giovedì 2 luglio 2020

2 luglio: Raffaella conta le sue estive primavere



Oggi è il compleanno di Raffaella. Raffaella è nata proprio in quel 1968 che tanti ideali voleva realizzare con i giovani studenti che stavano decidendo di cambiare il mondo in meglio, non prevedendo il peggio, che di lì a poco sarebbe arrivato, con la loro rivoluzione contro il passato, strumentalizzata politicamente. Il Sessantotto, dunque, mi vide già madre dell’unica figlia, che mi sarebbe rimasta accanto fino ai nostri giorni.
Fu un’estate molto calda quell’anno di cinquantadue anni fa. La mattina del 2 luglio, verso le 9 le prime avvisaglie. Qualche colpetto per dirci di aprire perché era il tempo giusto di spalancare gli occhi sul mondo. Né prima né dopo. E da un mesetto era tutto pronto, come tradizione voleva a quei tempi. Avevo confezionato, con ferri e uncinetto, ma soprattutto con infinito amore, tutine, salopette, golfini di lana dai colori rosso, giallo, blu,verde acqua, che potessero andare bene sia per un maschietto che per una femminuccia, non conoscendo allora il sesso del nascituro, ma quasi tutto il corredino privilegiava il celeste per via di Primo che sognava, come tutti i maschi, il figlio maschio. La culletta era laccata di rosso con già gli uccellini e carillon a volteggiare sul capo del nascituro. Dopo le 9, un po’ frastornati e “impediti”, raccogliemmo la valigia del corredino e il borsone con la mia roba e, dopo una telefonata a mamma perché si preparasse a venire con noi in clinica, e una telefonata a Lizia per lo stesso invito, ci avviammo alla casa del gelso e delle rose, per incontrarci e andare via insieme. Nel cortile tanto amato, Primo volle immortalarmi con lo scamiciato blu premaman e quell’aria un po’ stupita, fiduciosa, disorientata che solo le primipare hanno. Alle 11 eravamo a Bari nella clinica Divella, dove avevo fatto un Corso di psicoprofilassi al parto e dove avevo incontrato la bravissima ostetrica, signora Chiella, che avrebbe fatto nascere tutti e Quattro i miei figli. Lei mi aspettava. Avevamo prenotato una camera privata ed eravamo, io, Lizia e mamma, in attesa che i dolori si accentuassero, invano. Mamma cominciò a preoccuparsi: “Ma che dici, è stato un falso allarme? Ce ne dobbiamo tornare a casa?”. A queste sue parole, invece di preoccuparmi anch’io, scoppiai a ridere. Fu così che tra una battuta e l’altra, tra le le mie proteste che i dolori ad intervalli regolari c’erano e le perplessità di mamma (“Nàn zò chìssə rə dəlòrə chiù fùrtə. Hònnə ancòurə vəné rə calcassə”!!!) e di  Lizia, e le mie rinnovate risate perchè nessuno mi credeva, alle ore 20 Raffaella venne al mondo: un batuffolo rosa con tanti capelli neri e lunghi e due occhioni di bruna oliva a salutare la vita. Bellissima e con una pelle rosea di pesca vellutata. Una femminuccia. La signora Chiella, dopo aver tagliato il cordone ombelicale, averla lavata, pesata (3,600 gr.) e vestita d’azzurro, la portò in giro per la clinica a mostrarla a tutti tanto era bella e luminosa. Un raggio di sole a illuminare le prime ombre della sera.
“La rosellina di papa”, fu il commento di suo padre, dopo aver superato la delusione del mancato figlio maschio. Raffaella era troppo bella per non amarla da subito. Io la amavo già. Si precipitarono I nonni e gli zii da Surbo. E nella nostra casa lei illuminò stanze e cuori. Ci facemmo compagnia a lungo io e lei. A nessun altro figlio ho potuto dedicare il tempo a lei riservato con duplice nodo d’amore. Fino alla nascita di Ombretta circa due anni dopo. E lei mi corrispondeva con I suoi occhioni, le sue manine, vibranti farfalle sempre in volo, I suoi balbettii che ben presto si trasformarono in parole: ba-bbo, ma-mma, zi-a. Aveva solo pochi mesi. Mamma si preoccupava, mi rimproverava: “Non la sforzare, la bambina è troppo piccola”.  Precocissima, a un anno, sollecitata dal padre, sapeva tutte le capitali del mondo. A due si inventava storie di amori lontani, in una Parigi mai vista, neppure in cartolina. Bimba di parole e di baci. Di fremiti di vita, da me ben presto spenti perchè facesse subito da mamma ai fratellini che sono piovuti in casa come pioggia di inatteso, ma  subito esploso amore nel mio cielo sempre dimidiato tra piacere e dovere: ero già preparatrice di allieve, candidate ai vari Concorsi nella scuola. Raffaella si ribellava al suo nuovo ruolo di bambina-madre e rivendicava la mia presenza di madre. Ad ogni trillo di campanello correva a rispondere: “Andate via, la mia mamma non c’è per nessuno”. Poi si rassegnava e si prendeva cura dei piccoli che io incautamente le affidavo. Così per decenni o quasi. Un rapporto simbiotico, il nostro, ma con una assenza/presenza da parte mia che ha sovvertito per anni, fino ai nostri giorni, ruoli e funzioni. Una reciprocità fatta di vuoti da colmare. Per anni le ho dato ciò che non possedevo, acuendo in lei la “fame” di sua madre, mai più vissuta come madre.
