Oggi è il compleanno di Raffaella. Raffaella è nata proprio
in quel 1968 che tanti ideali voleva realizzare con i giovani studenti che
stavano decidendo di cambiare il mondo in meglio, non prevedendo il peggio, che
di lì a poco sarebbe arrivato, con la loro rivoluzione contro il passato,
strumentalizzata politicamente. Il Sessantotto, dunque, mi vide già madre
dell’unica figlia, che mi sarebbe rimasta accanto fino ai nostri giorni.
Fu
un’estate molto calda quell’anno di cinquantadue anni fa. La mattina del 2
luglio, verso le 9 le prime avvisaglie. Qualche colpetto per dirci di aprire
perché era il tempo giusto di spalancare gli occhi sul mondo. Né prima né dopo.
E da un mesetto era tutto pronto, come tradizione voleva a quei tempi. Avevo
confezionato, con ferri e uncinetto, ma soprattutto con infinito amore, tutine,
salopette, golfini di lana dai colori rosso, giallo, blu,verde acqua, che
potessero andare bene sia per un maschietto che per una femminuccia, non
conoscendo allora il sesso del nascituro, ma quasi tutto il corredino
privilegiava il celeste per via di Primo che sognava, come tutti i maschi, il
figlio maschio. La culletta era laccata di rosso con già gli uccellini e
carillon a volteggiare sul capo del nascituro. Dopo le 9, un po’ frastornati e
“impediti”, raccogliemmo la valigia del corredino e il borsone con la mia roba
e, dopo una telefonata a mamma perché si preparasse a venire con noi in
clinica, e una telefonata a Lizia per lo stesso invito, ci avviammo alla casa
del gelso e delle rose, per incontrarci e andare via insieme. Nel cortile tanto
amato, Primo volle immortalarmi con lo scamiciato blu premaman e quell’aria un
po’ stupita, fiduciosa, disorientata che solo le primipare hanno. Alle 11
eravamo a Bari nella clinica Divella, dove avevo fatto un Corso di psicoprofilassi
al parto e dove avevo incontrato la bravissima ostetrica, signora Chiella, che
avrebbe fatto nascere tutti e Quattro i miei figli. Lei mi aspettava. Avevamo
prenotato una camera privata ed eravamo, io, Lizia e mamma, in attesa che i
dolori si accentuassero, invano. Mamma cominciò a preoccuparsi: “Ma che dici, è
stato un falso allarme? Ce ne dobbiamo tornare a casa?”. A queste sue parole,
invece di preoccuparmi anch’io, scoppiai a ridere. Fu così che tra una battuta
e l’altra, tra le le mie proteste che i dolori ad intervalli regolari c’erano e
le perplessità di mamma (“Nàn zò chìssə rə dəlòrə chiù
fùrtə. Hònnə ancòurə vəné rə calcassə”!!!)
e di Lizia, e le mie rinnovate risate perchè nessuno mi credeva,
alle ore 20 Raffaella venne al mondo: un batuffolo rosa con tanti capelli neri
e lunghi e due occhioni di bruna oliva a salutare la vita. Bellissima e con una
pelle rosea di pesca vellutata. Una femminuccia. La signora Chiella, dopo aver
tagliato il cordone ombelicale, averla lavata, pesata (3,600 gr.) e vestita
d’azzurro, la portò in giro per la clinica a mostrarla a tutti tanto era bella
e luminosa. Un raggio di sole a illuminare le prime ombre della sera.
“La
rosellina di papa”, fu il commento di suo padre, dopo aver superato la
delusione del mancato figlio maschio. Raffaella era troppo bella per non amarla
da subito. Io la amavo già. Si precipitarono I nonni e gli zii da Surbo. E
nella nostra casa lei illuminò stanze e cuori. Ci facemmo compagnia a lungo io
e lei. A nessun altro figlio ho potuto dedicare il tempo a lei riservato con
duplice nodo d’amore. Fino alla nascita di Ombretta circa due anni dopo. E lei
mi corrispondeva con I suoi occhioni, le sue manine, vibranti farfalle sempre
in volo, I suoi balbettii che ben presto si trasformarono in parole: ba-bbo,
ma-mma, zi-a. Aveva solo pochi mesi. Mamma si preoccupava, mi rimproverava:
“Non la sforzare, la bambina è troppo piccola”. Precocissima, a un
anno, sollecitata dal padre, sapeva tutte le capitali del mondo. A due si
inventava storie di amori lontani, in una Parigi mai vista, neppure in
cartolina. Bimba di parole e di baci. Di fremiti di vita, da me ben presto
spenti perchè facesse subito da mamma ai fratellini che sono piovuti in casa
come pioggia di inatteso, ma subito esploso amore nel mio cielo
sempre dimidiato tra piacere e dovere: ero già preparatrice di allieve,
candidate ai vari Concorsi nella scuola. Raffaella si ribellava al suo nuovo
ruolo di bambina-madre e rivendicava la mia presenza di madre. Ad ogni trillo
di campanello correva a rispondere: “Andate via, la mia mamma non c’è per
nessuno”. Poi si rassegnava e si prendeva cura dei piccoli che io incautamente
le affidavo. Così per decenni o quasi. Un rapporto simbiotico, il nostro, ma
con una assenza/presenza da parte mia che ha sovvertito per anni, fino ai
nostri giorni, ruoli e funzioni. Una reciprocità fatta di vuoti da colmare. Per
anni le ho dato ciò che non possedevo, acuendo in lei la “fame” di sua madre,
mai più vissuta come madre.
