Poco fa, mettendo un po’ di ordine tra i miei tanti libri, mi è scivolata una pagina di quaderno scritta a mano, senza data. Un mio racconto scritto alcuni anni fa e probabilmente mai pubblicato. Non ricordo. Ma eccomi qui a trascriverlo sul mio blog, per sollecitarvi a fare dei commenti, delle riflessioni. Abbiamo parlato tanto in questi mesi, nel nostro Retino e nel mio/nostro blog, di lingua, linguaggio, parola orale e scritta. Di scrittura in prosa e poesia. Di poesia narrativa. Di prosa poetica. Ho ricevuto e catturato da voi poesie e prose meravigliose, che abbiamo fatto volare verso cieli infiniti, verso orizzonti sempre più ampi di significazione. Ora proviamo con questo racconto. Senza titolo. Mio. Vostro. L’ho intitolato in questo momento per dargli una identità sul desktop del mio computer. O forse per centomila altri motivi. Non ricordo se in questi mesi abbiamo anche parlato di “solitudine” e “silenzio”, due parole polisemiche e, per tanti aspetti, ossimoriche. Certo, spesso si accompagnano nel loro essere subite o cercate, volute. Nell’uno e nell’altro caso, portano con sé uno sciame di emozioni difficili da dire, interpretare. Ma paradossalmente segnano la pelle, scavano nel cuore. Ci restituiscono una maggiore comprensione di noi? Fate un po’ voi.
La Solitudine e il Silenzio bussarono alla porta. Entrarono
velocemente. Ispezionarono ogni angolo della casa. Scelsero lo studio per
sedersi. Erano nudi. Inermi. Un groviglio di linee e punti inestricabili,
tracciati in un marmo ruvido e inerte. Tela di ragno a tessere un inganno.
La scrittrice Angela De Leo li vide. I loro occhi puntati su
di lei la spaventarono. Sembravano scavare per carpire ogni minima vibrazione,
anche la più riposta.
- Che volete? - chiese Angela, mentre si accingeva a scrivere
sulle pagine bianche di un quaderno sgualcito di scuola elementare. Non ci fu
risposta. Un ammiccamento di sguardi. Cielo e terra confusi. Non rientravano
nelle esperienze/conoscenze dei bambini. - Che volete? - chiese ancora.
- Abbiamo freddo. Tanto freddo.
- Andate via - disse lei. - non saprei come darvi calore. Nella
mia casa c’è un calore naturale che non può riguardarvi. Non si mossero.
Mormorarono: - Noi staremo qui.
Una ridda di pensieri trafisse l’aria. Rimbalzò per la
stanza. Vorticò. Aspettava di essere ordinata da una mano accogliente,
generosa, sapiente. Che in quel momento non c’era. Il foglio bianco a righe era
lì davanti a lei, che non riusciva ad afferrare una sola parola. Si sentiva
affranta. Avvolta da niente. In un deserto bruciante di sabbia (di rabbia?),
mentre il vento, entrato nella stanza con i due intrusi, disperdeva, senza
pietà, le lettere dell’alfabeto venute fuori dai libri spaginati.
Solitudine e Silenzio, sempre stretti in un abbraccio
sinistro, godevano della sua disperazione, compiaciuti della loro ennesima
vittoria.
- I veri potenti al mondo siamo noi - si dissero pieni di
tracotanza, ignorandola perfidamente.- Gli uomini non riescono a vincerci. Dovrebbero
ucciderci. Ma non osano farlo. Davanti a noi ingrigiscono. Si consumano fino a
diventare un mucchietto di cenere. Poi, rivolgendosi ad Angela:
- Puoi anche chiudere il quaderno. Come vedi, non disponi più
neanche di una sola lettera dell’alfabeto. Ormai sei nostro ostaggio. Da oggi
dovrai soltanto stare a guardarci, a contemplarci, adorarci, sperando che la
stanchezza non ti vinca e che ci vinca e ci faccia addormentare o ci annienti
del tutto. Non ribellarti, però, noi siamo resistenti persino al gelo che ci
circonda. Puoi sperare in una tregua, ma non illuderti, sarebbe comunque di
breve durata.