 Con lei, oggi, condivido la quotidianità, nella nostra casa, del giardino, del verde degli alberi, della luminosità del nostro cielo, quando il cielo è terso come una cartolina. Ma è difficile condividere con lei problemi e dispiaceri. Sa tenerseli dentro per non darmi pensieri e ansie. Ha per me protezione di madre. E io per lei ho segreti di figlia che mai direbbe alla propria madre, perché non capirebbe, si allarmerebbe, si dispererebbe per la propria impotenza a risolvere situazioni che più non le appartengono, data l’età, il mondo capovolto, una cultura che crea distanze abissali tra passato e presente. Tra me e Raffaella i ruoli sono stati vissuti, dunque, nella più impensabile delle anomalie, fuori dall’ordinario, a cui siamo per atavica convinzione e tradizione abituati.
Da sempre io sono figlia di mia figlia. Lei madre di sua madre.
E, come ogni madre, desidera un amore esclusivo da parte di sua figlia. E, come ogni figlia, desidera un amore esclusivo da parte di sua madre.
È questo il suo tormento palese, il mio tormento celato. E anche qui i ruoli si ribaltano. Lei, che non mi confida mai le sue pene, reclama a viva voce un “amore che faccia la differenza”. Io, che le dico tutto dei miei affanni e delle mie paure e delusioni, taccio sull’amore che le porto perché “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Ma oggi non posso fare a meno di dirglielo, dopo le parole accorate, sia pure velate di tenera ironia, che mi ha rivolto, coordinando, nel “magico cortile” della nostra antica casa, la bellissima serata di presentazione del mio romanzo (seconda parte), di cui hanno parlato magnificamente due meravigliosi amici e relatori: Valentino Losito e Mario Sicolo. Entrambi giornalisti. Il primo di lungo corso e all’apice di ruoli e compiti a livello nazionale, meritati a suon di penna; il secondo, più giovane ma non meno esperto e più romanticamente grintoso. Entrambi anche scrittori e poeti.
Ebbene, ancora una volta, durante la serata in cui si è parlato tanto del nonno, che ci ascoltava attentamente un po’ in ombra sotto il pergolato, ecco Raffaella che mi afferra l’anima con la sua invocazione d’amore. “Un amore che misuri la differenza tra presenza e distanza, tra il qui e ora e la lontananza e l’inevitabile procrastinare delle risposte attese”.
E io finalmente le rispondo:
“Bambina mia, l’amore provato e vissuto e donato è sempre un amore imperfetto, mancante della certezza della sua pienezza e intensità, perché recepito in maniera soggettiva, che fa i conti con l’attesa e le attese, con il proprio metro di misurazione e di valutazione, e con il senso di inappagamento che ogni amore lascia in chi lo riceve perché è incerta la quantità d’amore in possesso di chi lo dona.
L’unico amore certo è quello che si possiede, dunque?
Ma poi, si possiede davvero l’amore?
Ma allora come mai più lo lasciamo andare più diventa radicato nel cuore? E più lo tratteniamo e più ci sfugge, a volte soffocato proprio dalla stretta che non lascia libertà di essere e di agire?
Perché più viene dichiarato e più viene diluito il suo significato più profondo? Eppure, se non lo diciamo, rimane impredicato, nascosto, non recepito, non ascoltato, non compreso nella sua reale esistenza. Esiste solo per chi lo prova ma non esiste per chi non ascolta le parole che lo rendono visibile, anche se mai certo.
Come ogni cosa che non ha corpo, non occupa spazio, non ha una o più dimensioni visibili, anche l’amore non può essere toccato con mano, pesato, quantificato, percepito nella sua essenza, nelle sue qualità.
Possiede qualità l’amore? È frazionabile in bellezza, costanza, vicinanza, accudimento passione, tenerezza, forza, fiducia, protezione, esuberanza, allegria, complicità, molteplicità, singolarità, unicità?
Ed è riconducibile davvero alla sola parola AMORE?
Siamo tutti concordi nel definirlo come tale per poterlo vivere senza essere tratti in inganno da ogni pensiero soggettivo, dagli innumerevoli condizionamenti endogeni ed esogeni, che inevitabilmente lo snaturano, lo sviliscono, lo esaltano, lo mascherano, lo esibiscono, lo urlano o lo soffocano nelle spire della paura e nel bosco di ogni fuga e di ogni perdita dell’unico sentiero per fare ritorno al punto di partenza: l’improvviso batticuore nel conoscersi e riconoscersi tra migliaia di simili con l’infinito negli occhi e tra le mani?