Con
lei, oggi, condivido la quotidianità, nella nostra casa, del giardino, del
verde degli alberi, della luminosità del nostro cielo, quando il cielo è terso
come una cartolina. Ma è difficile condividere con lei problemi e dispiaceri.
Sa tenerseli dentro per non darmi pensieri e ansie. Ha per me protezione di
madre. E io per lei ho segreti di figlia che mai direbbe alla propria madre,
perché non capirebbe, si allarmerebbe, si dispererebbe per la propria impotenza
a risolvere situazioni che più non le appartengono, data l’età, il mondo
capovolto, una cultura che crea distanze abissali tra passato e presente. Tra
me e Raffaella i ruoli sono stati vissuti, dunque, nella più impensabile delle
anomalie, fuori dall’ordinario, a cui siamo per atavica convinzione e
tradizione abituati.
Da sempre
io sono figlia di mia figlia. Lei madre di sua madre.
E, come
ogni madre, desidera un amore esclusivo da parte di sua figlia. E, come ogni
figlia, desidera un amore esclusivo da parte di sua madre.
È questo il
suo tormento palese, il mio tormento celato. E anche qui i ruoli si ribaltano.
Lei, che non mi confida mai le sue pene, reclama a viva voce un “amore che
faccia la differenza”. Io, che le dico tutto dei miei affanni e delle mie paure
e delusioni, taccio sull’amore che le porto perché “l’essenziale è invisibile agli
occhi”.
Ma oggi non
posso fare a meno di dirglielo, dopo le parole accorate, sia pure velate di
tenera ironia, che mi ha rivolto, coordinando, nel “magico cortile” della
nostra antica casa, la bellissima serata di presentazione del mio romanzo
(seconda parte), di cui hanno parlato magnificamente due meravigliosi amici e
relatori: Valentino Losito e Mario Sicolo. Entrambi giornalisti. Il primo di
lungo corso e all’apice di ruoli e compiti a livello nazionale, meritati a suon
di penna; il secondo, più giovane ma non meno esperto e più romanticamente
grintoso. Entrambi anche scrittori e poeti.
Ebbene,
ancora una volta, durante la serata in cui si è parlato tanto del nonno, che ci
ascoltava attentamente un po’ in ombra sotto il pergolato, ecco Raffaella che mi
afferra l’anima con la sua invocazione d’amore. “Un amore che misuri la
differenza tra presenza e distanza, tra il qui e ora e la lontananza e
l’inevitabile procrastinare delle risposte attese”.
E io
finalmente le rispondo:
“Bambina
mia, l’amore provato e vissuto e donato è sempre un amore imperfetto, mancante
della certezza della sua pienezza e intensità, perché recepito in maniera
soggettiva, che fa i conti con l’attesa e le attese, con il proprio metro di
misurazione e di valutazione, e con il senso di inappagamento che ogni amore
lascia in chi lo riceve perché è incerta la quantità d’amore in possesso di chi
lo dona.
L’unico
amore certo è quello che si possiede, dunque?
Ma poi, si
possiede davvero l’amore?
Ma allora
come mai più lo lasciamo andare più diventa radicato nel cuore? E più lo
tratteniamo e più ci sfugge, a volte soffocato proprio dalla stretta che non
lascia libertà di essere e di agire?
Perché più
viene dichiarato e più viene diluito il suo significato più profondo? Eppure,
se non lo diciamo, rimane impredicato, nascosto, non recepito, non ascoltato,
non compreso nella sua reale esistenza. Esiste solo per chi lo prova ma non
esiste per chi non ascolta le parole che lo rendono visibile, anche se mai
certo.
Come ogni
cosa che non ha corpo, non occupa spazio, non ha una o più dimensioni visibili,
anche l’amore non può essere toccato con mano, pesato, quantificato, percepito
nella sua essenza, nelle sue qualità.
Possiede
qualità l’amore? È frazionabile in bellezza, costanza, vicinanza, accudimento
passione, tenerezza, forza, fiducia, protezione, esuberanza, allegria,
complicità, molteplicità, singolarità, unicità?
Ed è
riconducibile davvero alla sola parola AMORE?
Siamo tutti
concordi nel definirlo come tale per poterlo vivere senza essere tratti in
inganno da ogni pensiero soggettivo, dagli innumerevoli condizionamenti
endogeni ed esogeni, che inevitabilmente lo snaturano, lo sviliscono, lo
esaltano, lo mascherano, lo esibiscono, lo urlano o lo soffocano nelle spire
della paura e nel bosco di ogni fuga e di ogni perdita dell’unico sentiero per
fare ritorno al punto di partenza: l’improvviso batticuore nel conoscersi e
riconoscersi tra migliaia di simili con l’infinito negli occhi e tra le mani?