- Mio Dio! - gridò atterrita la scrittrice. - Non ho via di
scampo! Eppure, non ho mai amato circondarmi di solitudine e silenzio. Ho
sempre amato stare con la gente, con i miei cari, con i miei lettori nel dono
reciproco di un libro scritto, letto, amato nell’atto di scriverlo, nell’atto
di leggerlo. Una comunione di cuori e di anime. Un essere insieme attraverso le
parole da raccontare, da ascoltare. Per imparare a conoscerci, comprenderci,
amarci. Per stare insieme, insomma. Insieme! Noi esseri umani non siamo nati
per vivere da soli. Non apparteniamo al silenzio. Abbiamo avuto il dono della
parola. Per stringere legami. Per essere più forti in due, in quattro, in otto,
in cento, in mille, in centinaia di migliaia, in miliardi. E tutte le creature
del creato hanno un loro linguaggio per non essere mai sole... Ma le sue
parole, disperate e appassionate, non sortirono alcun effetto. Angela
si sentiva davvero senza via d’uscita e cominciò a tremare fino nelle ossa. O
forse era soltanto il cuore. Davanti a lei cominciarono a scorrere immagini di
uomini e donne che, come in processione, girovagavano per le strade della
città, gravati da fardelli pesantissimi. Schiena curva. Volto corrucciato o
straziato. O privo di una qualsiasi espressione a renderli vivi. Sembravano
diventati di pietra vagante e trascinavano sé stessi. Non comunicavano tra
loro. Neppure col vicino di viaggio. Non gesti. Non parole. Neanche una sillaba
a renderli vivi. Erano divisi da muri altissimi su cui erano scritti i loro
nomi, ormai svuotati di significato. Di storie. Le loro storie sfilavano
accanto come se non gli appartenessero: amori vissuti, amori finiti, speranze
disarmate, angosce dilatate. Dal selciato, su cui avanzavano lentamente e a
fatica, i detriti dei dirupi gridavano:
- I vostri sogni sono morti perché non avete parole per
raccontarli. Ma consolatevi, tanto lo sapete, o i sogni muoiono all’alba o
portano alla follia quando prendono forma e dimora negli occhi del giorno.
- No, questo noooo! - gridò ancora Angela tra implorazione e
sgomento. Guardò il quaderno invecchiato e scolorito. Prese la penna neghittosa
e indispettita, sistemò calamaio e carta assorbente, e si accinse a scrivere,
mentre le mosche e le zanzare, i grilli e le cicale, confinati nella sua testa
da tempo immemorabile, cominciarono la solita sarabanda delle idee. Doveva concentrarsi
e combattere quell’incessante rumore senza parole, senza una sola sillaba da
far cadere con fare distratto, ma sempre più attento e forte per scovare dove si
fossero acquattate le lettere sparse dell’alfabeto. Le lettere smarrite. Le vide
vorticare nel vento. Non era danza, non era canzone quel turbinio che le
portava in alto e le rendeva imprendibili. Angela armeggiò con viti e bulloni
per penetrare in quel vortice, si protese fino allo spasimo per afferrare
quelle lettere ribelli e smarrite e riuscì a imprigionarle nelle mani. E, magia
di ogni incanto, cominciò a sistemarle sul foglio, incastonandole velocemente col
pennino intriso d’inchiostro. Le lettere riconobbero l’antica mano, il cuore d’erba
e rugiada, l’anima d’azzurro cielo/mare e si arresero docili e felici alle
righe come solchi arati in cui dolcemente posarsi per germogliare e farsi fiori
di rinnovata primavera. E lei, la scrittrice di mille storie in prosa e in
versi, ricominciò a raccontare di sé, degli altri, dei tetti e delle case,
degli alberi e dei cespugli, della musica e del canto, delle strade e delle
onde, dei treni e delle vele, degli aerei e dei missili, della Luna e di Marte
e del Sole. Dell’amore che imbriglia le stelle e accende i sogni come fiaccole
ardenti nelle mani degli innamorati. Dell’universo che sembra indifferente ad
ogni cosa e invece è un palpito d’amore ad avvolgere ogni infinito, concentrato
in un punto infinitesimale di ogni finitudine umana.
E nel mutuo scambio di potente energia la Luce tornò. I piccoli orti divennero prati immensi. Le parole saltavano, danzavano, si abbracciavano. Cantavano ubriache d’allegria.
Angela a fatica posò la penna che correva
correva correva ad azzerare lo spazio e il tempo per vincere anche la morte. Guardò
davanti a sé la Solitudine e il Silenzio perché non le facevano più paura. E si
accorse che erano spariti. C’erano al loro posto, con gli abiti della festa,
tutti i protagonisti dei suoi libri, i tanti personaggi e persino le comparse. Si
accorse tra le lacrime che erano minuscoli frammenti di sé. Lei moltiplicata in
ogni sua storia in ogni suo verso. E, invisibile ma vera in ogni dettaglio dei suoi
personaggi, in ogni più piccolo filo d’erba a distinguersi e ad amalgamarsi
nell’unico verde dell’immenso prato. Riconobbe le sue parole. Si riconobbe. Lei
finalmente padrona delle parole che la connotavano. Anche lo studio era un disordine
di mille arcobaleni spalancati nel cielo, come dopo ogni tempesta.
Fu allora che scorse in un angolo remoto, tra il pianoforte e
la chitarra, Apollo che le porgeva la lira, segno di vita, e il folle giovanissimo
Eros che le porgeva l’arco, simbolo della speranza, e le nascondeva la freccia,
simbolo di ambiguità: vittoria o morte. Ma lei non voleva vittorie e neppure
sconfitte. Voleva vivere, com’era sempre vissuta, immersa nelle parole.
Le sorrise la parola con le sue tante verità… e nessuna poi
vera. Solo la Parola, forse. Ma era ancora in cammino per sfiorarla…
E oggi Angela si
chiede: fu un’allucinazione? … forse… chissà! Angela
Grazie! Come sempre, ogni tuo scritto è arrichimento, fonte di riflessione e, soprattutto, sorgente di Bellezza! Rita Vecchi
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