desiderio materiale. Che ci sia un abisso tra essere e avere potrebbe apparire scontato, ma in realtà abbiamo il dovere di ricordarcelo. Facendo spazio alla propria anima. Chiudendo gli occhi. Ascoltandosi. Ai miei alunni ho dedicato una breve poesia con l'augurio che possano sempre nei cantieri della loro esistenza, trovare un varco per sbocciare! Eccola.
RispondiEliminaUn abbraccio grato a te ❤️❤️
Solo un varco
Se chiudo gli occhi, sono filo d'erba /
un grande albergo per le coccinelle./
E stelo di parole /
a cucirmi le ferite./
Il fiato delle rare stelle sono/
e luce nei cantieri a rovistare/
un solo varco amico per sbocciare./
M. Bari