E che dire
del personale punto di vista: per me, per te, per lui, per lei…?
Quanto
complesso e complicato l’amore. C’è persino chi nega la sua esistenza. Oppure
gli fa uno sberleffo di scettico sarcasmo.
Alla luce
di tutte queste considerazioni, diventa davvero impossibile conoscere e
riconoscere l’AMORE.
E, se ci
pensiamo un po’ di più, una tristezza senza fine ci assale… e un senso
sconfinato di solitudine ci pervade.
SIAMO
SOLI. NELL’IMMENSITA’ DELL’UNIVERSO CHE CI SPAURA.
Sentiamo
che abbiamo bisogno d’AMORE. Di amare ed essere amati. E sentiamo che solo
l’AMORE ci rende felici. Ci rigenera. Ci dona nuova nascita e nuova vita.
Dunque,
questo sentimento esiste? Ed è vivificatore?
Sì. Esiste.
ll batticuore è là. Esplode quando meno te lo aspetti. Sia che si tratti del
primo palpito di un semino sotto il cuore di una donna chiamata ad essere
mamma. Sia che si tratti del primo attimo di vita tra le braccia di un uomo che
s’innamora della sua paternità. Sia che avvenga tra due esseri umani
l’esplosione del Big Bang che è tumulto incoercibile del cuore in andata e
ritorno… e in espansione…
E
ci accorgiamo che l’AMORE è semplice come l’aria che respiriamo. È.
Che duri un
attimo o una vita non importa.
Rimane un
punto vivo, incancellabile, nell’eternità.
Per questo
oggi voglio dedicarti, bimba mia, questi versi che ho scritto per te questa
notte per dirti finalmente quello che vuoi sapere. Sì, esiste oggi il mio
intimo, silenzioso sorriso, che tanto ti preme cogliere sulle mie labbra, per
sapermi finalmente felice.
Ti
regalo oggi il mio sorriso
luce di
colorata felicità
da
sempre attesa negli occhi
a farsi
specchio della tua ansia
perché
in gioia si tramutasse
il
riflesso di mille e mille stelle,
per me
raccolte su terrapieni
inventati,
nel vuoto della mia sera
per
accenderla di risate.
Clamore
assordante fu
il
battito del tuo cuore
vicino
al mio in un palpitare
di
giorni di stanca malinconia.
Ma
complici io e mia madre
di un
segreto dolcissimo
sotto un
cielo che sapeva
di noi
riprendemmo
a ridere,
dimentiche
del tempo
e le
stagioni del silenzio.
Rinacque
l'incanto
delle
tue parole ali di allodole
a
ricamare i miei mattini
che
ombre attraversarono
tra
nuvole scure di pensieri
distanti
e prigionieri.
Sogni
mai afferrati
dalle
tue mani
protese
a farmene dono.
E oggi,
vedi, solo per te sorrido
a
rendere visibile l’Amore
che ti
devo.
Con il
sole che bacia i tetti
della
tua mai spenta speranza
a sapere
della mia gioia
di
vivere.
(Nel
giardino arso di sole
papaveri
di fragili corolle ridono
a
restituirci rinnovate intese d'allegria)
Per
te, Raffaella, e le tue mai contate primavere perché nata d’estate...”.
Ma scrissi
questa lettera a Raffaella l’anno scorso, subito dopo quell’invocazione muta.
Ma era estate ed io ero già partita per le irrinunciabili vacanze nel Salento.
Non la strinsi al cuore. Non le detti il bacio atteso. Le parole volarono via
web e si depositarono tra le spighe azzurre della lavanda in fiore e l’intrico
delle lantane rosse e gialle che invadono l’aiuola più grande del giardino.
Giunsero mai a lei? Non lo so. Neppure gli ostinati papaveri, che ostinatamente
continuano a rinascere (dopo una sotterranea inondazione di acque divorate
dalle idrovore) fra i mattoni del nostro passaggio tra i cancelli e la casa, mi
hanno mai confidato della consegna delle mie parole attese e forse mai
ricevute. Ancora una mancata risposta tra noi. Nonostante l’Amore.
Te le
ripeto oggi con Amore. Ogni mamma in cuor suo sa la differenza, come ogni
figlia, in cuor suo, la sa. Ma rimane racchiusa nel profondo del cuore perché
ogni mamma e ogni figlia e ogni essere umano dà ciò che può perché quello che è
“di più” non è il frutto di quello che è. Ogni altro di più è un inganno in
quanto è uno sforzo che mina l’autenticità e la veridicità del
sentimento. Diamo agli altri quello che possiamo perché è il solo modo per dare
quello che siamo. Autenticamente noi. E di questo dobbiamo essere fieri e
appagati. È questo tutto l’Amore possibile. Forse mai misurabile. Ma è Amore. E
se è, non necessita di alcuna differenza, alcuna misurazione. È.
A te, mia
Raffaella, con l’Amore imperfetto che mi vive dentro.
mamma
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