E che dire del personale punto di vista: per me, per te, per lui, per lei…?
Quanto complesso e complicato l’amore. C’è persino chi nega la sua esistenza. Oppure gli fa uno sberleffo di scettico sarcasmo.
Alla luce di tutte queste considerazioni, diventa davvero impossibile conoscere e riconoscere l’AMORE.
E, se ci pensiamo un po’ di più, una tristezza senza fine ci assale… e un senso sconfinato di solitudine ci pervade.
 SIAMO SOLI. NELL’IMMENSITA’ DELL’UNIVERSO CHE CI SPAURA.
Sentiamo che abbiamo bisogno d’AMORE. Di amare ed essere amati. E sentiamo che solo l’AMORE ci rende felici. Ci rigenera. Ci dona nuova nascita e nuova vita.
Dunque, questo sentimento esiste? Ed è vivificatore?
Sì. Esiste. ll batticuore è là. Esplode quando meno te lo aspetti. Sia che si tratti del primo palpito di un semino sotto il cuore di una donna chiamata ad essere mamma. Sia che si tratti del primo attimo di vita tra le braccia di un uomo che s’innamora della sua paternità. Sia che avvenga tra due esseri umani l’esplosione del Big Bang che è tumulto incoercibile del cuore in andata e ritorno… e in espansione…
 E ci accorgiamo che l’AMORE è semplice come l’aria che respiriamo. È.
Che duri un attimo o una vita non importa.
Rimane un punto vivo, incancellabile, nell’eternità.
Per questo oggi voglio dedicarti, bimba mia, questi versi che ho scritto per te questa notte per dirti finalmente quello che vuoi sapere. Sì, esiste oggi il mio intimo, silenzioso sorriso, che tanto ti preme cogliere sulle mie labbra, per sapermi finalmente felice.
Ti regalo oggi il mio sorriso
luce di colorata felicità
da sempre attesa negli occhi
a farsi specchio della tua ansia
perché in gioia si tramutasse
il riflesso di mille e mille stelle,
per me raccolte su terrapieni
inventati, nel vuoto della mia sera
per accenderla di risate.
Clamore assordante fu
il battito del tuo cuore
vicino al mio in un palpitare
di giorni di stanca malinconia.
Ma complici io e mia madre
di un segreto dolcissimo
sotto un cielo che sapeva
di noi
riprendemmo a ridere,
dimentiche del tempo
e le stagioni del silenzio.
Rinacque l'incanto
delle tue parole ali di allodole
a ricamare i miei mattini
che ombre attraversarono
tra nuvole scure di pensieri
distanti e prigionieri.
Sogni mai afferrati
dalle tue mani
protese a farmene dono.
E oggi, vedi, solo per te sorrido
a rendere visibile l’Amore
che ti devo.
Con il sole che bacia i tetti
della tua mai spenta speranza
a sapere della mia gioia
di vivere.
(Nel giardino arso di sole
papaveri di fragili corolle ridono
a restituirci rinnovate intese d'allegria)
 Per te, Raffaella, e le tue mai contate primavere perché nata d’estate...”.

Ma scrissi questa lettera a Raffaella l’anno scorso, subito dopo quell’invocazione muta. Ma era estate ed io ero già partita per le irrinunciabili vacanze nel Salento. Non la strinsi al cuore. Non le detti il bacio atteso. Le parole volarono via web e si depositarono tra le spighe azzurre della lavanda in fiore e l’intrico delle lantane rosse e gialle che invadono l’aiuola più grande del giardino. Giunsero mai a lei? Non lo so. Neppure gli ostinati papaveri, che ostinatamente continuano a rinascere (dopo una sotterranea inondazione di acque divorate dalle idrovore) fra i mattoni del nostro passaggio tra i cancelli e la casa, mi hanno mai confidato della consegna delle mie parole attese e forse mai ricevute. Ancora una mancata risposta tra noi. Nonostante l’Amore.
Te le ripeto oggi con Amore. Ogni mamma in cuor suo sa la differenza, come ogni figlia, in cuor suo, la sa. Ma rimane racchiusa nel profondo del cuore perché ogni mamma e ogni figlia e ogni essere umano dà ciò che può perché quello che è “di più” non è il frutto di quello che è. Ogni altro di più è un inganno in quanto è uno sforzo che mina  l’autenticità e la veridicità del sentimento. Diamo agli altri quello che possiamo perché è il solo modo per dare quello che siamo. Autenticamente noi. E di questo dobbiamo essere fieri e appagati. È questo tutto l’Amore possibile. Forse mai misurabile. Ma è Amore. E se è, non necessita di alcuna differenza, alcuna misurazione. È.
A te, mia Raffaella, con l’Amore imperfetto che mi vive dentro.
                                                       mamma



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